Il mito del cervello tripartito
articolo di Stefano Spina *
Negli anni ’40 del secolo scorso le neuroscienze erano ancora agli inizi dello studio del rapporto mente-cervello: si sapeva che, in qualche modo, le funzioni mentali erano localizzate nel cervello, ma poco più di questo. La frenologia, che nell’800 aveva proposto una soluzione a questo problema, era ormai tramontata, e con essa la convinzione di aver trovato le esatte aree cerebrali responsabili delle funzioni mentali.
In questo clima di incertezza, alcuni scienziati erano alla ricerca delle aree cerebrali coinvolte nell’esperienza delle emozioni. Un autore aveva già suggerito il ruolo di una serie di aree, situate proprio in mezzo al cervello [1]; e un fisiologo, Paul MacLean, partì proprio da questa proposta, ci aggiunse alcune aree, e per descriverle coniò nel 1952 il termine “sistema limbico” [2], in uso ancora oggi – ma il suo ruolo nell’esperienza delle emozioni è più complesso di quanto si pensava in origine.
Era il momento giusto per le speculazioni: In questo quadro di conoscenza assai generale, MacLean partì da questo sviluppo ed elaborò la sua visione di com’è organizzato – e di come si è evoluto – il cervello umano, e nel 1969 introdusse la celebre, ma ormai screditata, idea del cervello tripartito [2]. Secondo questa ipotesi, oggi appunto dimostrata infondata, il cervello umano sarebbe diviso in tre parti ben distinte, eredità dell’evoluzione. Il nucleo, la parte evolutivamente più antica, sarebbe il cosiddetto cervello rettile, responsabile dei comportamenti necessari alla sopravvivenza: fame, sete, lotta per il territorio, eccetera. Sopra di esso, più recente, si troverebbe il cervello dei primi mammiferi, coinvolto nell’esperienza delle emozioni: sarebbe il sistema limbico stesso.
Infine, intorno a esso si troverebbe il cervello dei mammiferi più recenti, sede delle cosiddette facoltà superiori [3, pp. 375-377].
Ciascun cervello sarebbe comparso con l’evoluzione, uno strato dopo l’altro. Nelle parole dello stesso MacLean, «[L]’uomo ha ereditato la struttura e l’organizzazione basiche di tre cervelli, due dei quali sono piuttosto simili a quelli degli animali […]. Si sono evoluti all’incirca come una casa a cui vengono aggiunte ali e sovrastrutture» [3, p. 374; traduzione mia]. MacLean iniziò un programma di ricerca per supportare questa ipotesi, e la promosse in giro per il mondo, fino a scriverci un intero libro [4].
Purtroppo questa ipotesi è sbagliata sotto diversi punti di vista. Lo spiega un recente articolo, uscito su Current Directions in Psychological Science [5] (i dati di questo articolo, tra l’altro, sono aperti al pubblico al link https://osf.io/r6jw4/). Questa Ipotesi è talmente errata, spiegano gli autori, che non viene più presa in considerazione per spiegare l’evoluzione del cervello – tanto che le pubblicazioni di MacLean non vengono mai citate dai neuroscienziati come possibili spiegazioni dell’evoluzione del cervello.
Innanzitutto l’evoluzione non procede affatto in modo lineare, ma piuttosto “a cespuglio”: specie diverse evolvono da un antenato comune, seguendo linee evolutive indipendenti, dettati da molti fattori. Come conseguenza, strutture cerebrali complesse sono emerse più volte nel corso dell’evoluzione. Un esempio sono i cefalopodi, il cui sistema nervoso è particolarmente sviluppato; per questo motivo le piovre sono decisamente intelligenti [6]. Pensare che gli esseri umani siano lo stadio finale di una marcia verso la perfezione è sbagliato.
Come seconda cosa, a cervelli più grandi non corrispondono necessariamente funzioni più complesse, e viceversa. Una specie può esibire comportamenti complessi anche senza un cervello di grandi dimensioni: lo provano gli insetti e le formiche, che esibiscono comunicazione simbolica, strategie di costruzione del consenso, controllo del clima del nido e persino guerre territoriali pur avendo un numero limitato di neuroni [7]. In breve, la relazione tra dimensioni del cervello e complessità del comportamento ha molte più sfaccettature.
Terzo, e più importante di tutti, l’evoluzione non procede aggiungendo le parti nuove sopra a quelle vecchie, ma adattando quelle vecchie a delle nuove funzioni. Questo vale tanto per le parti del corpo quanto per il cervello: così come le mani umane, le pinne pettorali dei delfini e le ali dei pipistrelli si sono evolute a partire dalle stesse strutture, anche i cervelli di tutti i vertebrati si sono evoluti indipendentemente ed esibiscono le stesse strutture cerebrali di base – che hanno semplicemente dimensioni diverse.
Immaginare l’evoluzione come un progresso lineare verso la perfezione è più intuitivo, e immaginare l’uomo in vetta, capolavoro ultimo di questo progresso, seduce la nostra autostima. Ma i percorsi dell’evoluzione e la neurobiologia sono altra cosa. Anche l’idea del cervello tripartito deriva da incomprensioni di questo tipo, che rischiano di radicarsi insieme a errori grossolani come l‘idea della “marcia del progresso” [8].
