Il suicidio e le sue complessità. Una conversazione con lo psichiatra Diego De Leo
Diego De Leo, medico psichiatra, lungo tutto l’arco della sua vita professionale si è occupato della prevenzione e della spiegazione delle dinamiche suicidarie, lavorando – fra le altre – per istituzioni come l’Università di Padova, la branca europea dell’OMS, la Griffith University di Brisbane (Australia), dove è anche direttore emerito del Centro Collaborativo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la Ricerca e la Formazione nella Prevenzione del Suicidio. Il professor De Leo è stato anche direttore del Dipartimento di Psicologia alla Primorska University, Slovenia, dello Slovene Centre for Suicide Research ed Editor-in-chief della rivista Crisis: The Journal of Crisis Intervention and Suicide Prevention. È titolare di un numero assai elevato di pubblicazioni scientifiche. La psicologa Tiziana Metitieri, che lavora come neuropsicologa clinica presso l’Ospedale Meyer di Firenze, lo ha intervistato per noi.
* * * * *
Quando una notizia di suicidio raggiunge la cronaca e viene riportata con toni sensazionalistici, spesso veicolando informazioni false e incomplete, oltre a perpetuare lo stigma verso tutte le persone coinvolte, può generare dei rischi e orientare misure improvvisate se non del tutto inadeguate.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un’esasperazione nella diffusione di notizie sui suicidi che hanno coinvolto bambini, fino alla pubblicazione di dati personali e alla completa identificazione dei coetanei e dei familiari, in particolare se non avevano provveduto tempestivamente alla propria protezione. Dei comportamenti suicidari, della loro complessità e della loro comunicazione ho parlato con il professore Diego De Leo, psichiatra e psicoterapeuta.
Parlare di suicidio vuol dire entrare nel mondo delle ultra-complessità quindi le semplificazioni sono sempre molto facili, spesso molto scritte ma poi generalmente portano poca comprensione perché semplificare una cosa vuol dire ottenebrarne mille altre.
Tiziana Metitieri – Professor De Leo, veniamo da settimane molto difficili nelle quali le linee guida sulla comunicazione del suicidio sono state del tutto disattese dai nostri media e in generale le modalità di comunicazione degli atti di autolesionismo sono lasciate all’aneddotica, al clamore e alla giustificazione dato il periodo emergenziale che stiamo vivendo. Secondo lei, l’attuale modalità di comunicare il suicidio può creare dei problemi?
Ne crea tanti perché è un richiamo a qualcosa che uno teme per sé e per i propri cari, per le persone significative, quindi ricorda che esiste una possibilità molto triste di anticipare il proprio exitus naturale in questo modo; è un richiamo a qualcosa che uno mette volentieri nel dimenticatoio anche per un istinto di conservazione. Già così, a livello molto profondo, è disturbante.
C’è anche un problema etico di base che riguarda la società che deve essere al corrente di quanto succede al proprio interno e quindi in questo lunghissimo dibattito di cui mi sono occupato molto nel corso della mia vita c’è sempre l’antinomia tra il tenere confidenziali le morti, soprattutto se si tratta di bambini, e invece mettere in guardia la popolazione anche da questa eventualità.
Si ha l’impressione che parlare di suicidio nei bambini sia ancora un tabù ma è un fenomeno documentato, per quanto raro.
Devo dire che abbiamo una letteratura scientifica vecchiotta su questo per vari fattori, da un lato la rarità del fenomeno nei bambini e il rallentamento nella raccolta o addirittura la mancanza di dati nella fascia da 5 a 9 anni perché questa è stata vietata a lungo in molti paesi mentre è comparsa solo di recente, dopo lunghe questioni, quella dai 10 ai 15 anni nelle nazioni più evolute. Inoltre, vista la rarità del fenomeno, c’è sempre la possibilità che pubblicare quei dati annualmente possa portare all’identificazione dei singoli casi e quindi ad aggiungere stigma alle famiglie dei sopravvissuti.
