Udine, Attila, piazza I° Maggio, la costola del drago e la maschera del diavolo
Una rubrica dedicata ai presunti luoghi misteriosi del nostro Paese, dove ne raccontiamo le leggende e le verità. Ognuno con il proprio stile, gli autori forniscono una spiegazione storica e razionale per far luce su qualche oscuro mistero locale. Questa quinta puntata è di Margherita Piva del CICAP Friuli-Venezia Giulia. Precedenti versioni di questo articolo sono apparsi su La Voce degli Stelliniani 17(3) del dicembre 2018, pp. 8-10 e, in due puntate, su Madonna delle Grazie XCVIII(988), maggio/giugno 2019, pp. 12-21 e XCIX(989), luglio/agosto 2019, pp. 12-16.
Udine, capoluogo del Friuli, ha una storia antica su cui è fiorito un ricco repertorio di leggende. La città si è sviluppata intorno ad un nucleo originario costituito dagli edifici che si trovavano sul colle tuttora detto del Castello (138 m s.l.m.), che spicca isolato nella pianura del Friuli centrale facendone un ottimo punto di osservazione e difesa.
Il castello attuale è in realtà un palazzo rinascimentale costruito tra il 1517 e il 1595 dove era quello, turrito, dei Patriarchi di Aquileia, crollato in seguito al terremoto del 1511. E’ oggi sede del Museo Civico e di vari uffici comunali, e insieme all’attigua chiesa romanica di Santa Maria con il dorato angelo segnavento in cima al campanile (come la facciata, anch’esso cinquecentesco), identifica geograficamente e storicamente la città di Udine.
La leggendaria fondazione di Udine
L’origine dell’insediamento umano sul colle si perde nella notte dei tempi e, a questo proposito, la leggenda che più ha colpito l’immaginazione dei suoi abitanti, racconta che la città fu fondata da Attila, re degli Unni, durante la loro feroce invasione del 452 d.C., che gli valse il soprannome di Flagellum Dei. Secondo la leggenda Attila ordinò ai suoi soldati di costruire un colle da cui poter osservare da lontano l’incendio da lui appiccato alla colonia romana di Aquileia, a suo tempo una delle città più importanti dell’Impero, dopo averla saccheggiata e devastata. I guerrieri Unni eseguirono l’ordine ammucchiando la terra portata nei loro elmi1, a seconda delle versioni in una sola notte o “in tre giorni come per incanto” come scrive nel 1852 il giornalista e storico Amédée Thierry (1797-1873)2.
Forse nel XIX secolo una delle torri del colle veniva chiamata la Torre di Attila, come ricorda lo stesso scrittore francese:
[Fino a poco tempo fa era mantenuta] in buono stato una torre quadrata di apparenza romana che faceva parte delle vecchie costruzioni[…] Era reliquia cara al cuore del popolo, ed ogni buon abitante di Udine mostrandola allo straniero diceva con una specie di orgoglio: “ecco la torre di Attila!”.
Una denominazione che però non sembra conosciuta, pochissimi anni dopo, dal medico ed erudito locale Giandomenico Ciconi (1802-1869) che, nel darci la traduzione del passaggio di Thierry, chiosa3:
Forse allude ad una torre quadrata che sorgeva sul colle verso ponente, contigua all’antico muro di recinto del Castello e demolita in quest’anno 1855 dall’i[mperial] r[egio] Genio militare austriaco nel costruire fortificazioni.
La geologia e la storia ci raccontano qualcosa di diverso. Il colle è di origine morenica, come la cerchia delle colline a nord di Udine4.
Sulla fondazione della città sono state avanzate varie ipotesi, che rimangono tali in quanto prive di documentazione storica. Nell’elenco dei possibili fondatori troviamo i Galli transalpini, i Romani, i Cimbri, Attila e i Longobardi. La documentazione archeologica indica che, a quanto sembra, i primi insediamenti stabili risalgono, all’Età del Bronzo, circa dal 1500 a.C.5. Sono allo studio i resti di una struttura abitativa, verosimilmente una capanna, risalente all’Età del Bronzo, tra il 1300 e il 1200 a.C., rinvenuta durante una serie di lavori di restauro conservativo di Palazzo Dorta all’inizio di via Mercatovecchio.
