Clima, giovani e attivismo: intervista a Elisa Palazzi
Lo scorso mese di gennaio abbiamo avuto il piacere di nominare la climatologa Elisa Palazzi socia emerita del CICAP. Andrea Ferrero l’ha intervistata per Query Online, a proposito del suo nuovo ruolo, degli obiettivi della comunicazione scientifica e dell’importanza dei giovani nei confronti della società e della scienza.
Si ringrazia Beatrice Schembri per la trascrizione dell’intervista.
Se nei primi anni il CICAP si occupava soprattutto di paranormale, spiritismo e astrologia, col tempo è passato a temi più complessi e di maggiore attualità come le pseudoscienze e il complottismo, sempre con l’obiettivo di promuovere la diffusione dello spirito critico. Uno dei temi trattati oggi è il negazionismo climatico, che tocca il tuo campo specifico. Secondo te, che cosa può fare il CICAP in proposito?
Penso che il CICAP possa fare moltissimo. Un’impresa utile è quella di aiutare tutti noi a costruire una mentalità più scientifica, in modo da capire meglio la complessità, ovvero l’intreccio di tanti elementi, tutti interconnessi da fili invisibili, dentro il quale siamo immersi. Il clima di per sé è un sistema complesso; lo è anche la pandemia, e in generale molti fenomeni hanno un carattere complesso. Si tratta certamente di un concetto alto da un punto di vista scientifico: senza pretendere che le persone entrino in tutti i dettagli di una questione, sarebbe già importante far comprendere loro che si tratta di meccanismi complessi, e che pertanto prendere decisioni è complicato – ma non impossibile.
Rendersi conto della complessità significa ragionare in un contesto dove l’incertezza esiste, ma senza per forza vederla come un fatto negativo. Conoscere un determinato fenomeno solo in parte non equivale a non sapere niente: al contrario, spesso vuol dire avere davanti possibilità diverse entro le quali muoversi, operando scelte per determinare in qualche modo il futuro che ci si para davanti. È quanto avviene con il clima: le proiezioni climatiche non sono previsioni certe di ciò che accadrà, ma un ventaglio di possibili scenari che aiutano a pianificare meglio i percorsi di mitigazione o adattamento. Attraverso una comunicazione corretta possiamo mostrare come la complessità e l’incertezza siano elementi intrinseci alla realtà, e in molti casi un valore aggiunto.
È inoltre utile aiutare le persone a sviluppare il senso critico, come si propone di fare il CICAP. Occorre del tempo per acquisire una mentalità scientifica, perché non è facile né immediata; non si impara leggendo un paio di articoli o di post sui social, ma richiede un lavoro fine, costante e impegnativo. Credo che il CICAP possa aiutare molto entrando nelle scuole, uno dei luoghi più importanti dove condurre il nostro lavoro di comunicazione e divulgazione scientifica. È proprio a scuola, dove il percorso di formazione e di crescita è per definizione lento e lungo molti anni, che si dovrebbe imparare il senso critico. Prevedere l’introduzione di questi elementi nei programmi ministeriali sarebbe un bell’impegno per il CICAP. Sarebbe bene insegnare a ragionare su quello che vediamo e sentiamo, a non fermarsi alla prima cosa che si legge, a valutare l’importanza delle fonti.
Che cosa si può fare invece con gli adulti, che magari hanno già pregiudizi consolidati?
Escludendo una minima parte di individui “irrecuperabili” (coi quali purtroppo nessuno sforzo sortisce quasi mai effetti), esiste una fetta amplissima di persone che sono semplicemente scoraggiate e che, di fronte a un problema, hanno una reazione di paura o di repulsione. Spesso ciò avviene perché la questione è stata comunicata in maniera scorretta: da una parte trasmettendo solo un sentimento negativo, dall’altra considerando le persone come collettori di dati e bombardandole di figure, grafici, foto e immagini. È il cosiddetto “modello del deficit di informazione”; lo vediamo ad esempio con la questione della crisi climatica.
Mi occupo di divulgazione da molti anni. All’inizio, anch’io esponevo i dati scientifici in modo competente, ma freddo. Nel corso del tempo ho cambiato il mio approccio e ho provato a instaurare un rapporto di fiducia con il pubblico, raccontando qualcosa di me, mettendoci di più la faccia, accorciando la distanza fra me e gli ascoltatori: questo secondo me aiuta gli adulti a sentirsi sia coinvolti nel problema, sia parte della soluzione. Per esperienza, dunque, direi che possiamo lavorare su due aspetti: cercare di puntare su informazioni positive, parlando di soluzioni concrete e alla portata di tutti; e raccontare storie, che fanno leva sul nostro lato emotivo e giocano sul nostro senso di meraviglia e di curiosità. Possiamo condividere storie personali, storie di scienza e degli scienziati che la fanno, storie di resilienza di fronte a un problema… Le storie che parlano della natura, per esempio, aiutano ad amarla di più e fanno nascere la voglia di conoscerla meglio; da lì a volte scatta anche l’interesse per azioni concrete.