In Australia, ho vissuto in prima persona la polemica con l’istituto nazionale di statistica (Australian Bureau of Statistics), che ha accettato dopo molte mie insistenze di pubblicare dati raggruppati per anni, quindi facendo dei cluster di 5 anni per i soggetti in età tra 10 e 15 anni, evitando così il riconoscimento o camuffando il più possibile i profili. L’Australia era un paese di 20 milioni di abitanti quando si svolgeva questa diatriba e i casi di bambini suicidi si contavano sulle dita di una mano, con una certa prevalenza delle bambine e delle ragazze rispetto ai bambini e ai ragazzi. E, in effetti, questo è rimasto un trend che a livello internazionale si è mantenuto.
Le bambine o le giovani adolescenti riescono ad avere un livello di maturità che precede quello dei loro pari maschi e quindi affrontano i problemi della consapevolezza della scelta suicidaria molto prima. Su questo hanno influito anche fenomeni epocali di modificazione dei metabolismi, come per esempio l’anticipazione del menarca che nel corso del tempo ha guadagnato almeno 2 anni e quindi adesso avviene molto spesso intorno ai 10-12 anni rispetto ai 12-13 anni di una volta.
Da una sua revisione del 2015 emerge che anche i bambini possono presentare un’intenzionalità suicidaria.
L’idea che i bambini capiscano cos’è la morte, la sua irreversibilità, le sofferenze psicologiche e la sofferenza che questa comporta sui sopravvissuti, sui loro genitori, sull’ambiente circostante sono tutte questioni scarsamente esplorate. In passato, un vecchio studio canadese di Mishara (1998), fece una valutazione su un campione di bambini, collocando intorno ai 9 anni la consapevolezza di che cos’è la morte, sottintendendo con questo che prima di quell’età, in generale, la percezione del suicidio sia intesa come una sorta di game over, nel senso che finisce un’esperienza e ne comincia un’altra come nei videogiochi.
Questo studio è stato fatto 20 anni fa quando ancora la diffusione dei social non era ancora così radicata, quando la digitalizzazione non era così endemica e così acquisita.
L’era di internet ha favorito il rapido accesso a nuove conoscenze, indipendentemente dall’età, dallo stato socioeconomico e culturale, proprio per questo può esporre a nuovi rischi verso i quali anche noi adulti non siamo preparati.
La rivoluzione di internet ha reso la vita di queste giovani creature molto più complicata di quanto non poteva essere una volta. Quindi sono circolate informazioni potenzialmente pericolose che rendono problematica un’età che è già di per sé problematica. I più giovani hanno una resilienza limitata dall’assenza di esperienze di vita e spesso dall’assenza di figure genitoriali impegnate in lavori. A questo va aggiunta una reciproca caduta del dialogo tra genitori e figli che di certo non aiuta il superamento di crisi e fa vivere molto precocemente a livello individuale ogni tumulto, ogni tormento di questi giovani individui.
Non esistono filtri alle conoscenze che si possono acquisire attraverso internet e non si è sviluppata una vera coscienza di vigilanza e neanche di protezione da parte dei genitori. Quando sono bravi genitori, si limitano a controllare il tempo orario di utilizzo ma certo non vanno a controllare la qualità dell’utilizzo, non è che vadano a vedere la storiografia dei contatti dei propri figli. Puntano su un limite orario, un po’ come il governo inglese che ha fatto raccomandazioni su un utilizzo non eccedente le due ore per i soggetti di età inferiore ai 14 anni.
Questo dipende anche dal fatto che molti esperti negli ultimi anni hanno allarmato sui tempi di esposizione ai dispositivi digitali senza avere sufficienti evidenze scientifiche in merito e ignorando completamente il ruolo dei contenuti e la modalità attiva o passiva di fruizione. I genitori sono stati oggetto privilegiato di disinformazione che poi ha raggiunto anche i governi. A proposito di buone pratiche di informazione, volendo fare chiarezza tra i dati contrastanti che vengono diffusi, negli ultimi anni qual è l’andamento dei tassi di suicidi nel mondo?