Il più antico documento superstite che cita l’esistenza del castello di Udene è il diploma dell’11 giugno 983 con cui l’imperatore del Sacro Romano Impero Otto II (955-983), durante la Dieta di Verona, lo confermò al Patriarca di Aquileia6.
Il Giardin Grande e la sua “bestiaccia”
L’insediamento originario dalla sommità del colle si espanse gradualmente sul versante occidentale (la zona della già citata via Mercatovecchio) mentre su quello orientale, cinto dalla prima cerchia di mura, si trovava un’ampia depressione oggi conosciuta come Piazza Primo Maggio (denominazione celebrativa del 1° Maggio 1945 quando fu ripristinata la “Festa dei Lavoratori” dopo lo soppressione e lo spostamento voluta dal fascismo nel 19257) ma più comunemente chiamata Giardin Grande. E’ una piazza ellittica, alberata con una fontana centrale.
Secondo una leggenda, qui nella versione riportata dal folklorista Valentino Ostermann (1841-1904)8:
E contin che il sardin une volte al jere un grand lago, dulà che jentrave la roe, e si leve in brcçhe fin sot la rive del çhisçhel. In chest lago e jere une gran besteate che mangiava la int, e che je stade masade da un sant, che dopo al puartà in vôt une cueste di cheste bestie e Madone di Grasie.
[Raccontano che il giardino una volta era un gran lago dove entrava la roggia e si andava in barca fin sotto la salita del castello. In questo lago c’era una grande bestiaccia che mangiava la gente e che è stata uccisa da un santo che poi portò in voto una costola di questa bestia alla Madonna delle Grazie].
Secondo altre versioni questo terribile mostro, artefice di molte stragi, sarebbe stato abbattuto con l’aiuto della Vergine da alcuni uomini coraggiosi che in segno di ringraziamento offrirono al vicino Santuario della Madonna delle Grazie un osso del mostro ucciso9.
Nella mitologia cristiana il drago è visto come una delle possibili incarnazioni del demonio sconfitto dalla forza della santità o, come in questa versione della leggenda, con l’aiuto della Vergine. La leggenda di San Giorgio e il drago è l’esempio più noto di questi filone di narrazioni10. La leggenda udinese, pur non molto articolata dal punto di vista narrativo, è interessante in quanto contiene indicazioni che rimandano alla storia dell’area in questione e alla letteratura italiana.
La documentazione storica, per quanto non sempre accurata, ci dice che la piazza odierna era effettivamente paludosa e in parte invasa dall’acqua, e come tale, si può supporre avesse anche funzione difensiva. Si trattava di acqua piovana e forse anche proveniente dalle due rogge (“di Udine”, a nord-ovest, e “di Palmanova”, a nord-est) che, non si sa con precisione da quando, attraversano la città11.
La prima menzione di un lacus a Udine risale ad un documento del patriarca Ulrich II von Treffen (1161-1182), firmato nella sua sede cividalese il 4 maggio 1171, che intendeva disciplinare l’uso dell’acqua del lacus medesimo: era semplicemente un ampio stagno, simile per conformazione ai tanti sfueis (“stagni”, in friulano) che – fino alla costruzione dell’acquedotto del Friuli centrale – hanno consentito, bene o male, la sopravvivenza di tutti i villaggi dell’alta pianura. Basta consultare all’Archivio di Stato le mappe napoleoniche per scoprire che ogni paese ne aveva uno12.
L’estensione di questo lacus non è definita. Doveva comunque avere una certa profondità almeno in certi periodi. Rimane infatti di questo sfuei testimonianza iconografica in un disegno acquerellato (oggi in Biblioteca civica “Vincenzo Joppi” di Udine, Fondo Principale, ms. 523, c. 401v) che l’architetto Giovanni Leonardo Carlevaris (1614-1669) trasse, nel 1668, da tre disegni del medico udinese Enrico Palladio degli Olivi (c. 1580-1629), dove si scorge il Patriarca vestito di rosso, accingersi a salire su una barca, dopo essere disceso dal castello soprastante13, “onde recarsi a diporto nel lago”14. Non è certo che la piazza, o parte di essa, fosse davvero un luogo ameno. E’ certo che per secoli il Comune di Udine ebbe notevoli difficoltà nel gestire, ripulire, regolare il flusso e deflusso delle acque nonché l’uso e lo sfruttamento dell’avvallamento, spesso paludoso e maleodorante15.
