Tra color che son sospesi: una bizzarra cura per le conseguenze della sifilide
Giandujotto scettico n° 86 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (08/04/2021)
Un uomo e una donna appesi al soffitto, sotto gli sguardi attenti e stupiti di un piccolo pubblico… Potrebbe sembrare un numero da circo, e invece era un trattamento all’avanguardia contro le conseguenze più gravi della sifilide: era chiamato sospensione, ed era stato escogitato da un medico russo alla fine del Diciannovesimo secolo. Ma non pensate a un’oscura pratica alternativa applicata in qualche lontano villaggio: la litografia che vedete, pubblicata su L’Illustration il 23 marzo 1889, mostra i pazienti di uno degli ospedali più importanti di Parigi e dell’Europa del tempo, La Salpêtrière.
Per una decina d’anni, tra il 1883 e il 1892, la sospensione fu una vera e propria moda medica, una cura promettente impiegata dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra agli Stati Uniti; e, ovviamente, quel bizzarro trattamento arrivò anche in Italia, Torino compresa. Questa è la sua storia.
Siamo negli anni in cui la neurologia sta muovendo i primi passi. Il sistema nervoso comincia ad essere descritto minuziosamente, grazie a dissezioni ed esperimenti, e così pure le patologie ad esso collegate. Ma se l’anatomia è abbastanza nota, pochissime sono invece le armi terapeutiche a disposizione – e così sarà ancora sino a tempi relativamente recente. In particolare, l’Ottocento vide un’epidemia di una malattia ormai praticamente scomparsa: la tabe dorsale, un morbo degenerativo e spaventoso, che non lasciava speranze a chi ne era affetto.
Ora lo sappiamo, si trattava di una conseguenza a lungo termine della sifilide: una patologia strana, che si presenta in molti modi diversi. Trasmessa per lo più per via sessuale, è portata da un batterio, il Treponema pallidum; si manifesta inizialmente con lesioni cutanee; poi, dopo un periodo di quiescenza, con nuovi sintomi che coinvolgono le mucose e i linfonodi; infine, quando ormai il paziente è convinto di essere guarito (possono passare decine di anni dall’infezione iniziale!), può presentarsi la forma terziaria della malattia, con granulomi, problemi cardiaci e neurologici. La tabe dorsale fa appunto parte di questi sintomi, e costituisce una delle conseguenze più devastanti della sifilide: i nervi del midollo spinale si demielinizzano, portando a intensi dolori alla colonna vertebrale, progressiva perdita di coordinazione, difficoltà di movimento degli arti inferiori (atassia locomotoria), paralisi, morte.
La relazione tra tabe dorsale e sifilide, inizialmente poco chiara, venne a poco a poco accertata nella seconda metà del Diciannovesimo secolo. Oggi, questa malattia venerea si cura con gli antibiotici: la penicillina è in grado di debellare l’infezione prima che si arrivi a conseguenze gravi come quelle descritte. A fine Ottocento, invece, ci si affidava per lo più al mercurio, sotto forma di iniezioni (spesso somministrate nelle aree genitali), pomate e inalazioni – da cui il detto, diffusissimo al tempo: una notte con Venere, una vita con Mercurio. Questa sostanza, per quanto popolare e intensamente utilizzata, aveva una tossicità elevata, e finiva spesso per aver conseguenze devastanti quanto la malattia stessa.
È in questo contesto che per breve tempo si pensò di aver finalmente trovato la cura per la tabe dorsale. L’idea era venuta a un medico di Odessa (ora in Ucraina, ma all’epoca parte del grande impero russo): Osip Osipovič Močutkovskij (1845-1903). Lui, a sua volta, si era probabilmente ispirato ai lavori di uno studioso statunitense, Lewis Albert Sayre (1820-1900), che aveva ideato un apparato per sospendere i pazienti a bustini di gesso, e lo proponeva come cura per la scoliosi.
