Antologia dell'inconsueto

Antologia dell’inconsueto. La seduta spiritica a casa Malfenti: «Si muove, si muove!»

Ne La coscienza di Zeno, il terzo romanzo di Italo Svevo (considerato dalla critica il capolavoro sveviano) è noto che il protagonista, Zeno Cosini, in cura dal misterioso psicanalista, il dottor S., decide, ad un certo punto, di interrompere la terapia, giungendo alla conclusione di non essere affatto malato e di non avere nulla da curare. Lo psicanalista, dunque, per vendicarsi di questo oltraggio (contro ogni etica professionale) pubblica il diario privato che ha fatto tenere al suo paziente, ma è pronto, comunque, a dividere con lui i proventi delle vendite del libro a patto che egli riprenda la cura. Il libro che il lettore legge, dunque, nella finzione letteraria ben congegnata, altro non è che questo diario dove ogni capitolo rappresenta un trauma subito da Zeno, andando a rappresentare, nel panorama dei nuovi romanzi dell’epoca, un’assoluta novità nel modo di trattare la coordinata temporale di un’opera letteraria. Il Naturalismo è stato superato.

Ma quello che ci interessa in questa sede è quanto avviene all’interno del quinto capitolo del romanzo, dal titolo «La storia del mio matrimonio», dove all’interno di una seduta spiritica (in perfetto stile Ouija) il protagonista Zeno Cosini, approfitta del buio e del trasporto emotivo del proprietario di casa per dichiarare il suo amore alla donna che ama e che vorrebbe sposare, ma alla quale non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi in condizioni, diciamo, di normalità.

Non sarà superfluo ricordare che questo romanzo nasce anche come polemica nei confronti della psicanalisi che proprio in quegli anni (il libro è pubblicato nel 1923 dall’editore Cappelli di Bologna) cominciava ad affermarsi, e particolarmente nell’ambiente austro-ungarico di cui Trieste, la città di Italo Svevo, faceva parte (impero che si dissolve, come è noto, tra il 1918 e il 1919). Se vogliamo anche dietro il dottor S. potrebbe ironicamente celarsi il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, viennese e austriaco.

Ma facciamo una brevissima premessa al quinto capitolo prima di lasciare il lettore al testo in cui si racconta la buffa vicenda di questo maldestro corteggiamento (possiamo dire) spiritico. Zeno cerca spasmodicamente una moglie e prende a frequentare la casa di Giovanni Malfenti (uomo con cui ha rapporti di lavoro) il quale ha quattro figlie: Anna, Alberta, Augusta, Ada. Cosini si infatua di Ada, la più bella delle sorelle, ma che, invece, ha interesse per Guido Speier, un giovane caratterialmente diverso da Zeno e che ha generalmente successo nella vita, sia dal punto di vista professionale sia amoroso (al contrario di Zeno).

Dopo essersi preso una pausa dal frequentare casa Malfenti, ecco che un bel giorno Cosini si ripresenta in quell’appartamento proprio nel bel mezzo di una seduta spiritica e qui trova proprio Guido, anch’egli interessato a Ada. Ma l’occasione è propizia per dichiarare il suo amore, e approfitta proprio della riunione medianica (alla quale non dà nessuna importanza) per non perdere ulteriore tempo e trovare il coraggio di parlare con Ada al buio. In questa situazione da commedia di antica filmografia (tanto che il protagonista de «La coscienza» è stato paragonato dalla critica letteraria a Buster Keaton, Laurel e Hardy) Zeno inizia a pilotare, dopo il goffo tentativo di rendere noto il suo amore a Ada, la seduta spiritica, a far muovere il tavolino e a far comparire con le lettere il nome «Guido». Ma a questo punto è senz’altro meglio lasciare la parola a Italo Svevo e rileggere il brano estrapolato dal romanzo.

La storia del mio matrimonio
Dal quinto capitolo

«Essa mi condusse al salotto ch’era immerso nell’oscurità più profonda. Arrivatovi dalla piena luce dell’anticamera, per un momento non vidi nulla e non osai movermi. Poi scorsi varie figure disposte intorno ad un tavolino, in fondo al salotto, abbastanza lontano da me.

Fui salutato dalla voce di Ada che nell’oscurità mi parve sensuale. Sorridente, una carezza:

— S’accomodi, da quella parte e non turbi gli spiriti! — Se continuava così io non li avrei certamente turbati.

Da un altro punto della periferia del tavolino echeggiò un’altra voce, di Alberta o forse di Augusta:

— Se vuole prendere parte all’evocazione, c’è qui ancora un posticino libero.

Io ero ben risoluto di non lasciarmi mettere in disparte e avanzai risoluto verso il punto donde m’era provenuto il saluto di Ada. Urtai col ginocchio contro lo spigolo di quel tavolino veneziano ch’era tutto spigoli. Ne ebbi un dolore intenso, ma non mi lasciai arrestare e andai a cadere su un sedile offertomi non sapevo da chi, fra due fanciulle di cui una, quella alla mia destra, pensai fosse Ada e l’altra Augusta. Subito, per evitare ogni contatto con questa, mi spinsi verso l’altra. Ebbi però il dubbio che mi sbagliassi e alla vicina di destra domandai per sentirne la voce:

— Aveste già qualche comunicazione dagli spiriti?