Negli scavi per il rifugio antiaereo fatti sul versante verso il Giardino, alla quota del piano stradale, sono stati trovati avanzi di remi di legno di noce e di erbe palustri16. Sappiamo che nel 1238 il patriarca trasferì la sede del Patriarcato di Aquileia, che deteneva il potere sia religioso che temporale in Friuli, da Cividale a Udine dando un forte impulso allo sviluppo della città. Fra le varie iniziative in questa direzione ci fu la trasformazione di parte dell’avvallamento in cui si trovava il lacus in hortus patriarchalis, o Zardinum Domini Patriarchae, da cui il toponimo ancora in uso di Giardin Grande17.
Grazie a questo giardino il Friuli e Udine entrano, rielaborati in chiave letteraria, nel Decamerone (1348-53) di Giovanni Boccaccio. Nella quinta novella della decima giornata Emilia racconta che
In Frioli, paese quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna chiamata madonna Dianora
moglie di tal Gilberto, ma anche oggetto delle attenzioni di un certo messer Ansaldo. Volendo porre fine al serrato corteggiamento di quest’ultimo, Dianora gli promette di concedergli le sue grazie solo se Ansaldo riuscirà a soddisfare un suo desiderio che lei giustamente giudica irrealizzabile:
io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti àlbori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse
Ma Ansaldo ricorre alle arti magiche di un negromante che in gennaio “in un bellissimo prato vicino alla città” crea “un de’ più be’ giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni maniera”. Soltanto per tre giorni, però, quanto dura l’incantesimo.
Nella tradizione popolare del drago rimane invece la costola portata in segno di ringraziamento al Santuario della Beata Vergine delle Grazie che domina la piazza dal lato opposto a quello del castello.
Ostermann pensava che la cosiddetta costola del drago fosse “di elefante o d’altro grosso pachiderma, probabilmente di quelle che portavano i pellegrini reduci da Terrasanta”18. In realtà, secondo il direttore del Museo Friulano di Storia Naturale di Udine, Giuseppe Muscio, che l’ha esaminata per noi, si tratta di una costola di balenottera comune (Balaenoptera physalus, un cetaceo presente anche nei mari italiani), lunga 115 centimetri senza calcolare la curvatura, nel qual caso ha uno sviluppo di 150 centimetri19. Un reperto simile, conservato presso il santuario tardo quattrocentesco/cinquecentesco della Beata Vergine di Sombreno, a Paladina (BG), è stato anch’esso identificato di recente come una costola di un cetaceo, molto probabilmente una balena, e il test del carbonio-14 lo ha datato al periodo 1435-155020.
La Beata Vergine di San Luca
Un tempo la costola era appesa nell’atrio mentre ora è conservata in un locale interno del complesso del santuario, costruito su una chiesa preesistente per ospitare degnamente l’icona raffigurante la Vergine e il Bambino considerata miracolosa e oggetto della devozione popolare, “che si dice esser di mano dell’Evangelista S. Luca”21.
L’icona, su tavola di 95 x 85 è in stile bizantino, del tipo definito “Madonne di San Luca”, pare di bottega veneta del XIV o XV secolo, e ha una storia piuttosto movimentata, almeno stando alla tradizione.
Secondo quest’ultima, infatti, venne portata a Udine nel 1479, quando la città come tutto il Friuli era, dal 1420, sotto il dominio della Repubblica di Venezia, dal rappresentante della città lagunare, il luogotenente della Patria del Friuli Giovanni Emo (1419-1483) cui era stata donata dal sultano Maometto II (1432-1481) quando il patrizio veneziano era stato “orator” della Serenissima a Costantinopoli qualche anno prima22.