Nella maggior parte dei paesi occidentali e anche globalmente il tasso di suicidi è diminuito. Spesso sento riportare questa cosa con molta enfasi, anche dai colleghi, ma c’è da ricordare che è diminuita anche la mortalità globale. Gli Stati Uniti sono uno dei pochissimi paesi al mondo in cui il suicidio sta aumentando in modo drammatico, con un incremento negli ultimi 20 anni di circa il 30%.
In generale, la mortalità globale è diminuita e il suicidio è diminuito, forse di qualche punto in più. Secondo i dati del Global Burden of Disease, dal 1990 al 2016 la mortalità è diminuita di più del 30%, quella del suicidio del 32%. Quindi certamente c’è uno scarto che, probabilmente visto in quest’ottica, è largamente dovuto non già ai programmi di prevenzione del suicidio, che sono ancora poco incisivi, ma è migliorata l’assistenza sanitaria globale e, per la maggior parte, dei paesi è migliorata anche la qualità della vita. Inoltre, è migliorata la possibilità di accedere a servizi, beni e strumenti e anche di ricreazione, con ripercussioni sulla qualità della vita dei soggetti e sulla loro capacità di connettersi con altri e di utilizzare risorse.
Un altro argomento recente che viene riportato con clamore sui media è l’associazione tra la pandemia e un incremento dei suicidi. Spesso in assenza di dati, queste notizie sembrano usate in modo strumentale per condizionare le decisioni politiche riguardanti le necessarie misure di protezione per ridurre la trasmissione del nuovo coronavirus. Come stanno le cose, dobbiamo aspettarci un incremento? E soprattutto, a quali dati possiamo affidarci?
Non sono sicuro di quello che ci dobbiamo aspettare. Con il mio istituto in Australia ho fatto uno studio pubblicato su Lancet Psychiatry, l’unico di questo genere, che esamina in tempo reale tutti le morti che sono avvenute nel Queensland.
C’è stato un sostanziale mantenimento del quo ante. In Australia, non ci sono stati aumenti significativi di morti per suicidio nei primi sei mesi della pandemia, da febbraio a luglio compresi. È uno studio unico, perché quell’istituto è ancora l’unico al mondo in cui i dati di suicidi sono condivisi immediatamente con la polizia. Sono riuscito a trovare un accordo con la polizia di stato perché riferisca immediatamente i sospetti casi di suicidio che poi valutiamo come casi possibili o probabili di suicidio. Con le informazioni su questi casi informiamo il governo perché rapidamente possa interpretare e eventualmente agire, ad esempio per controllare eventuali cluster di suicidi. La recessione economica potrebbe avere un impatto ma non abbiamo dati. Faccio parte di diverse commissioni, tra cui la IASP – International Association for Suicide Prevention -, che è commissionata dalle nazioni Unite e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la stesura di documenti sull’andamento del suicidio.
In un documento già inviato si fanno delle raccomandazioni, si segnalano fenomeni avvenuti nella prima parte della pandemia che ha registrato una diminuzione dei suicidi, così come sono diminuiti gli accessi al pronto soccorso, gli interventi chirurgici non elettivi, le visite specialistiche in generale e non ci si recava ai servizi di salute mentale perché ci si poteva contagiare.
Considerando tutti questi fattori, finora non è stato rilevato un reale aumento dei suicidi. Purtroppo, in Italia ci sono anche agenzie più o meno accreditate che sostengono che siamo di fronte a una strage di stato. Da dove vengono questi dati? Non li conosce nessuno questi dati, semplicemente perché nessuno in Italia ha un contratto con la polizia e i carabinieri per accedere ai registri di morte violenta. Se, ufficialmente, non sei in contatto con questi enti e il nostro sistema giudiziario non lo consente, allora evidentemente nessuno può dirci con esattezza e soprattutto in tempo reale che cosa sta accadendo. Quello che uno può fare è raccogliere i titoli di giornali e delle agenzie di stampa e dire cosa sta succedendo in base a questa copertura del tutto selettiva. Il rischio è che si faccia cattiva informazione potenzialmente dannosa. Il suicidio viene presentato come una catastrofe nella catastrofe, una reazione comune, accettata e comprensibile, vista la sofferenza generalizzata.
