Il liocorno di Moncalieri
Giandujotto scettico n° 84 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (11/03/2021)
Ci son due coccodrilli e un orangotango;
Due piccoli serpenti; un’aquila reale;
Il gatto, il topo, l’elefante: non manca più nessuno.
Solo non si vedono i due liocorni.
Se anche voi, ascoltando la canzoncina del 1976, vi siete chiesti dove fossero andati i liocorni, forse abbiamo la soluzione. Almeno uno venne esposto, per un po’ di tempo, in una vetrina di Moncalieri, alle porte di Torino.
Era il 3 ottobre 1959, quando Stampa Sera lanciò la notizia bomba: Tengono segreto il posto dove si trova il liocorno. L’articolo era corredato dalla fotografia di uomo di mezza età che mostrava all’obbiettivo due cimeli di difficile identificazione. Si chiamava Mario Chicco, e quello che faceva vedere con una certa soddisfazione era “il collo del femore del liocorno”. Spiegava il quotidiano:
Nella bottega d’un barbiere, a Borgo San Pietro di Moncalieri, è esposto da qualche giorno uno stranissimo oggetto. Pare, a prima vista, un grosso sasso grigio; ma se lo si osserva bene si scopre che è un gigantesco osso pietrificato. È un pezzo di femore di un misterioso animale preistorico morto centinaia di migliaia di anni fa su una collina di Tigliole Ferrere, presso Asti. La parte terminale tondeggiante che costituiva l’articolazione della zampa è più grossa della testa di un uomo e pesa circa 12 chilogrammi.
Ma come era finito quel reperto nella cintura torinese? Il fossile (o presunto tale) era stato trovato quindici giorni prima da un contadino, arando un nuovo campo. Mario Chicco (lo vediamo nella foto di Stampa Sera con il presunto femore), che si divertiva a raccogliere “ogni genere di anticaglie”, si era precipitato a comprarlo. Aveva deciso che sarebbe diventato il primo pezzo della sua nuova collezione. Per il momento lo teneva esposto in bottega.
Ma i suoi propositi erano ben altri: aveva intenzione di tornare a Tigliole Ferrere e scavare nel punto dove era stato trovato il femore. Avrebbe portato alla luce lo scheletro intero, ricomposto la bestia mostruosa e l’avrebbe trasportata a Moncalieri. Per ora, aveva soltanto quell’osso e un grosso dente. Ma in futuro, chissà…
Ovviamente, Chicco si rifiutava di rivelare a chiunque il nome del contadino e il luogo del ritrovamento; aveva paura che qualcuno gli rubasse il tesoro. Perché per lui quella non era un fossile qualsiasi: poteva benissimo trattarsi del leggendario liocorno!
Se non avete mai sentito parlare di questa storia, è perché i piani del barbiere con l’hobby delle anticaglie non andarono in porto. La Stampa non tornò più sull’argomento, e possiamo presumere che null’altro venne trovato.
Saremmo tentati di liquidare questa storia con un sorriso, ma è necessario fare una considerazione – anzi due. La prima è che gli scheletri di liocorni popolarono davvero i libri di scienze naturali e i cabinet de curiosités per molti secoli. I fossili, fino a quando non divennero oggetto di studio della paleontologia, erano considerati anomalie geologiche, esseri viventi pietrificati, oppure resti di animali antidiluviani – vissuti, cioè, prima dei tempi di Noè. Vi ricordate la canzoncina che abbiamo messo in apertura, vero?
Non era raro che tra questi si immaginassero anche grifoni, ciclopi e altre creature mitologiche. Nel Diciassettesimo secolo, ad esempio, diverse ossa furono rinvenute nella cosiddetta caverna dell’unicorno di Magdeburgo (Germania). Lo scheletro, ricostruito in forma di animale con due zampe e un lungo corno sulla fronte, fu considerato autentico anche da uno studioso del calibro di Gottfried Leibniz. Solo nel 1872 uno scavo sistematico stabilì che si trattava di fossili di animali estinti, per lo più leoni delle caverne e lupi. È meraviglioso pensare che un barbiere di Moncalieri abbia potuto perpetuare questo mito nel cuore del Ventesimo secolo, trasformando per qualche settimana la sua bottega in una piccola Wunderkammer settecentesca.
La seconda considerazione è che quell’improvvisa popolarità dei fossili, nel 1959, traeva forza da un ritrovamento reale, avvenuto pochi mesi prima proprio a due passi da Tigliole. È la storia della balenottera di Valmontasca, frazione del comune di Vigliano d’Asti.