Guido, che mi parve sedesse a me di faccia, m’interruppe. Imperiosamente gridò:

— Silenzio!

Poi, più mitemente:

— Raccoglietevi e pensate intensamente al morto che desiderate di evocare.

Io non ho alcun’avversione per i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là. Ero anzi seccato di non aver introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino, giacché vi otteneva tale successo. Ma non mi sentivo di obbedire agli ordini di Guido e perciò non mi raccolsi affatto. Poi m’ero fatti tanti di quei rimproveri per aver permesso che le cose arrivassero a quel punto senz’aver detta una parola chiara ad Ada, che giacché avevo la fanciulla accanto, in quell’oscurità tanto favorevole, avrei chiarito tutto. Fui trattenuto solo dalla dolcezza di averla tanto vicina a me dopo di aver temuto di averla perduta per sempre. Intuivo la dolcezza delle stoffe tepide che sfioravano i miei vestiti e pensavo anche che così stretti l’uno all’altra, il mio toccasse il suo piedino che di sera sapevo vestito di uno stivaletto laccato. Era addirittura troppo dopo un martirio tanto lungo.

Parlò di nuovo Guido:

— Ve ne prego, raccoglietevi. Supplicate ora lo spirito che invocaste di manifestarsi movendo il tavolino.

Mi piaceva ch’egli continuasse ad occuparsi del tavolino. Oramai era evidente che Ada si rassegnava di portare quasi tutto il mio peso! Se non m’avesse amato non m’avrebbe sopportato. Era venuta l’ora della chiarezza. Tolsi la mia destra dal tavolino e pian pianino le posi il braccio alla taglia:

— Io vi amo, Ada! — dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire meglio.

La fanciulla non rispose subito. Poi, con un soffio di voce, però quella di Augusta, mi disse:

— Perché non veniste per tanto tempo?

La sorpresa e il dispiacere quasi mi facevano crollare dal mio sedile. Subito sentii che se io dovevo finalmente eliminare quella seccante fanciulla dal mio destino, pure dovevo usarle il riguardo che un buon cavaliere quale son io, deve tributare alla donna che lo ama e sia dessa la più brutta che mai sia stata creata. Come m’amava! Nel mio dolore sentii il suo amore. Non poteva essere altro che l’amore che le aveva suggerito di non dirmi ch’essa non era Ada, ma di farmi la domanda che da Ada avevo attesa invano e che lei invece certo s’era preparata di farmi subito quando m’avesse rivisto.

Seguii un mio istinto e non risposi alla sua domanda, ma, dopo una breve esitazione, le dissi:

— Ho tuttavia piacere di essermi confidato a voi, Augusta, che io credo tanto buona!

Mi rimisi subito in equilibrio sul mio treppiede. Non potevo avere la chiarezza con Ada, ma intanto l’avevo completa con Augusta. Qui non potevano esserci altri malintesi.

Guidò ammonì di nuovo:

— Se non volete star zitti, non c’è alcuno scopo di passare qui il nostro tempo all’oscuro!

Egli non lo sapeva, ma io avevo tuttavia bisogno di un po’ di oscurità che m’isolasse e mi permettesse di raccogliermi. Avevo scoperto il mio errore e il solo equilibrio che avessi riconquistato era quello sul mio sedile.

Avrei parlato con Ada, ma alla chiara luce. Ebbi il sospetto che alla mia sinistra non ci fosse lei, ma Alberta. Come accertarmene? Il dubbio mi fece quasi cadere a sinistra e, per riconquistare l’equilibrio, mi poggiai sul tavolino. Tutti si misero ad urlare: — Si muove, si muove! — Il mio atto involontario avrebbe potuto condurmi alla chiarezza. Donde veniva la voce di Ada? Ma Guido coprendo con la sua la voce di tutti, impose quel silenzio che io, tanto volentieri, avrei imposto a lui. Poi con voce mutata, supplice (imbecille!) parlò con lo spirito ch’egli credeva presente:

— Te ne prego, di’ il tuo nome designandone le lettere in base all’alfabeto nostro!

Egli prevedeva tutto: Aveva paura che lo spirito ricordasse l’alfabeto greco.

Io continuai la commedia sempre spiando l’oscurità alla ricerca di Ada. Dopo una lieve esitazione feci alzare il tavolino per sette volte così che la lettera G era acquisita. L’idea mi parve buona e per quanto la U che seguiva costasse innumerevoli movimenti, dettai netto netto il nome di Guido. Non dubito che dettando il suo nome, io non fossi diretto dal desiderio di relegarlo fra gli spiriti.

Quando il nome di Guido fu perfetto, Ada finalmente parlò:

— Qualche vostro antenato? — suggerì. Sedeva proprio accanto a lui. Avrei voluto muovere il tavolino in modo da cacciarlo fra loro due e dividerli.