In effetti, se si collezionano gli articoli di giornali delle ultime settimane, il suicidio nei più giovani e negli adulti viene presentato come un’opzione plausibile in tempi di crisi oppure come conseguenza di una malattia psichiatrica.
Dobbiamo ricordarci che il suicidio è, bene o male, una forma di controllo individuale. Le persone hanno vissuto quest’epoca di spaventosa medicalizzazione del suicidio che è molto colpevole, a mio avviso, perché ha finito per avere valutazioni molto sbilanciate in senso psichiatrico di tutto il fenomeno. Ci si è illusi che la cura della depressione, soprattutto la cura della depressione con antidepressivi, fosse la chiave di volta, la ricetta un po’ cash and carry della prevenzione del suicidio, trascurando i molti motivi sociali, politici, antropologici e ambientali tradizionali che invece fanno da corollario molto pesantemente ai comportamenti suicidari.
Il controllo è uno degli elementi più trascurati nella ricerca sul suicidio, perché alla fine un individuo si trova imbrigliato in una struttura di società, di comportamenti e di aspettative che rappresentano una gabbia. Per sfuggire a questo sa che l’unica cosa che può fare, indipendentemente dagli altri, è togliersi la vita. Questo lo si coglie molto più evidentemente negli anziani che nei più giovani, anche se, in generale, i diari, i racconti, le ricostruzioni, questi strumenti molto imperfetti come le autopsie psicologiche, spesso guidano anche a idee di reazione, di protesta, di contestazione di quello che sta accadendo, di una vita che non si vuole e che si vede senza speranza reale di cambiamento. E quindi, il suicidio diventa l’ultima facoltà di autodeterminazione che rimane all’individuo.
Il comportamento suicidario viene dunque presentato e percepito come una strategia plausibile per la risoluzione dei problemi in situazioni di crisi.
L’enfasi che ancora manca e che non si riesce ancora ad inculcare nelle persone è un po’ una visione altruistica che, d’altra parte, cozza direttamente con una visione egoistica del suicidio, non in senso sociologico tradizionale ma espressa nel linguaggio comune come ‘vorrei morire perché non ne posso più di assaporare le sofferenze quotidiane’. Quello che manca è il seguito: ‘però facendo questo so che danno per il resto della loro vita, per esempio i miei genitori o le persone che mi stanno vicine, alle quali do non solo un dolore persistente negli anni ma anche motivante, lascio loro una limitazione’. Tutte queste considerazioni forse non hanno ancora ottenuto l’enfasi che meritano nelle campagne di prevenzione del suicidio. È come se ci si occupasse ancora degli attori protagonisti mentre le persone che sono ad assistere, che sono sul palco ma non sono sotto i riflettori, è come se fossero un po’ meno rilevanti.
Quello che si constata nella copertura mediatica dei suicidi è anche la sistematica mancanza di indicazioni sulle modalità per richiedere aiuto nelle situazioni di crisi assieme alla totale cancellazione del dolore dei sopravvissuti che vengono esposti a stigma o, se va bene, relegati in una sofferenza che diventa molto difficile da condividere. L’associazione De Leo Fund si occupa proprio delle persone che hanno perso qualcuno per suicidio.