Močutkovskij riadattò l’apparecchio di Sayre (che consisteva in una sorta di tripode): il suo macchinario era formato da una sbarra in ferro a cui venivano legate tre strisce di cuoio; quella centrale serviva a tenere in sospensione la testa, le due laterali passavano al di sotto delle ascelle. In questo modo, il paziente poteva essere sollevato (lentamente, senza strattoni) e distendere pienamente la colonna vertebrale. Le prime sospensioni duravano uno o due minuti, poi l’arco di tempo aumentava, fino a un massimo di 10 minuti. Le sedute andavano ripetute più volte (uno dei pazienti iniziali di Odessa si fece 97 sospensioni).
Era questa, secondo Močutkovskij, la cura per la tabe dorsale: pensava che l’allungamento dei vasi causato dallo “stiramento” fornisse un maggior apporto di sangue alla colonna vertebrale, con benefici effetti contro la malattia. Nel 1883 pubblicò i suoi primi risultati su sedici casi in una rivista russa chiamato Врач (Il medico). Quattordici pazienti, a suo dire, avevano tratto vantaggi della cura: la sospensione dava sollievo al dolore, aumentava la capacità di movimento e diminuiva l’atassia (oltre a causare un’estensione della colonna vertebrale fino a 2,5-5 cm).
L’articolo venne notato dal francese Fulgence Raymond, assistente di Jean-Martin Charcot (neurologo conosciutissimo all’epoca per i suoi studi sull’ipnotismo e l’isteria femminile). Nell’arco di alcuni anni, il trattamento cominciò diventare popolare in Francia, e trovò in Charcot uno dei suoi massimi sostenitori.
Nel 1888, Charcot propose a Gilles de la Tourette (quello che ha dato il nome alla sindrome di Tourette, per intenderci) una sperimentazione sui malati affetti da atassia locomotoria. Aveva affinato il metodo di Močutkovskij: poneva particolare cura ad adattare la lunghezza delle strisce di cuoio all’altezza dei pazienti, per far sì che non fossero appesi solo per la testa; poi, ordinava loro di alzare le braccia ogni 15-20 secondi durante la sospensione, in modo da portare un maggior peso sulla parte centrale del corpo e aumentare la trazione sulla colonna vertebrale. Alla fine del processo, i pazienti potevano riposare su una poltroncina. Ognuno di loro veniva trattato una volta al giorno, per un lasso di tempo da 1 a 4 minuti. Il numero di sospensioni era invece assai variabile.
Il 15 gennaio 1889, Charcot tenne una lezione all’ospedale della Salpêtrière sulla cura dell’atassia locomotoria usando “la tecnica della sospensione del dottor Motschutkovsky di Odessa”: aveva trattato diciotto casi, e in quattordici c’era stato un netto miglioramento. È in quell’occasione che venne realizzata la litografia poi pubblicata su L’Illustration che vedete in testa all’articolo.
La celebrità di Charcot fece il resto. Il trattamento divenne una vera e propria moda, diffondendosi in tutta Europa: le migliori cliniche di Francia, Germania, Russia e Inghilterra si dotarono di luoghi dove somministrare quella nuova, miracolosa cura. Arrivò anche negli Stati Uniti, grazie a un altro sostenitore di fama: il neurologo Silas Weir Mitchell, che sperimentò la sospensione nel suo ospedale, a Filadelfia. Anche lui aveva modificato leggermente il protocollo: i trattamenti duravano 10-20 minuti, tra i più lunghi fra i seguaci delle teorie di Močutkovskij.
In Italia la sospensione fece breccia in diverse città. A partire dal 1889, le gazzette mediche si riempirono di relazioni sul tema, come questa pubblicata su Il faro medico o quest’altra comparsa su Gl’Incurabili. Parallelamente, cominciarono a proliferare le sperimentazioni, le modifiche ai protocolli, l’impiego per malattie diverse dalla tabe dorsale. Pietro Bonuzzi, un medico di Roma, si diceva convinto della bontà del metodo, ma proponeva di sostituire la sospensione con una flessione forzata del corpo del malato.