I danni sono ancora maggiori in accademia. Gli autori dell’articolo infatti hanno esaminato venti libri di introduzione alla psicologia: solamente 14 citavano l’evoluzione del cervello, dei quali solo due in modo accettabile dal punto di vista neurobiologico. Quindi gli psicologi imparano da studenti la versione dell’evoluzione sbagliata, e da ricercatori elaborano teorie con assunzioni sbagliate. Ne sono un esempio alcune famose teorie della psicologia sociale, le cosiddette dual-process theories. Queste distinguono due tipi di funzioni psicologiche: uno rapido, efficiente, istintivo, ma spesso impreciso; l’altro lento, faticoso, razionale e più preciso. Questa distinzione di solito è posta in una sorta di narrazione evolutiva, che prevede – ancora una volta – un progresso dagli animali, prede degli istinti, agli umani, più logici e razionali. Tralasciando che anche gli umani sono animali, sia gli uni che gli altri agiscono in un mondo imprevedibile e devono costantemente prendere decisioni sulla base di costi e benefici, sia attuali che futuri.
In conclusione, sembra che non siamo ancora abbastanza intelligenti da capire quanto siano intelligenti gli animali [9]; e palesemente abbiamo anche qualche problema a capire l’evoluzione.
Bibliografia
[1] Papez, J. W. (1937). A proposed mechanism of emotion. Archives of Neurology & Psychiatry, 38(4), 725-743.
[2] Newman, J. D., & Harris, J. C. (2009). The Scientific Contributions of Paul D. MacLean (1913–2007). The Journal of Nervous and Mental Disease, 197(1), 3-5.
[3] MacLean P. D. (1967) The brain in relation to empathy and medical education. The Journal of Nervous and Mental Disease, 144(5), 374-382.
[4] MacLean, P. D. (1990). The Triune Brain in Evolution: Role in Paleocerebral Functions. New York: Plenum Press.
[5] Cesario, J., Johnson, D. J., & Eisthen, H. L. (2020). Your Brain Is Not an Onion with a Tiny Reptile Inside. Current Directions in Psychological Science, 29(3), 255-260.
[6] Borrell, B. Are octopuses smart?. Disponibile all’URL https://www.scientificamerican.com/article/are-octopuses-smart/
[7] Chittka, L., & Niven, J. (2009). Are Bigger Brains Better? Current Biology, 19, R995–R1008
[8] Rolando, R. Alle radici dell’Homo sapiens. Disponibile all’URL https://www.queryonline.it/2017/02/06/alle-radici-dellhomo-sapiens/
[9] De Waal, F. (2016). Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? Milano: Raffaello Cortina.
* laureando presso il corso magistrale in Applied experimental psychological sciences, Università di Milano-Bicocca.
Grazie per questo Articolo di aggiornamento, Stefano. Era ora! Mi lasci tirare un po’ di somme sul rapporto tra il Cervello Materiale, fatto di componenti anatomiche studiabili, in Teoria, come le componenti del Tessuto Scheletrico, e l’ insieme dei comportamenti e dei pensieri, delle emozioni, delle decisioni, e tutte quelle espressioni che una volta si facevano appartenere alla Mente, o, addirittura all’ Anima? Quell’ insieme di espressioni meno identificabili nell’ Anatomia, che fanno l’ Uomo da studiare in Psicologia e Psichiatria? La Ricerca Scientifica parte oggi dal presupposto che queste espressioni “non palpabili a mano” risiedano comunque nel nostro SNC. Se questa ipotesi fosse vera, prima o poi dovremmo arrivare a conoscerne le possibilità di manovrarle e riprodurle in softwares. Ma se appartenessero ad un nostro alter ego non materiale, (chiamalo come vuoi, io, per comodità, continuo a chiamarl/a/o Anima) avremo sempre delle contraddizioni difficili da risolvere tra le ipotesi scientifiche e i comportamenti, sia umani che animali, i quali continuerebbero ad avere larghi margini di imprevedibilità e ingovernabilità. Specie se c’è una relazione tra l’ Anima ed il Corpo che sconfina nel campo fisico. In questo caso solo se l’ Anima avesse una localizzazione precisa, in una parte almeno delle cellule nervose, o alcuni mediatori biochimici, potremmo sperare di conoscerne il comportamento. In assenza sia di una localizzazione precisa, sia di una separazione netta che ci consenta di vederla e studiarla con apparecchiature in grado di rilevarne eventuali onde elettromagnetiche o particelle elementari da lei emesse, (Kirlian ebbe questo tipo di pretesa) non potremo mai sperare di conoscerla scientificamente.
Grazie dell’articolo. Le chiedo se nelle dual-process theories include anche Kahneman e i suoi pensieri lenti e veloci. Se così, mi suggerisce qualche fondata critica ad essa?
Cordiali Saluti,
Carlo Camilli
La domanda è rilevante e pertinente, ma l’autore dell’articolo su Current psychology a cui si fa riferimento nel pezzo non menziona Kahneman, nonostante faccia riferimento alla diffusione di questo tipo di teorie in diversi ambiti della psicologia, quindi è improbabile che l’omissione sia casuale.