Ci occupiamo di tutte le morti traumatiche, i miei figli sono morti in un incidente stradale, quindi abbiamo anche un certo numero di genitori e amici di chi è morto in un incidente stradale o altri incidenti. Però i numeri sono sproporzionati, diciamo che c’è un rapporto di quasi 4 a 1, di quattro suicidi per un morto per incidente stradale. La frequentazione di queste persone è superiore, così come è diverso il loro lutto, un lutto fatto di molta stigmatizzazione quello del suicidio, di molta rabbia, di molti perché. La rabbia è verso una società che non ha colto, verso sé stessi per non essersi accorti della sofferenza, per quello che si poteva fare per intercettare queste traiettorie mortifere e che non si è fatto, per capire fino in fondo quali sono stati i motivi che hanno spinto le persone ad agire, per i segni di allarme che non si sono colti. Insomma, quella del sopravvissuto diventa una vita accompagnata da questi perenni ‘perché’ che poi durano a lungo nel tempo. È una tortura continua, praticamente quotidiana. Seguiamo anche persone che sono con noi da una dozzina di anni e, quando le incontro, ancora si torturano, non trovano pace e magari alcune di loro fanno anche delle promesse suicidarie. Ad esempio, dicono ‘magari quando ho 75 anni mi ammazzo perché non voglio mica andare avanti ad essere dipendente, a fare una vita minore, una vita limitata, finché ci sono con la testa decido io’. Spesso vengono fuori questi discorsi, soprattutto in queste persone che dicono ‘tanto non ho più niente che mi sopravviva, non ho nessuno a cui dar le mie cose’. Un’altra preoccupazione molto concreta per genitori rimasti orfani.
Cosa spinge i sopravvissuti a mettersi in contatto con De Leo Fund?
Noi lavoriamo gratuitamente, siamo diventati una casa per queste speciali persone e loro vengono quando vogliono. La dinamica per venire è la solitudine, loro vengono per combattere la solitudine, che è una solitudine altamente specifica, è la solitudine di chi viene compreso solo da chi ha un altro lutto e sa che cos’è la stigmatizzazione, sa che cosa vuol dire cambiare marciapiede quando si incontrano le persone, sa che cosa vuol dire essere tormentati dai dubbi e dai rimorsi. Quindi se uno va in un posto dove sa di trovare altre persone che hanno vissuto le stesse esperienze si sente meno solo. Se uno vive invece nella società normale, diciamo indenne dal suicidio, sa di essere un pesce fuor d’acqua e di non poter essere compreso, anzi colpevolizzato, foriero di malattia mentale e di sofferenza.
Proprio questa società normale tende a esasperare la colpa e la vergogna sperimentate dai sopravvissuti, inchiodandoli, ancora di più di quanto non facciano loro stessi nelle torture quotidiane, alla responsabilità di non aver saputo prevedere il suicidio di un familiare o di una persona cara. Tuttavia, molto spesso il comportamento suicidario non viene pianificato da chi lo mette in atto. L’impulsività gioca un ruolo rilevante.
Su questo si basa tutta la prevenzione efficace del suicidio. Se noi ci chiediamo come facciamo a prevenire il suicidio e andiamo in cerca di evidenze scientifiche chiare, le troviamo solo dove abbiamo combattuto l’impulsività e quindi, per esempio, abbiamo messo le reti sui ponti iconici per i suicidi che vi sono avvenuti, sugli scogli da cui la gente si è buttata, come a Sidney. Ho fatto recintare il ponte di Brisbane, per esempio, dopo molti anni di sforzi, perché da lì la gente si ammazzava di continuo: dopo aver messo le reti non ci sono stati praticamente più suicidi.
Si potrebbe obiettare che la persona cambi metodo, che questi interventi portino a una sostituzione di metodo. Certo, ma questa implica una meditazione e una preparazione che altrimenti l’accesso facile a un’arma da fuoco, a un veleno, a un’altezza offrono. Da qui il controllo delle armi da fuoco come hanno fatto gli australiani, per esempio. In Australia si è instaurato nel 1996 un cooling off period, che significa che dopo aver fatto domanda per una pistola o per una carabina devo aspettare trenta giorni di tempo per averla e superare un esame medico. Durante questo periodo vado a raffreddare rabbia e impulsività che poi hanno ripercussioni anche sui tassi di omicidio. Se invece vado in un negozio negli Stati Uniti, esco con un sacchetto pieno di mitragliatori: c’è una differenza sostanziale.