Alberto Gamba (1822-1901), vecchio professore di medicina nella capitale piemontese e docente di Anatomia estetica presso l’Accademia Torinese, la riteneva utile per il rachitismo e le deviazioni della colonna vertebrale (l’aveva usata fin dal 1872, diceva; possibile, quindi, che il suo metodo si ispirasse più agli studi di Sayre che a quelli di Močutkovskij). L’Annuario scientifico e industriale del 1890 elencava tutta una serie di affezioni per cui la sospensione era stata sperimentata con successo: neurite ottica, miopatie primitive, meningite spinale, paralisi agitante, paraplegia, morbo di Friedrich e, ciliegina sulla torta, “impotenza genitale di origine nevrastenica”.
Ma la tabe dorsale rimaneva ancora la malattia per cui era più usata. Uno dei maggiori sostenitori italiani di questo trattamento fu, a Torino, Camillo Negro (1861-1927). Aveva allora 29 anni, quando cominciò a usare la sospensione sui suoi pazienti. Il 30 gennaio 1890, tenne una conferenza in collaborazione con la Società Filotecnica del capoluogo piemontese. Si svolse nel Policlinico generale per la cura dei poveri, che era stato fondato sei anni prima da Carlo Forlanini; Negro ne dirigeva il reparto malattie nervose. Un resoconto della serata apparve il 4 febbraio su La Stampa (all’epoca, ancora Gazzetta Piemontese): secondo il quotidiano, fu un vero successo di pubblico, tra cui furono notati parecchi medici, professori universitari e studenti. Merito, forse, anche di quello strano strumento che penzolava esposto agli occhi dei curiosi:
L’apparecchio della sospensione faceva bella mostra di sé in capo alla sala, e dava seriamente a pensare se si fosse davvero colà, raccolti per sentir parlare d’un ritrovato dell’arte di guarire. Non è a stupire: la medicina razionale moderna nelle lotte colle insidie del male ha chiamato a soccorso tutte le energie della natura e si è fatta areoterapia, idroterapia, elettroterapia, metalloterapia, ha scoperto un potente alleato nell’ipnotismo, ne ha ritratto benefici superbi, ora si è spinta nientemeno che all’apparecchio del supplizio, e questa per fortuna non è un’energia che s’incontri in natura.
L’apparato usato da Negro doveva somigliare a quello di Charcot, ma con una piccola modifica: al posto di esser dotato di tre stringhe di cuoio, ne aveva quattro, di cui due andavano a sorreggere il paziente per le ascelle, uno per la nuca e l’ultima dal mento. A quel punto, il malato veniva sollevato per alcuni secondi grazie a una corda a puleggia: il trattamento aveva la virtù di “render meno grave, meno amara la vita a molti infelici”. Spiegava La Stampa:
Fra questi in ispecie i tabetici, gli atassici, quelli colpiti dalla crudele malattia conosciuta sotto il nome volgare di spinite, ne risentono maggior vantaggio; il loro incesso a salto di gallo, che muove a compassione, ritorna per poco sotto l’impero della volontà, si fa più sicuro, più coordinato; i dolori folgoranti atroci che gli straziano a trafiggere il corpo cedono un po’ a questo trattamento, si fanno più rari, meno dolorosi. Quelli che hanno dato i risultati più brillanti sono gli affetti da pseudo-tabe alcoolica, quelli affetti da neurite, da neurastenia in tutte le sue forme più svariate e capricciose.
Negro aveva praticato, in pochi mesi, ben 914 sospensioni su un totale di 400 ammalati. Aveva trovato miglioramenti nei pazienti affetti da tabe, un po’ meno se in stadio avanzato. Nei malati che soffrivano di paralisi, il trattamento aveva prodotto controindicazioni; ma in generale, gli sembrava funzionare. Quanto ai motivi, lui non sapeva indicarli: riferì, invece, diverse opinioni illustri, che attribuivano il successo della sospensione all’allungamento del midollo, alla rottura delle aderenze che si producevano nella malattia, all’aumento dell’irrorazione sanguigna. Menzionò anche il sospetto, avanzato da alcuni colleghi, secondo cui i miglioramenti fossero non duraturi e frutto di autosuggestione, “prodotta dalla vista d’uno strumento di cura così nuovo e grottesco”. Per conto suo, però, non gli sembrava plausibile.