Se pensiamo alla questione climatica, vediamo che ormai i suoi vari aspetti sono raccontati da molti altri linguaggi, non solo quelli della scienza naturale. Trovo molto utile e positivo il connubio fra scienza e arte, letteratura, musica; quando mondi diversi si mettono insieme per raccontare qualcosa, c’è molta più possibilità che il messaggio sia percepito. Si organizzano sempre più eventi del genere dove si utilizzano insieme i diversi linguaggi; sta diventando una modalità piuttosto consolidata e, a parer mio, vincente.
È importante poi riuscire a creare un bel rapporto di fiducia e di empatia con chi ci ascolta. Dovremmo far capire che naturalmente ci poggiamo su conoscenze solide e abbiamo dalla nostra il rigore della scienza, ma al tempo stesso siamo persone anche noi, ognuno con le proprie esperienze, e anche noi viviamo le stesse problematiche nella vita quotidiana.
Coinvolgere le persone facendole sentire parte attiva, e non semplici destinatari di una lezione impartita dalla cattedra, richiede un cambio di approccio rispetto al passato. Un’altra differenza con il passato è che un tempo molti scienziati non si interessavano a contrastare credenze false o pseudoscientifiche, anzi questa attività era vista come un impegno secondario. Qual è oggi, secondo te, la sensibilità della comunità scientifica in proposito?
Trovo che in generale la sensibilità sia molto più spiccata. In effetti in passato ci si occupava molto meno dell’aspetto comunicativo, forse perché la diffusione dei risultati al di fuori dalla comunità scientifica era considerata un aspetto ancillare se non addirittura una perdita di tempo; adesso, invece, noto una convinzione molto più grande. Per quanto riguarda il mio ambito, il clima, anch’io che ero sempre stata molto coinvolta nell’ambito comunicativo lo sono diventata ancora di più in tempi recenti, mentre chi prima non era affatto coinvolto ora comincia a esserlo. La svolta vera e propria è avvenuta circa due anni fa, quando per la prima volta noi scienziati e ricercatori ci siamo sentiti tirati in ballo dai giovani. È stata un’esplosione molto repentina, forse frutto di qualcosa che si stava già creando sottotraccia lentamente, ma innescata proprio dai movimenti dei ragazzi.
I giovani sono stati molto in gamba nel chiedere insistentemente un atto di responsabilità agli adulti. Si sono rivolti a noi perché avevano bisogno di aiuto con la parte scientifica che stava dietro alle loro istanze; volevano trovarsi preparati, con rigore scientifico, di fronte a chi avesse chiesto loro il motivo degli scioperi per il clima. Forse qualche adulto (scienziati compresi) si sarà sentito in colpa nel vedere che i giovani hanno agito in un modo mai fatto dai grandi, rinunciando addirittura alla scuola o alle attività tipiche della loro età.
Mi sembra che si sia instaurato un bellissimo rapporto di fiducia reciproca e di complicità tra giovani e scienziati. Da parte della scienza noto un entusiasmo maggiore, un desiderio di comunicare davvero con chi abbia voglia di ascoltare. Ci occupiamo maggiormente di comunicazione anche nelle scuole, sempre grazie a una maggiore richiesta. In aggiunta agli incontri di tanto in tanto, un aspetto importante da affrontare è la predisposizione di percorsi strutturati per i docenti; gli insegnanti stessi chiedono di essere formati e aggiornati su questi temi, così da essere in grado di portare gli argomenti in classe in autonomia. Ma ci tengo a sottolineare che dobbiamo ringraziare i giovani per questo maggiore coinvolgimento da parte del mondo della scienza.
È positivo che si sia potuto colmare in questo modo il distacco tra scienza e società. Fa sperare che la scienza divenga finalmente patrimonio di tutti: che venga così riconosciuta la sua importanza, che si tenga conto della complessità nell’affrontare i problemi e che tutto ciò avvenga non per spinta dei soli scienziati, ma per una richiesta avanzata dalla società stessa.
Proprio per quello è emblematico il rapporto biunivoco nato fra i ragazzi che volevano una mano per dare un fondamento scientifico alle loro istanze, e gli scienziati che non si sono affatto tirati indietro; ci hanno guadagnato entrambi. Questo è stato molto utile a diffondere la percezione corretta della crisi climatica non solo tra i giovani dove è ampiamente consolidata, ma anche nel resto della popolazione.
Infatti è così che spesso nascono i cambiamenti, dalla richiesta dei giovani in casa, alle loro famiglie, di fare qualcosa di concreto; capita spesso coi più piccoli, che a casa insegnano ai genitori a fare le cose nel modo giusto. A fronte di una richiesta di una persona che ami non ti tiri indietro. Forse dovremmo avere lo stesso sentimento di amore verso gli ecosistemi nei quali siamo immersi, in modo da animare la protezione, l’attenzione, la cura per l’ambiente e per il clima. Se una persona amata si ammalasse, vorremmo per lei tutte le cure possibili e ci faremmo in quattro: dovremmo provare a trasferire questo senso di protezione nei confronti della natura.
