A che punto siamo con il plasma convalescente
Antonio Crisafulli è medico, professore associato di Fisiologia umana
È passato ormai più di un anno dall’inizio della pandemia causata dal virus SARS-CoV-2. Durante questo periodo si è assistito con una certa cadenza alla scoperta di soluzioni “miracolose” per curare l’infezione. Una di queste, che fece particolarmente parlare di sé agli inizi della pandemia, consiste nell’uso del plasma convalescente o iperimmune. Le sperimentazioni cliniche con questa procedura sono cominciate quasi subito dopo lo scoppio della pandemia. Il suo uso è stato per lo più compassionevole o di emergenza, in quanto non c’erano evidenze scientifiche a favore o contro il suo utilizzo. A distanza di un anno circa dalla sua proposta, cerchiamo di fare il punto su questa terapia andando a vedere cosa ci dice la ricerca scientifica.
Per prima cosa definiamo cosa intendiamo per plasma convalescente o iperimmune.
Si tratta della parte liquida del sangue – cioè del sangue privato della sua parte cellulare: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine – prelevata da un paziente in fase di remissione da un’infezione da SARS-CoV-2 e trasfusa in un paziente affetto dalla stessa patologia. Il plasma dei pazienti convalescenti è normalmente ricco di anticorpi specifici contro il virus, per cui, in teoria, può essere attivo e facilitare la guarigione dell’altro paziente. In alcuni casi non viene trasfuso il plasma ma il siero, che altro non è se non il plasma a cui sono state tolte le proteine della coagulazione. Questo tipo di procedura determina quella che viene definita “immunità passiva” nel paziente, per differenziarla da quella “attiva” che si ottiene con la vaccinazione o con l’infezione naturale. C’è da sottolineare che l’uso del plasma e del siero convalescenti per trattare malattie infettive è stato introdotto nella pratica medica oltre un secolo fa contro patologie come tetano, rabbia, varicella e più recentemente contro Ebola, SARS, MERS e anche influenza, per cui non si tratta di una novità [1]. In particolare, si è usato il plasma convalescente quando ci si è trovati di fronte ad una nuova patologia per la quale non ci fossero a disposizione vaccini o trattamenti farmacologici efficaci. Dunque, è stato spesso un trattamento “compassionevole” o di emergenza. L’uso del plasma all’inizio della pandemia era quindi giustificato dallo stato di emergenza e dalla sostanziale mancanza di terapie dimostratesi utili nel ridurre la gravità dei sintomi e la mortalità.
Ma come sempre in medicina è importante attendere il risultato di studi controllati prima di emettere giudizi definitivi sull’efficacia di un qualsiasi trattamento terapeutico. A tal fine si usano i trial clinici, che normalmente prevedono almeno due gruppi: un gruppo di pazienti trattati con la terapia che si vuole sperimentare ed un gruppo di controllo a cui viene somministrata una terapia di cui sia nota l’efficacia oppure un placebo. Il confronto tra i due gruppi permetterà di stabilire se la terapia è realmente efficace e quale sia il suo grado di efficacia. Nell’ultimo anno sono state intraprese numerose ricerche riguardanti il plasma convalescente per curare il COVID-19 e negli ultimi mesi sono stati pubblicati i risultati di diversi studi. In particolare, una recente review della letteratura con metanalisi su oltre 20.000 pazienti ha concluso che il trattamento con il plasma convalescente, comparato con placebo o con altre terapie standard di supporto al malato, non ha apportato nessun beneficio sia in termini di riduzione della mortalità che di miglioramento di alcuni indici dello stato clinico dei pazienti, come la riduzione dei giorni di ospedalizzazione e la necessità di ventilazione meccanica [2]. A risultati molto simili giunge anche uno studio randomizzato molto recente, condotto su un numero considerevole di pazienti (oltre 11.000) pubblicato in pre-print e quindi non ancora sottoposto a processo di peer-review [3]. Anche il governo federale degli USA ha recentemente bloccato un trial clinico condotto dal National Institutes of Health perché un gruppo di revisori indipendenti ha segnalato che il trattamento era sostanzialmente inefficace [4]. È proprio di questi ultimi giorni la notizia che lo studio clinico randomizzato TSUNAMI, condotto in vari centri italiani e coordinato dell’Istituto Superiore di Sanità, non ha osservato nessuna differenza significativa negli endpoint clinici tra un gruppo di pazienti trattato con plasma e uno trattato con terapia standard [5].
C’è tuttavia da segnalare come uno studio molto ampio condotto negli USA abbia mostrato risultati incoraggianti, anche se si tratta di uno studio senza un gruppo di controllo, per cui tecnicamente non soddisfa i criteri di rigore metodologico per poter essere considerato un trial clinico. I limiti di questo approccio sono riconosciuti anche dagli stessi autori della ricerca. Inoltre, anche questo studio è ancora un pre-print nella fase di valutazione da parte dei revisori [6]. A favore dell’uso del plasma convalescente ci sono sicuramente il relativo basso costo e la sicurezza della procedura [7], anche se di fronte a decine di migliaia di ricoverati con COVID-19 il suo utilizzo pone senz’altro problemi organizzativi e di approvvigionamento del plasma.