Sempre secondo la tradizione, il luogotenente risiedeva in castello dove in una delle sale era esposta l’icona che attirò presto l’attenzione generale con delle guarigioni descritte come miracolose. Una di queste parve particolarmente prodigiosa: una cuoca che si era quasi staccata una mano con un coltello, si rivolse devotamente all’icona della Vergine e la mano venne risanata completamente23. A quel punto, il rappresentante veneziano decise di farla trasportate, l’8 settembre 1479, con una solenne processione, nella chiesa sull’altro della piazza ai piedi del castello, allora dedicata ai santi Gervasio e Protasio, dove, dal giugno precedente operavano, come ora, i frati dell’Ordine dei Servi di Maria24. Tutto questo viene raccontato per la prima volta dal servita Domenico Margarita, priore del convento delle Grazie in un manoscritto del 1658 in cui però, a conclusione del racconto chiarisce onestamente che la documentazione scritta del fatto non esiste in convento. Egli afferma d’aver ricavato queste notizie da padre Marc’Antonio Sbroiavacca due giorni prima di morire; il quale a sua volta lo ascoltò da padre Silvio da Udine, che se fosse ancora vivo avrebbe avuto 120 anni (e quindi sarebbe nato intorno al 1538, ben dopo le vicende descritte). E sottolinea che essi raccontavano solamente ciò che avevano direttamente udito25.
La “maschera del diavolo”
Nei secoli la devozione alla Madonna delle Grazie non è mai venuta meno ed è tuttora sentita in città. Il santuario ha infatti una ricca collezione di ex-voto, catalogati dal servita Emilio Bedont (1938-2013) nel 1979, il più famoso dei quali è la cosiddetta “Maschera del diavolo”, che non è una maschera, ma un’armatura.
Diverse sono le leggende sulla sua origine. Quella che sembra essere più antica appare come quattordicesimo miracolo nel manoscritto secentesco di Margarita 26:
1560, mese di Febraro
Un tal gentiluomo, che per degni rispeti si tace’l nome, et cognome, qui di Udine, essendo il carnevale, conforme all’uso, s’imascherò. Ma in che forma? In forma di diavolo. Erano alquanti di loro mascherati in compagnia, che venivano verso Prato chiuso, dove facevano festini, et balli. Quando furono in giardino sotto i scallini del cimitero della Madonna delle Gratie, tutti gl’altri compagni, per la riverenza, che portavano al luoco sacro, et alla santissima Madre delle gratie, andarono à passar il ponte di là dei molini, eccetto questo demonio indiavoloato, che, come per sprezzo, volse passa per il cimitero esso solo. Che avvenne? Avvenne questo, che essendo andato à casa per spogliarsi quell’habito maledetto – ecco il miracolo – che mai potè spogliarsi sin tanto che non riccorse all’intercessione di quella Vergine, ch’haveva sprezzato. […]. Venne finalmente questo peccator pentito à sodisfar al suo voto, et in testimonio lasciò quella propria armatura di ferro della quale s’era vestito, et mascherato. havendo sopra l’elmo un paro di corni, che benissimo si può veder in chiesa.
Nel 1843 il poeta Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), in una ballata, La maschera del Giovedì grasso (con le illustrazioni di Garlato), riscrive la storia col gusto dell’epoca, raccontando di un amore non corrisposto (di Uberto nei confronti Emma), di un innamorato costretto alla fuga (Aldo), della morte dell’amata e quindi della punizione del reo, “per nov’anni” fino al perdono finale e alla liberazione dall’armatura27.
Ostermann, a fine Ottocento, riporta infine una diversa versione della leggenda (che qui presentiamo in versione italiana) aggiungendo però che “fu portata ivi invece da un Savorgnano [una famiglia patrizia friuliana, divisa in più rami, NdA] , per voto fatto in un combattimento”28:
Chi è andato a Madonna delle Grazie avrà visto appena entrati dal portone, a mancina entrando, appeso in alto sul muro, un vestito di ferro color oro e con le corna. […] Raccontano i vecchi che un signore era andato in maschera vestito da diavolo e che entrato in chiesa è andato a prendere la cenere sulla testa il primo giorno di Quaresima, e quando era lì lì per prenderla è caduto a terra, morto. Miracolo della Madonna!’
L’armatura con le corna è tuttora esposta nell’atrio del santuario, non appesa in alto, ma in una bacheca protettiva. Sempre stata molto cara alla comunità locale, nel 1827 fu però venduta dal parroco don Francesco Alessio all’antiquario milanese Sanquirico nel 1827. Dopo le proteste degli udinesi fu riacquistata dal vescovo Emmanuele Lodi nel 183029.