Ecco, parliamo di questi sospetti. Mano a mano che il metodo guadagnava consensi e popolarità, erano cresciuti anche i detrattori. Non tutti trovavano quei benefici “in tre quarti dei casi” garantito da Charcot. Spesso, i miglioramenti sembravano svanire dopo poco. La procedura, oltretutto, non era così indolore: i malati trattati con sospensione soffrivano di nausea, vomito, svenimenti.
Tra i pazienti illustri, in Francia, ci fu anche lo scrittore Alphonse Daudet, autore delle Lettere dal mio mulino e di Tartarin di Tarascona. Aveva contratto la sifilide all’età di 17 anni, da una lettrice della corte imperiale, ai tempi di Napoleone III; la malattia rimase silente per vent’anni: in quell’arco di tempo Daudet lavorò, diventò famoso, pubblicò diversi capolavori, si sposò ed ebbe tre figli. Poi la sifilide terziaria tornò a bussare alla sua porta, causandogli terribili dolori alla colonna vertebrale: era la tabe dorsale. Provò diversi trattamenti, compresa la sospensione: fu appeso per tredici volte, in un crescendo di sofferenze, finché non cominciò a sputare sangue. Sul suo diario annotò: “Nessun beneficio osservabile”.
Nei casi più gravi, si arrivò alla morte del paziente: Marie-France Weiner e John Russell Silver, autori di un’interessante review storica sul tema (“Suspension Therapy for the Treatment of Tabes Dorsalis”, European Neurology, 2014), riportano almeno sei casi fatali, tra cui due strangolamenti. Per i sostenitori della pratica, queste morti erano dovute all’imperizia dei medici, e al fatto che alcuni pazienti, presi dall’entusiasmo, avevano provato ad autosospendersi.
Gilles de la Tourette, che nel 1890 continuava a praticare il trattamento (riferiva di averlo usato su 500 pazienti: a suo parere, nel 22% dei casi c’era stato un miglioramento netto, nel 30-35% uno più lieve, nel 35-40% dei casi la cura non aveva portato giovamento), sosteneva seccato:
Il grande entusiasmo per il metodo si rivelò il suo più grande svantaggio. In breve non ci furono più centri idroterapici in Francia, o palestre, dove questa tecnica non fosse applicata. Spesso era affidata agli inservienti dei bagni, che non ne sapevano nulla di medicina. Poiché il metodo è stato applicato in maniera errata per tutte le atassie, con conseguenti incidenti e anche morti improvvise, è caduto in disgrazia.
Ma non era solo pregiudizio, come credeva Tourette. Molti medici, non più accecati dall’entusiasmo, cominciarono ad accorgersi che gli effetti collaterali superavano di gran lunga i benefici. La sospensione era rischiosa e dolorosa. Gli “allungamenti della colonna vertebrale” potevano dar luogo a paralisi, compressioni della carotide ed emorragie cerebrali. Tra i primi ad avanzare perplessità, ci fu anche Cesare Lombroso. Nel secondo Congresso di medicina interna, tenutosi as Roma nel 1889, riferì alcuni esperimenti fatti sui conigli: la sospensione generava “iperemia delle meningi” e, non di rado, numerose emorragie.
A questo bisogna aggiungere un fatto: le ragioni dei miglioramenti osservati da Močutkovskij e Charcot non erano per nulla chiare. Diversi anatomisti (tra cui Carlo Garampazzi, dell’Ospedale di Novara) sezionarono i pazienti che in vita erano stati sottoposti alla sospensione, ma i risultati erano contrastanti: alcuni trovavano un allungamento del midollo spinale, altri un accorciamento. Alla fine si capì che quei benefici erano solo temporanei, e che era tutto dovuto all’effetto placebo (o, come si diceva all’epoca, all’autosuggestione). Nel giro di pochi anni, i trattamenti vennero abbandonati: entro il 1892, erano rimasti pochissimi centri a proporre quella terapia.
Quanto alla tabe dorsale e alla sua causa diretta, la sifilide, cominciò ad essere curata con successo solo a partire dal 1909, quando il laboratorio diretto da Paul Ehrlich, già premio Nobel per le ricerche nel campo dell’immunologia, scoprì il 606 (o Salvarsan). Era, questo, un derivato dell’arsenico dai numerosi effetti collaterali; la sifilide, però, ne aveva di più, e per la prima volta il mondo aveva un’arma, sia pure mediocre, contro quella terribile malattia. Non stupisce che Ehrlich fosse celebrato su vignette e giornali come un salvatore, e che il suo 606 fosse cantato in poesie e teatri: anche il piemontese Ernesto Ragazzoni gli dedicò un ironico Omaggio. I tempi della sospensione erano già lontani.