La stessa cosa si può osservare nel mondo, un mondo che registra dati solo parzialmente. Il metodo di suicidio più comune è l’ingestione di pesticidi, sostanze accessibili a tutti i contadini dell’India e dell’Asia, paesi che da soli fanno un terzo della popolazione mondiale e da soli fanno anche un terzo dei suicidi. I suicidi in quei paesi avvengono soprattutto con l’ingestione impulsiva di queste sostanze. L’attuazione di programmi che hanno introdotto il doppio lucchetto nelle cassette contenenti il veleno ha ridotto l’impulsività e il numero di suicidi in un modo incredibile in quelle aree. Se si pensa che basti un rimedio così semplice per ridurre il suicidio, veramente si ha l’idea di quanto importante sia l’impulsività. È la stessa cosa per i luoghi che sono alti, come la Tour Eiffel, come molti ponti: se non ci metto le reti la gente continua ad ammazzarsi. L’impulsività è un movente. Questi sono solo alcuni esempi di controllo dell’ambiente, delle località, dei manufatti.
Ci sono degli edifici critici nei quali questi interventi di controllo dell’ambiente dovrebbero essere attuati? In fondo sono degli esempi di come una comunità si faccia carico di preservare la vita dei suoi componenti.
Purtroppo, in Italia è ancora praticato il suicidio in ospedale, soprattutto dagli anziani. Vanno in ospedale, hanno identificato una tromba delle scale appropriata. In questo modo nessuno a casa si occuperà di riparare lo scempio del cadavere che si spiaccica al suolo e quindi non avverranno queste cose al proprio domicilio. Ancora ci si pensa poco.
Durante il mio dottorato di ricerca in Olanda, allora era il tempio della ricerca sul suicidio e per questo andai a Leida, mi accorsi dopo poco che ero lì che l’istituto principale era quello dove c’erano stati un paio di suicidi di giovani che si erano buttati dalle balconate dei piani alti. Dopo poco vidi che avevano messo reti dappertutto. Questo è un simbolo di attenzione alla comunità. Anche questi messaggi sono importanti e noi non li diamo, sarebbero un elemento chiave nelle campagne di prevenzione: dimostrare alle persone che ci occupiamo della loro salute e della loro incolumità e li proteggiamo dall’impulsività.
Sono interventi, come le reti sui ponti, che sono sempre molto apprezzati, malgrado qualche protesta per i danni all’estetica. La maggior parte delle persone capisce che la municipalità si è occupata della salute dei cittadini e ha investito dei denari per far sì che i cittadini non si buttino da quel ponte. È una municipalità attenta e non una municipalità distratta e trasandata che lascia deperire e degradare gli ambienti e le situazioni. Perché anche il degrado è uno stimolo pazzesco al suicidio e non ce ne rendiamo conto. Le scuole deteriorate e lasciate andare sono ambienti in cui avvengono più suicidi che in quelle ben tenute. In quest’ultimo caso sono ambienti che incoraggiano alla vita. Il meta-messaggio che si ricava dal degrado è che come individuo non importi a nessuno. La scuola ha un ruolo, dalle sue strutture all’attenzione degli insegnanti. Per le esperienze che ho avuto in Italia nelle scuole, tutto avveniva con molto ritardo e con una finta segretezza che finiva per favorire ancora un ambiente più drammatico, che lasciava filtrare messaggi ancor più disturbanti, che fomentavano fantasie ancora più angoscianti.
Eppure, le scuole sono un nodo cruciale in una rete di prevenzione dei comportamenti suicidari. Ci sono diversi interventi che potrebbero essere attuati, dall’incremento della consapevolezza, alla promozione dell’integrazione e delle condotte prosociali, all’elaborazione del lutto.