Il restauro dell’armatura negli anni ‘70 del XX secolo e una nuova indagine pubblicata nel 2004 dagli archeologi ed esperti di metallurgia antica Alessandra R. Giumlia-Mair e Alan Williams ci forniscono alcune interessanti informazioni sul reperto. E’ un raro esempio di produzione italiana del XV secolo. Mentre le armature del XVI secolo sono infatti piuttosto numerose e diffuse, gli esemplari del XV secolo giunti fino a noi sono solamente una trentina. L’armatura “del diavolo” della Basilica della Madonna delle Grazie di Udine è quindi un reperto significativo e di grande valore storico, quasi interamente originale e sulle varie parti datate tra il 1470 e il 1480 compaiono marche che permettono di attribuirla agli armaioli del periodo. Nessuna parte dell’armatura, che doveva essere indossata da un uomo con una statura non superiore a un metro e 55 centimetri è di ferrite (cioè ferro dolce cementato, il materiale solitamente usato) ma sono utilizzati acciai con tenori di carbonio diversi30.
Tornando al Giardino…
Molte cose sono successe in Piazza Primo Maggio e zone limitrofe, molte storie sono fiorite in e su questo luogo. Terreno demaniale, fu utilizzato in vario modo dall’autorità di turno (mercato, fiere, esercitazioni d’artiglieria, parate militari, processioni, teatro e sala da concerto all’aperto, tornei di tombola, perfino per il lancio di un pallone aerostatico nel 1784, purtroppo anche luogo deputato alle esecuzioni capitali fino ai giorni della dominazione austriaca) finché nel 1808 il Viceré del Regno Italico lo adattò a passeggio, “fu tracciata la grande ellisse, sradicati i vecchi alberi […] e messe a dimora le nuove piante”31.
Il Giardin grande prendeva allora, sostanzialmente, le caratteristiche che ancora oggi ha. Rimane infatti il luogo di ritrovo per eccellenza di Udine e dintorni per spettacoli pubblici, memorabili quelli di fuochi d’artificio piazzati sul colle del Castello, punto di raccolta e partenza per manifestazioni di vario genere e soprattutto sede della fiera più antica (dal 1486) e popolare di Udine, la Fiera di Santa Caterina d’Alessandria che si tiene negli ultimi giorni di novembre, prima e dopo il 25, festa della Santa.
Storia, tradizioni popolari e misteri (la bestiaccia, la tavola attribuita a San Luca, la maschera del diavolo, il giardino del patriarca, il giardino fiorito d’inverno per amore e per magia) sempre in vista del dorato angelo del Castello. Con un invito a visitare non solo virtualmente il giardino, il santuario, la città di Udine.
L’autrice desidera ringraziare Francesco Maria Polotto O.S.M., parroco Beata Vergine delle Grazie di Udine; le bibliotecarie Cristina Marsili, direttrice, e Federica Pellini, sezione manoscritti e rari, della Biblioteca civica “Vincenzo Joppi” di Udine; Giorgio De Zorzi, bibliotecario della Biblioteca Fra Paolo Sarpi di Santa Maria delle Grazie in Udine; Giuseppe Muscio, direttore del Museo Friulano di Storia Naturale di Udine; Andrea Marcon, bibliotecario della Biblioteca del Seminario della Diocesi di Concordia-Pordenone e Roberto Labanti, che ha curato l’editing dell’articolo.
Note
Molto bello l’ articolo, grazie. Una curiosità: raggruppabile con la “costola del Diavolo” è un enorme costola di cetaceo esposta sulla facciata di una casa “colonica”, in realtà facente parte dell’ antico complesso della Villa Medicea di Cafaggiolo. Percorrendo la statale da San Piero a Sieve a Firenze, ci si sbatte praticamente contro, ad una curva a Cafaggiolo. In senso contrario non la si vede, se non si gira la testa. Cosa ci fa una costola di cetaceo su un altipiano appenninico? Un tentativo di spiegarlo nel link, ma non è stato mai scientificamente esaminato. Se fosse un fossile, la spiegazione, da probabile, diverebbe certa.
https://curiositasufirenze.wordpress.com/2012/03/06/l-osso-di-balena-di-cafaggiolo-quando-il-mugello-era-un-mare/