Era il marzo di quell’anno, quando, durante gli scavi per l’acquedotto, vennero alla luce alcune ossa fossilizzate. Inizialmente si pensò a un ittiosauro, poi il paleontologo torinese Camillo Richard fornì la corretta identificazione: si trattava di una balenottera preistorica. Nel Pliocene l’Astigiano era ancora un golfo che si congiungeva con il mar Tirreno attraverso il colle di Cadibona, e ritrovamenti del genere non erano così insoliti.
A parlarne fu La Stampa del 24 marzo, seguita da un aggiornamento pubblicato il giorno seguente: a Valmontasca c’era uno scheletro quasi completo e lungo più di sette metri, guardato a vista da due contadini per evitare furti da parte di approfittatori e collezionisti. Per il recupero si stavano cercando 150.000 lire. Da lì in avanti, il quotidiano torinese tornò sovente a parlare di fossili. La Stampa del 31 marzo 1959, ad esempio, sosteneva che I contadini hanno paura degli animali preistorici. Resti di animali preistorici venivano talvolta trovati nelle campagne dell’Astigiano, ma i proprietari dei campi li ricoprivano senza farne parola con nessuno, temendo fastidi con la Soprintendenza. Così non accadde, per fortuna, nel caso di Vigliano. Nel frattempo, l’Istituto di geologia dell’Università di Torino era riuscito a trovare i fondi: lo sterro poteva cominciare.
Le operazioni di recupero durarono ventisei giorni circa, ma generarono anche una lunga polemica: a darcene conto sono gli articoli de La Stampa del 20 e 28 aprile. Il primo s’intitolava I contadini vogliono tenersi il loro mostro antidiluviano. A quanto pare, gli abitanti di Vigliano d’Asti non erano disponibili a cedere la loro balenottera a Torino; il trasporto del cetaceo, che doveva avvenire il giorno 19, fu rimandato di un paio di settimane a causa della “larvata ostilità” della gente del posto. Anche il sindaco era d’accordo (c’è da stupirsene?) con i suoi compaesani e chiedeva all’Università un indennizzo di 600.000 lire. “Troppo cara?”, chiedeva – “Allora ce la teniamo noi”. La seduta più recente del consiglio comunale, d’altra parte, era stata chiara: quei fossili dovevano rimanere lì. Ma alla fine si trovò un accordo, il sindaco cedette e i resti partirono verso la grande città.
Fu questa storia – con il suo strascico polemico – a dare il la alla burla del liocorno? Chicco in qualche modo l’aveva interpretata a modo suo per incuriosire la gente e attirare clienti? Era uno scherzo architettato da terzi, come lo scheletro di serpentegatto o il pipistrello scimmia del 1861? Erano due rocce qualsiasi che qualcuno aveva rifilato a un collezionista fin troppo entusiasta, oppure, infine, si trattava di fossili autentici? Non lo sappiamo. Ma la legge sui ritrovamenti paleontologici era chiara: quei reperti, se reali, non potevano essere venduti a un privato. Avrebbero dovuto essere segnalati e notificati alla Soprintendenza. Se nessun sequestro avvenne nella bottega di Moncalieri dopo l’articolo della Stampa, è segno che forse quel femore di liocorno non apparteneva allo scheletro di un dinosauro (e nemmeno di un unicorno, se è per questo…).
Tutt’altra consistenza ebbe il ritrovamento della balenottera di Vigliano, quello che precedette la breve gloria del liocorno di Moncalieri. Negli anni successivi, in quei dintorni, vennero fuori anche altri reperti: un delfino, leoni marini, parti di un’altra balenottera (anche quella contesa tra il comune astigiano e Torino). Il cetaceo trovato nel 1959 venne studiato, catalogato e ricostruito nel museo annesso all’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università.
Ai viglianesi rimase a lungo l’amaro in bocca per quello “scippo” del 1959. Nel 2007 la Pro loco creò addirittura una gloriosa Viglianottera, riproduzione della balena originale ottenuta tramite calchi in gesso. Sei anni dopo in paese si tenne una mostra, il sindaco ottenne che i fossili torinesi tornassero “a casa” per un po’ – segno dell’affetto dei viglianesi per quel ritrovamento ormai lontano. Sempre nel corso del 2013, comunque, la balenottera fu trasferita da Torino al Museo Paleontologico di Asti, in virtù della nuova concezione di museo diffuso sul territorio. Nessuna menzione del liocorno di Tigliole, invece: quello è ormai storia minore, dimenticata.
Foto di Annie Spratt da Unsplash