Non ho una ricetta magica. Mi verrebbe da arrendermi di fronte a tutta questa complessità. Si fa presto a suggerire l’ideale ma poi bisognerebbe anche riuscire a trovare una dimensione realistica se non reale degli interventi che possono essere fatti. Sono anche un clinico e quindi seguo molti insegnanti e molti ragazzi. Ho fatto interventi su scuole dove erano avvenuti suicidi. I motivi sono tanti ma non dobbiamo pensare solo al bullismo come stiamo facendo adesso. Il bullismo avviene perché la gente lo fa accadere, permette che questo accada perché non protegge sufficientemente dall’accadere. Gli insegnanti oggi sono disperati perché non riescono a tenere le classi. Soprattutto nelle periferie ci sono istituti che raccolgono persone provenienti da aree più disagiate, con maggiori difficoltà di gestione. D’altra parte, i ragazzi soffrono loro stessi questo clima perché non si sentono protetti. L’istituzione e la gerarchizzazione dell’istituzione non riescono a garantire una frequentazione senza pericoli. Si trovano esposti in classe, fuori dalla classe e all’uscita di scuola a situazioni pericolose o potenzialmente pericolose. C’è molta più circolazione di droghe, altri fattori disgreganti assieme all’alcol.
“Sono disperata; vado male a scuola; non posso andare avanti così con i miei genitori; sono un peso per la gente che mi sostiene; non ce la faccio più a sopportare quest’angoscia. Non ho più voglia di lottare; odio la mia vita; non ho più niente per cui vivere”. Questo brano è tratto da una delle storie del suo libro, Un’altra vita, una storia in cui un intervento tempestivo e inaspettato ha cambiato un esito altrimenti scontato. In un brano poco più avanti si legge: “se fossi riuscita a suicidarmi non avrei mai conosciuto mio nipote e l’amore di una famiglia che stava facendo del suo meglio”. Perché è importante raccogliere e raccontare le storie di chi si è salvato da un’azione di auto-soppressione, da morte certa solo per un inimmaginabile imprevisto?
È importante almeno per due ragioni. In primo luogo, per far capire al lettore qual è l’escalation, qual è l’ipotetico tragitto che porta alla morte, anche perché le fantasie che ha la gente al riguardo sono probabilmente molto fuorvianti. Nel senso che il tragitto è anche piuttosto banale, è anche piuttosto rapido, sì ci sono dei precursori ma stiamo in guardia dall’immaginarci precursori particolarmente identificabili o altro, a volte sono cose sfumate o della vita di tutti i giorni che potrebbero appartenere a chiunque. La seconda ragione è che l’impulsività ha determinato spesso un ruolo fondamentale ma poi l’essere sopravvissuti a un tentativo letale di suicidio è come se fosse l’offerta di una nuova chance, di una nuova vita. Non solo, ci sono tante altre valenze, probabilmente, che non ho ancora esplorato, c’è del predestinato in questo, c’è la sensazione che il mio destino non era segnato in quella direzione, c’è la possibilità che io faccia una vita completamente diversa da prima, che il coraggio che io ho dimostrato in quell’atto sia davvero tale e tanto da farmi vivere con piglio diverso la vita che mi resta. Poi c’è anche l’idea che sono sopravvissuto e questo, se avevo una colpa, se c’era qualcosa di cui mi dovevo liberare, ecco me ne sono affrancato completamente adesso.
Queste morti scampate per un imprevisto lasciano messaggi fondamentali. Ci ricordano che quella suicidaria è una crisi fatta da un’acme ma anche da un’onda di ritorno, da un decrescere di quest’impeto. La crisi è l’elemento fondante della prevenzione del suicidio in clinica, l’attenzione è sul superamento delle ore o di quel paio di giorni che rappresentano la crisi suicidaria acuta. Tutto quello che può favorire il contenimento e il superamento, un piano di salvezza per superare quella crisi, può essere efficace per salvar le vite.
Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al numero 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.
Immagine in evidenza: Foto di Heather Plew da Pixabay.