Un patentino per votare? Ecco perché no
Articolo di Andrea Mariuzzo*
Non facciamo gli ipocriti, prima o poi è successo a tutti di pensarlo di fronte all’espressione urlata di posizioni politiche indifendibili fondate sull’evidente ignoranza del tema di cui si stava parlando, o sull’incapacità di superare tesi preconcette riposte in discussione. Davvero il voto di chi si è appena abbandonato a tutto questo vale quanto quello di chi si impegna a informarsi e a ragionare? Quanto meglio funzionerebbe il nostro sistema istituzionale se l’accesso a qualsiasi livello di impegno politico, compreso il diritto di voto, fosse subordinato al superamento di un test, anche semplice, di conoscenza del funzionamento delle istituzioni e di cultura politica?
Che di getto una reazione del genere possa venire in mente, dicevamo, è umano, specie di fronte a posizioni che sembrano legittimare l’ignoranza, perché essa è considerata uno stato di fatto e non una mancanza a cui cercare costantemente di rimediare, o addirittura è esaltata come forma di difesa della propria purezza e genuinità rispetto alla “finta conoscenza” veicolata dai “professoroni” e da scuole e università “in mano alle multinazionali”.
Fermiamoci un attimo a ragionare: vale la pena di prendere questa reazione istintiva sul serio? Può essere la strada giusta per migliorare le cose?
In realtà le obiezioni a questo atteggiamento chiariscono che abbandonarsi alla tentazione di questo pensiero non solo ci renderebbe simili a coloro che critichiamo – perché significherebbe dare soddisfazione al nostro istinto sposando una presunta soluzione semplice e immediata a problemi complessi – ma ci porterebbe anche su una china pericolosa per la qualità della vita politica e sociale.
Iniziamo dai precedenti storici: l’idea di subordinare l’accesso all’elettorato attivo a test culturali ha trovato applicazione nel passato, ma è facile constatare come non condusse mai a un miglioramento della qualità della politica (sempre che fosse quello il fine effettivo della sua messa in opera). L’esempio più noto concerne “i test di alfabetizzazione” e, di fatto, di cultura generale che dagli anni Settanta dell’Ottocento fino – in alcuni casi, al loro divieto a livello federale nel 1965 – hanno caratterizzato le leggi elettorali degli stati del sud degli USA1.
Già il contesto in cui l’esempio si situa, quello del recupero d’autorità del controllo sociale da parte dei bianchi dopo gli anni della “ricostruzione” post-guerra civile, non depone affatto a suo favore. È chiaro che l’obiettivo profondo sotteso all’adozione dei test non era il miglioramento della vita politica, (anzi, gli stati del sud piombarono in fondo a qualsiasi graduatoria di qualità delle politiche pubbliche e di estrazione della classe dirigente), ma l’esclusione dei neri dalle procedure di voto. In primo luogo, era semplice discriminare su basi apparentemente legate alla competenza una comunità alla quale in maniera programmatica, attraverso le leggi di segregazione, erano offerti servizi scolastici scarsi, scadenti e privi dei più elementari strumenti di recupero dall’abbandono, tutti elementi che contribuivano tenere oltre il 50% dei suoi membri nell’analfabetismo.
In più, i criteri di somministrazione del test mostravano come quello strumento potesse essere troppo facilmente distorto. Man mano che tra mille difficoltà il tasso di alfabetizzazione dei neri del sud cresceva, le commissioni giocavano sul livello di difficoltà delle domande, oppure sul fatto che fosse ancora difficile per loro completare i livelli di istruzione formale, riservando soltanto a chi non aveva finito gli studi obbligatori un test di soluzione quasi impossibile. In questo senso è abbastanza noto l’esperimento compiuto nel 2014 ad Harvard, quando un gruppo di studenti di college selezionati tra i migliori degli Stati Uniti affrontò l’ultima versione del Louisiana Literacy Test, quella del 1964: nessuno riuscì a ottenere il risultato richiesto per la registrazione al voto, ovvero a rispondere in modo soddisfacente a tutte le 30 domande (alcune delle quali invero assai difficilmente comprensibili) nei dieci minuti di tempo concessi2.
Si potrebbe obiettare che in un contesto completamente diverso sul piano dell’accesso all’istruzione e alla cultura, come appunto quello di un paese sviluppato del XXI secolo quale è l’Italia, certi problemi sarebbero gestibili. In realtà la possibilità di modulare i contenuti e il livello di difficoltà delle prove per ottenere l’effetto di allontanare alcune categorie di persone resterebbe. Magari diventerebbe più complesso e si fonderebbe, anziché sul semplice sguardo che individuava il colore della pelle dei candidati, su profilazioni più raffinate, affidate all’analisi dei dati.
Resta il fatto che chiedere il nome dell’attuale presidente della Repubblica o qualche informazione sulle modalità di scrittura e approvazione delle normative europee – questione almeno altrettanto importante per l’impatto che ha sulle nostre vite ma decisamente misteriosa quasi per chiunque, almeno nei dettagli . già significa per chi fa parte di una ipotetica commissione di rilascio del “patentino” scegliere chi far votare e chi no. E non mentiamo a noi stessi dicendoci che è impossibile pensare che si giochi così sporco: tutti noi, al fondo della nostra mente, quando abbiamo pensato a una modalità per limitare il diritto di voto abbiamo più o meno consapevolmente confuso il profilo di chi non è abbastanza competente con quello di chi non la pensa come noi.