Riassumendo, ad oggi sembra quindi che, nonostante gli entusiasmi iniziali, l’uso del plasma convalescente non abbia mantenuto le promesse iniziali e non sia una terapia di grande impatto nella cura del COVID-19. Può forse contribuire a salvare qualche vita e ad accorciare il decorso clinico della malattia, ma non sembra proprio che possa rappresentare una svolta nell’arrestare la corsa della pandemia. Questo fatto non dovrebbe scoraggiare la sperimentazione clinica in generale e sul plasma convalescente in particolare. La ricerca scientifica è infatti costellata di risultati negativi, che vengono spesso additati come “fallimenti”. In realtà non sono fallimenti. I trial clinici non vengono intrapresi per avere una risposta positiva; viceversa servono per avere una risposta, sia essa positiva o negativa. Senza i trial clinici non ci sarebbe nessun progresso nella ricerca clinica.
Ci sembra utile segnalare che, nonostante il plasma convalescente non abbia ad oggi mantenuto le promesse iniziali, si assiste da diversi mesi ad un costante e considerevole calo della mortalità ospedaliera da COVID-19 [8]. Questo fenomeno è stato ben quantificato negli USA [9]. I motivi sono verosimilmente molteplici e complessi, ma stanno molto probabilmente giocando un ruolo alcune terapie farmacologiche che hanno dato risultati positivi nei trial clinici. Nello specifico, i corticosteroidei e gli inibitori dell’interleuchina-6 appaiono essere i maggiori responsabili di questo effetto. I corticosteroidi in particolare, se somministrati al momento giusto (quando i sintomi diventano severi, ma non nelle fasi iniziali della patologia) si sono dimostrati molto efficaci sia nel ridurre il ricorso alla ventilazione meccanica che nel ridurre la mortalità da COVID-19. Proprio come il plasma convalescente, i corticosteroidi sono stati somministrati all’inizio della pandemia a scopo emergenziale e compassionevole e senza nessuna prova della loro efficacia, che è stata in seguito definitivamente assodata con rigorosi trial clinici [10].
Per approfondire
[1] Aviani JK, Halim D, Soeroto AY, Achmad TH, Djuwantono T. Current views on the potentials of convalescent plasma therapy (CPT) as Coronavirus disease 2019 (COVID-19) treatment: A systematic review and meta-analysis based on recent studies and previous respiratory pandemics. Reviews in Medical Virology 2021 Feb 23:10.1002/rmv.2225.
[2] Janiaud P, Axfors C, Schmitt AM, Gloy V, Ebrahimi F, Hepprich M, Smith ER, Haber NA, Khanna N, Moher D, Goodman SN, Ioannidis JPA, Hemkens LG. Association of Convalescent Plasma Treatment With Clinical Outcomes in Patients With COVID-19: A Systematic Review and Meta-analysis. JAMA. 2021 Mar 23;325(12):1185-1195.
[3] doi: https://doi.org/10.1101/2021.03.09.21252736
[4] https://eu.usatoday.com/story/news/health/2021/03/03/convalescent-plasma-study-treatment-doesnt-stop-more-severe-covid-19/6901125002/
[5] https://www.iss.it/web/guest/primo-piano/-/asset_publisher/3f4alMwzN1Z7/content/id/5690185
[6] doi: https://doi.org/10.1101/2020.08.12.20169359
[7] Casadevall A, Grossman BJ, Henderson JP, Joyner MJ, Shoham S, Pirofski LA, Paneth N. The Assessment of Convalescent Plasma Efficacy against COVID-19. Med (N Y). 2020 Dec 18;1(1):66-77.
[8] https://www.nature.com/articles/d41586-020-03132-4
[9] https://jamanetwork.com/journals/jamanetworkopen/fullarticle/2777028
[10] https://www.bmj.com/content/370/bmj.m2980
Immagine in evidenza: Plasma convalescente raccolto durante la pandemia di Covid-19, Whoisjohngalt, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
Grazie per l’ Articolo, Antonio. Permettimi di aggiungere: tra le cause, che giustamente ritieni molteplici, della diminuita mortalità ospedaliera tra i ricoverati, non può non esserci la maggiore esperienza e la migliore organizzazione acquisita dalle equipes sanitarie di fronte ai malati che si presentano in reparto, rispetto ai caotici giorni della comparsa della Pandemia. Inoltre: secondo me non è etico un trial clinico cura contro placebo per qualunque malattia life threatening. Io permetterei studi soltanto del tipo: cura da validare contro cura già validata, ma comunque non soddisfacente.
Gentile Aldo Grana, le risponde l’autore dell’articolo.
Grazie per i suoi commenti e per averlo letto.
Molto probabilmente tra le cause che hanno contribuito alla diminuzione della mortalità ospedaliera c’è una maggiore preparazione e organizzazione dei miei colleghi. Le cause sono tuttavia molteplici e non ancora del tutto chiarite, sperando che il fenomeno non sia effimero e che tenda a consolidarsi.
Per quanto riguarda l’eticità, effettivamente non si fanno trial clinici contro placebo per malattie life threatening se esiste una terapia validata. Nel caso specifico del plasma, gli studi hanno comparato il plasma con le “standard care” therapy (ossigeno, supporto di liquidi etc.).