Perciò parlo dell’importanza di raccontare storie. La narrazione e l’immaginazione aiutano a far scattare la molla emotiva che porta ad agire. È giusto anche far capire come avviene il processo scientifico, visto che servono tempo e impegno a raccogliere i dati e a consolidarli, ma insieme a questo rigore serve il resto.
A proposito della differenza di atteggiamento fra ragazzi e adulti, nei primi vediamo sicuramente una maggiore consapevolezza.
Secondo me nei ragazzi ci sono due elementi che forse mancano negli adulti. Il primo è la capacità di immaginare un futuro migliore. La proiezione dei pensieri, persino l’utopia non sono inutili, anzi è bene porsi dei traguardi alti e belli. Il secondo è la parte concreta: i giovani hanno idee, chiedono, si informano, provano a capire quali possano essere le soluzioni.
È chiaro che poi non basta: i giovani sono giovani, manca loro un sacco di strada da fare e conoscenze da acquisire; sono necessari anche i tecnici per sapere quali soluzioni siano davvero fattibili. Ma prima bisogna essere in grado di immaginarle, anche andando un po’ oltre la fattibilità. Invece gli adulti hanno un po’ perso quella capacità di spingere il proprio pensiero oltre l’orizzonte, che però non dovrebbe mancare.
Quando il CICAP ha iniziato a occuparsi del cambiamento climatico, oltre dieci anni fa, c’era una certa dicotomia: da una parte il netto consenso scientifico sulla situazione, dall’altra una controversia più mediatica che reale, con scienziati che mettevano in dubbio la posizione della comunità ma che spesso non erano specialisti del settore. Pensi che si siano fatti progressi a livello di media e comunicazione nel raccontare questa situazione, oppure no?
Ci sono ondate cavalcate ogni tanto dai cosiddetti negazionisti climatici, anche in Italia, benché per fortuna il fenomeno sia diminuito e forse non ci siano più casi eclatanti. Tuttavia c’è ancora un ampio margine di miglioramento. Il mondo della comunicazione continua a cadere (volontariamente o meno) in tanti tranelli; dà ancora troppo spazio a chi mette in dubbio la scienza del clima o l’esistenza della crisi climatica, o a giornalisti non adeguatamente preparati e formati per parlare di questi temi. Non dovrebbe più essere possibile leggere sulla carta stampata cose che lasciano trasparire confusione tra tempo meteorologico e clima, o approfittare di quella confusione per dare spazio a un pensiero di negazionismo del cambiamento climatico o della sua attribuzione.
Come dicevo all’inizio, riuscire a farsi una mentalità scientifica richiede tempo. La comunicazione è più difficile quando ciò che si dice va contro quello che ci sembrerebbe più intuitivo; occorre impegno per evitare di cadere in errore se quanto ci appare intuitivo o evidente dalle nostre esperienze va in contrasto coi dati scientifici. Purtroppo nel tranello cadono anche molti scienziati che si esprimono su argomenti al di fuori del loro ambito di competenze. Ciò non significa che non possiamo avere un’opinione, ma che questa può essere totalmente sbagliata. Serve un po’ di fiducia nella scienza, e non bisogna fare affidamento sulle nostre sensazioni ed emozioni se non siamo del campo.
Negli anni il CICAP è passato dal semplice smentire bufale e false notizie al cercare di costruire una mentalità scientifica, concentrandosi sugli strumenti, sulle conoscenze, sulla maniera di ragionare; un lavoro che richiede tempo, ma alla lunga più efficace dello smentire volta per volta le singole affermazioni. Ti sembra che questa strada sia valida anche nella tua esperienza di divulgazione?
Sì, sono totalmente d’accordo con questa via. Possiamo rispondere puntualmente in casi particolari, per non far correre credenze eclatanti, ma alla lunga è come risolvere ogni volta un’emergenza senza creare le condizioni perché il danno non si ripeta. Come dicevamo, servono la giusta formazione e un lavoro continuo, sia nelle scuole, sia nelle università, sia attraverso gli eventi pubblici che mescolano diverse discipline. La strada più efficace è lavorare sulla formazione del pensiero critico e sull’educazione in generale. Non dovremmo lasciar perdere l’attualità, ma oltre a intervenire quando è necessario, dovremmo fare un lavoro di fondo più costante e continuativo.
A proposito dell’università, sarebbe bello dare la possibilità agli studenti di seguire qualche ora o modulo sulla comunicazione di certe tematiche, come nel mio corso (fisica del clima). Sarebbe bene che corsi presi da facoltà diverse si parlassero di più, mescolando le competenze. Anche ai fini dello svolgimento del proprio lavoro, per gli studenti sarebbe utile avere input diversi.