All’ascesa e caduta di quel bizzarro trattamento, avevano contribuito diversi fattori. Nel loro articolo, Marie-France Weiner e John Russell Silver ne elencano alcuni: il fatto che i miglioramenti fossero soggettivi, e valutati tramite parametri come la sensazione del dolore, privi di qualsiasi scala di raffronto; wishful thinking, entusiasmo generale per una cura che prometteva di guarire un’affezione fino ad allora incurabile; possibili diagnosi errate; e il decorso stesso della sifilide, che in alcuni casi può avere fasi di remissione.
Inoltre, i protocolli erano non standard, variavano da paziente a paziente, con frequenza e durata delle sospensioni personalizzate. A volte era difficile confrontare anche le modalità di somministrazione: alcuni seguaci della sospensione, ad esempio, arrivarono ad appendere i pazienti per i piedi o per i gomiti! Tutto ciò non aiutò la comparazione e l’analisi dei dati, e impedì che ci si accorgesse più rapidamente che i conti non tornavano. Infine, come per altre terapie i cui esiti sono scarsamente misurabili attraverso strumenti diagnostici e metodi quantitativi di microbiologia, il trattamento sembrava fatto apposta per suggestionare:
La sospensione, così come la bacchetta di Mesmer e il letto celestiale di Graham, era drammatica, teatrale, e impressionava allo stesso modo pazienti e dottori.
L’effetto placebo poteva ridurre un po’ la percezione del dolore, ma contro la demielinizzazione dei nervi nulla poteva. E così, dopo un po’, i pazienti tornavano a star male.
I medici che avevano creduto nella sospensione non erano affatto ciarlatani, e nemmeno incompetenti: in certi casi, si trattava di scienziati importanti, autori di innovativi contributi nel campo della neurologia. È il caso del nostro medico torinese, Camillo Negro. Nativo di Biella, si era laureato brillantemente in medicina, perfezionandosi in neuropatologia in Germania con Wilhelm Heinrich Erb e con Wilhelm Kühne; lì aveva cominciato a interessarsi di elettroterapia ed elettrodiagnosi, due campi all’epoca del tutto nuovi. Tornato nel capoluogo piemontese, cominciò a lavorare al Policlinico, per poi diventare nel 1891 primario dell’ospedale Cottolengo: possiamo ipotizzare che a questa data gli esperimenti sulla sospensione, raccontati con così tanto entusiasmo solo due anni prima, fossero già cessati.
Negli anni successivi, sarebbe diventato docente universitario di neuropatologia, fondatore della Società italiana di neurologia e presidente dell’Accademia di medicina di Torino. Fu autore di oltre 150 studi clinici, e anche di quello che è ritenuto il primo documentario scientifico al mondo: La neuropatologia. Questa raccolta di brevi cortometraggi fu proiettata per la prima volta il 17 febbraio 1908 al cinema Ambrosio-Biograph di Torino (si trovava al n. 21 di via Po), uno dei luoghi in cui nacque, grazie ad Arturo Ambrosio e Roberto Omegna, il cinema italiano. Alla presentazione partecipò anche Lombroso.
L’opera, composta da 24 brevi filmati (di cui alcuni andati persi) doveva servire ad istruire gli studenti delle piccole università, dove i casi clinici scarseggiavano. Fu proprio Omegna a prestare, come regista, la sua perizia cinematografica al lavoro di Negro, che, dal canto suo, intuì subito il potenziale tecnico ma anche emotivo e spettacolare del cinema scientifico.
Quella fiducia giovanile per una pratica un po’ sopra le righe come la sospensione non gli toglie i suoi meriti.
Immagine di apertura: La morte in pelliccia – Avvertimento contro la sifilide, di Eugêne Delâtre (1864-1938), da Wikimedia Commons, pubblico dominio