Del resto, al fondo della sostanziale impossibilità tecnica di impostare un sistema di limitazione del diritto di voto in base a conoscenze e competenze sta un’enorme questione di principio. In democrazia, cioè nel regime che si fonda sulla partecipazione universale ai processi decisionali, il fatto che le decisioni siano il risultato della partecipazione generale alle procedure di scelta è un valore di per sé, e il valore delle decisioni prese non si misura sulla base di quanto sono “buone” secondo parametri ritenuti “oggettivi”, ma di quanto ciascuno ha potuto contribuire ad esse.
Nel 1938, di fronte alla sfida che i totalitarismi europei ponevano alla democrazia liberale, John Dewey, uno dei più grandi pensatori del Novecento, chiariva forse nel modo migliore le ragioni dell’importanza del coinvolgimento universale della comunità nella politica democratica:
“Poiché è l’individuo stesso che conosce al meglio i propri problemi, anche se per altri aspetti non è sufficientemente istruito o di ingegno sofisticato, l’idea che la democrazia promuove in contrasto con qualsiasi concezione aristocratica della società è che bisogna consultare ogni singolo individuo in modo che diventi personalmente parte attiva, non puramente passiva, del processo decisionale collettivo e del processo di controllo sociale; che i suoi bisogni e i suoi desideri devono avere la possibilità di essere raccolti e messi agli atti in modo da contare nella determinazione delle politiche di interesse collettivo”3.
Negare questo diritto di partecipazione è una ferita difficilmente giustificabile in ogni caso, e lo è tanto più se non esistono parametri oggettivi per misurare a priori e al di là di ogni dubbio l’efficacia dell’applicazione di una certa decisione politica in un determinato momento e contesto, e il prezzo che determinati settori della comunità dovranno pagare per essa.
Poi, naturalmente, è legittimo e auspicabile chiedere che tutti partecipino alla vita democratica al meglio delle loro possibilità intellettuali e della loro informazione, sviluppando le capacità di discernimento critico fondamentali per la corretta attribuzione delle competenze e delle responsabilità alle varie figure istituzionali, per la messa in discussione di notizie false o controverse, per la valutazione della congruità dei mezzi proposti ai fini individuati. L’unica strada che si può provare a percorrere, però, è quella di promuovere tali capacità in ogni singolo individuo, attraverso un grande sforzo educativo che renda davvero piena la partecipazione di ognuno al processo democratico, piuttosto che quella di programmare l’esclusione di chi non soddisfa tali requisiti come se non ci fosse rimedio, e, soprattutto, come se fosse possibile individuare in modo obiettivo le mancanze.
Il punto di partenza è, caso mai, assumere che di fronte all’ignoranza la causa non è mai esclusivamente individuale. È la società stessa ad essere in buona misura responsabile dell’accesso di ciascuno dei suoi componenti alle competenze culturali essenziali, e la società non può far pagare con l’esclusione di singoli individui fallimenti che sono innanzitutto suoi.
Note:
1 Per una rapida e accessibile presentazione del sistema di discriminazione razziale impiantato nel sud americano dalle cosiddette Jim Crow Laws, nel cui contesto l’introduzione dei test per il voto si situa, vedi qui.
2 https://www.bostonmagazine.com/news/2014/11/07/harvard-students-failed-the-1964-louisiana-literacy-test/.
3 J. Dewey, Democracy and Education in the World of Today, testo presentato il 24 ottobre 1938 alla Society for Ethical Culture di New York alla prima Felix Adler Annual Conference, disponibile in lingua italiana nella raccolta Dewey. Pedagogia, scuola e democrazia, Brescia, La Scuola, 2016, pp. 183-200 (p. 187 per la citazione).
(*Docente di Storia dell’educazione e della pedagogia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, si occupa di storia dell’università, del pensiero educativo statunitense e di storia sociale dell’istruzione in Italia.)
Immagine in evidenza: Freedom of Speech (1943, particolare) olio su tela di Norman P. Rockwell (1894-1978).
La domanda vera è: Serve a qualcosa votare ?
Sono parzialmente d’accordo. Bisogna sicuramente incrementare il livello di cultura generale media ma anche della coscienza collettiva. Attualmente in Italia vi è un forte astensionismo ed i partitini fanno da ago della bilancia, quindi ci vuole poco per essere eletti e per entrare nel governo.
In ogni caso anche limitare il diritto al voto agli ultra diciottenni è una scelta di per sé discutibile. Perché non mettere l’asticella a 17 anni, oppure a 20? E perché chi ha 24 anni – e magari un dottorato in Scienze Politiche!- deve avere solo ‘mezzo’ diritto di voto (visto che non può votare per l’elezione del Senato) mentre hanno diritto di voto completo gli interdetti, cioè i maggiorenni “che si trovino in condizioni di abituale infermità di mente tali da renderli incapaci di provvedere ai propri interessi”(art. 414 c.c.)? In verità il problema di un voto ‘informato’ esiste eccome: il suffragio universale non è un fine, ma un mezzo – quindi perfezionabile- per avere un governo della res publica efficiente. Ho provato a spiegare questa tesi qui: http://www.lundici.it/2017/01/quale-democrazia/