— Può essere! — disse Guido. Egli credeva di avere degli antenati, ma non mi faceva paura. La sua voce era alterata da una reale emozione che mi diede la gioia che prova uno schermidore quando s’accorge che l’avversario è meno temibile di quanto egli credesse. Non era mica a sangue freddo ch’egli faceva quegli esperimenti. Era un vero imbecille! Tutte le debolezze trovavano facilmente il mio compatimento, ma non la sua.

Poi egli si rivolse allo spirito:

— Se ti chiami Speier fa un movimento solo. Altrimenti movi il tavolino per due volte. — Giacché egli voleva avere degli antenati, lo compiacqui movendo il tavolino per due volte.

— Mio nonno! — mormorò Guido.

Poi la conversazione con lo spirito camminò più rapida. Allo spirito fu domandato se volesse dare delle notizie. Rispose di sì. D’affari od altre? D’affari! Questa risposta fu preferita solo perché per darla bastava movere il tavolo per una volta sola. Guido domandò poi se si trattava di buone o di cattive notizie. Le cattive dovevano essere designate con due movimenti ed io, — questa volta senz’alcun’esitazione, — volli movere il tavolo per due volte. Ma il secondo movimento mi fu contrastato e doveva esserci qualcuno nella compagnia che avrebbe desiderato che le nuove fossero buone. Ada, forse? Per produrre quel secondo movimento mi gettai addirittura sul tavolino e vinsi facilmente! Le notizie erano cattive.

Causa la lotta, il secondo movimento risultò eccessivo e spostò addirittura tutta la compagnia.

— Strano! — mormorò Guido. Poi, deciso, urlò:

— Basta! Basta! Qui qualcuno si diverte alle nostre spalle.

Fu un comando cui molti nello stesso tempo ubbidirono e il salotto fu subito inondato dalla luce accesa in più punti. Guido mi parve pallido! Ada s’ingannava sul conto di quell’individuo ed io le avrei aperti gli occhi.

Nel salotto, oltre alle tre fanciulle, v’erano la signora Malfenti ed un’altra signora la cui vista m’ispirò imbarazzo e malessere perché credetti fosse la zia Rosina. Per ragioni differenti le due signore ebbero da me un saluto compassato.

Il bello si è ch’ero rimasto al tavolino, solo accanto ad Augusta. Era una nuova compromissione, ma non sapevo rassegnarmi d’accompagnarmi a tutti gli altri che attorniavano Guido, il quale con qualche veemenza spiegava come avesse capito che il tavolo veniva mosso non da uno spirito ma da un malizioso in carne ed ossa. Non Ada, lui stesso aveva tentato di frenare il tavolino fattosi troppo chiacchierino. Diceva:

— Io trattenni il tavolino con tutte le mie forze per impedire che si movesse la seconda volta. Qualcuno dovette addirittura gettarsi su di esso per vincere la mia resistenza.

Bello quel suo spiritismo: Uno sforzo potente non poteva provenire da uno spirito!

Guardai la povera Augusta per vedere quale aspetto avesse dopo di aver avuto la mia dichiarazione d’amore per sua sorella. Era molto rossa, ma mi guardava con un sorriso benevolo. Solo allora si decise di confermare d’aver sentita quella dichiarazione:

— Non lo dirò a nessuno! — mi disse a bassa voce.

Ciò mi piacque molto.

— Grazie, — mormorai stringendole la mano non piccola, ma modellata perfettamente. Io ero disposto di diventare un buon amico di Augusta mentre prima di allora ciò non sarebbe stato possibile perchè io non so essere l’amico delle persone brutte. Ma sentivo una certa simpatia per la sua taglia che avevo stretta e che avevo trovata più sottile di quanto l’avessi creduta. Anche la sua faccia era discreta, e pareva deforme solo causa quell’occhio che batteva una strada non sua. Avevo certamente esagerata quella deformità ritenendola estesa fino alla coscia.

Avevano fatto portare della limonata per Guido. Mi avvicinai al gruppo che tuttavia l’attorniava e m’imbattei nella signora Malfenti che se ne staccava. Ridendo di gusto le domandai:

— Abbisogna di un cordiale? — Ella ebbe un lieve movimento di disprezzo con le labbra:

— Non sembrerebbe un uomo! — disse chiaramente.

Io mi lusingai che la mia vittoria potesse avere un’importanza decisiva. Ada non poteva pensare altrimenti della madre. La vittoria ebbe subito l’effetto che non poteva mancare in un uomo fatto come son io. Mi sparì ogni rancore e non volli che Guido soffrisse ulteriormente. Certo il mondo sarebbe meno aspro se molti mi somigliassero.

Sedetti a lui da canto e, senza guardare gli altri, gli dissi:

— Dovete scusarmi, signor Guido. Mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere. Sono stato io che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome. Non l’avrei fatto se avessi saputo che anche vostro nonno aveva quel nome.

Guido tradì nella sua cera, che si schiarì, come la mia comunicazione fosse importante per lui. Non volle però ammetterlo e mi disse:

— Queste signore sono troppo buone! Io non ho mica bisogno di conforto. La cosa non ha alcun’importanza. Vi ringrazio per la vostra sincerità, ma io avevo già indovinato che qualcuno aveva indossata la parrucca di mio nonno».

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