Giandujotto scettico

La truffa alla nigeriana nel Verbano… nel 1903!

Giandujotto scettico n° 90 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Sappiamo tutti come funziona: vi arriva una mail, magari in un inglese traballante, a nome di un sedicente principe nigeriano – nientemeno! Lui è ricchissimo, negli anni ha messo da parte 10 milioni di euro in una banca del suo Paese. Solo che laggiù si è appena verificato un colpo di stato, e non può certo presentarsi di persona ai titolari dell’istituto di credito… Ha bisogno di un prestanome, che faccia le sue veci e anticipi anche quei miseri 1000 euro necessari a svincolare il conto. E – fortuna delle fortune! – ha pensato a voi, proprio a voi, per aiutarlo e dividere con lui quell’immenso tesoro!

Di sicuro a questo punto avete già capito l’antifona e cestinato la mail. Anzi, magari la graziosa offerta sarà stata intercettata prima dal vostro sistema antispam, che ha fatto il lavoro per voi. È la truffa alla nigeriana, che da anni funesta le caselle di mezzo mondo con le sue promesse di futura ricchezza. Eppure, nonostante sia arcinota, continua a imperversare: basta che quattro-cinque persone abbocchino, tra le migliaia a cui arriva la proposta, e l’autore dell’imbroglio è a posto per un po’.

Ma quanto è antica questa forma di inganno? E come funzionava quando non c’erano ancora le mail

La nonna della nigeriana era la truffa alla spagnola, altresì detta truffa dell’entierro: ne abbiamo tracce fin dal Settecento e fu popolarissima per tutto l’Ottocento. Oggi scopriremo come funzionava: abbiamo trovato infatti una serie di lettere, giunte a un cittadino di Cannobio (Verbania), che furono pubblicate integralmente dal settimanale La Vedetta nel dicembre 1903. È, nel suo piccolo, un documento straordinario: la maggior parte delle persone cestinava le missive appena arrivavano, proprio come facciamo con le truffe alla nigeriana. Ogni tanto, qualche giornale pubblicava la prima lettera dell’imbroglione per mettere in guardia i lettori. Ma questo è uno dei pochi casi (l’unico a nostra conoscenza) in cui possediamo l’intero epistolario del truffatore: il destinatario fece infatti finta di accettare, chiese notizie aggiuntive, tergiversò, passando ogni volta le lettere alla redazione della Vedetta – e, scommettiamo, facendosi grasse risate insieme ai giornalisti.

Quest’uomo si chiamava Giuseppe Morosatti: titolare di una panetteria/pasticceria della zona, è probabile che fosse mediamente benestante, dal momento che aveva alle sue dipendenze alcuni lavoranti. Attivo nella beneficenza e nell’organizzazione delle feste di paese, fu anche per alcuni anni consigliere comunale di Cannobio. Quando gli arrivò la lettera, però, doveva essere un periodaccio: La Vedetta del 15 agosto 1903 racconta di cinque lutti che avevano funestato la famiglia e della moglie morta due anni prima; nell’agosto 1903, infine, era toccato al figlioletto Enrico, di cinque anni: a inizio Novecento, purtroppo, la mortalità infantile era ancora altissima. 

Forse non è un caso che la truffa fosse tentata proprio in un momento tanto delicato: spesso venivano prese di mira persone in difficoltà, colpite da gravi disgrazie. Lo spiegava il 7 luglio 1904 il settimanale La Tribuna Biellese, in occasione di una lettera arrivata da Valencia a una famiglia in cui era appena morto il padre. 

Questi malandrini, che debbono costituire una vasta associazione con affigliati anche nella nostra città, tengono dietro ai fatti che succedono e cercano di sorprendere, nel momento in cui più grave è l’angoscia e quindi meno cauta l’azione, la buona fede altrui. Nel caso presente si indirizzò la lettera ad una persona che si sa morta, e si parla di segreti e di confidenze che il morto avrebbe fatto per sollecitare i superstiti a cadere nella trappola.

La lettera arrivata a Giuseppe Morosatti, comunque, era meno elaborata: era indirizzata a lui soltanto e non faceva riferimenti a morti e defunti. Ecco come si articolava la truffa:

FASE 1: L’amo. nella prima lettera, pubblicata su La Vedetta il 5 dicembre 1903, non venivano chiesti soldi. Anzi, venivano offerti ben 200.000 franchi (probabilmente francesi), quasi un milione di euro dei nostri giorni! Il tutto era condito con una storiella di tesori sepolti fatta apposta per stuzzicare la curiosità del destinatario. Ecco il testo (abbiamo mantenuto gli errori ortografici): 

Prigioni militari di Barcellona li 25-11-903 

Signore! Le circostanze mi obbligano di cercare l’aiuto di una persona in Italia per effettuare un affare d’importanza. A vostra risposta vi darò più schiarimenti nell’incertitudine che questa lettera arivi nelle vostre mani mi concreto oggi abbozzarvi l’affare. Per cause politiche mi incontrai in Italia migrato e perseguito, e per salvare 800.000 franci in biglietti da banca che mi portava meco mi vidi forzato di sotterrarli, avendo cura di levare un piano del terreno e prendere delle misure esatte per poterli ritrovare.

Questo piano, le misure ed un foglio spiegativo, sono guardati in un segreto che .tiene nell’interno la mia valigia da viaggio. Obbligato poi di rinvenire in Spagna fui arrestato e sto in prigionia, essendomi dunque impossibile ricuperare i fondi nascosti senza l’aiuto di una persona che abiti l’Italia mi indirizzo a lei,se mi aiutate vi cederò volentieri la 4a parte dei 800.000 lire. Essendomi intervenuta la corrispondenza diretta,, indirizzate vostra risposta al mio servo, quindi la mia moglie è morta. Ecco l’indirizzo: 

Sig. Louis Miller
Trofalgar N.° 13 1 f.
Barcellona (Spagna) […]

Federico Alvarez
Dispensatemi perché non capisco bene l’italiano

Prima della firma figuravano alcune indicazioni pratiche: affrancare la risposta con un francobollo da 25 centesimi, non aggiungere contrassegni, ma soprattutto mantenere “segretezza e discrezione”.

FASE 2: Il romanzo. Dunque, il nostro uomo – Federico Alvarez – scriveva dalle prigioni di Barcellona. Ma perché era stato imprigionato lì? E come era venuto in possesso di 800.000 franchi, la cui quarta parte era gentilmente disposto a donare a uno sconosciuto? Morosatti gli scrisse dichiarandosi disposto ad “assecondarlo in ogni sua bisogna”, l’altro rispose, e il risultato fu quasi un romanzo d’appendice, comparso su La Vedetta il 15 dicembre 1903: 

Io era capitano cassiere di un reggimento d’artiglieria de l’armata del Re di Spagna, nonostante conspirava col partito repubblicano compromesso per aiutarlo a proclamare la Repubblica. Decisa la rivoluzione, il Comitè del partito accordò d’inviare in Germania una persona competente per comprare armamento ed io fui nomato per questa commissione; ma contando allora il Comité solamente con 300.000 franchi perché non aveva riscoso ancora che i fondi di alcuni provincie, mi comunicò di estrarre i fondi della cassa che stava al mio incarico promettendomi solennemente rimborsali al ritorno. Filato da questa promessa e soggiogato dal mio entusiasmo, accettai, ed accedei a disporre provisionalmente dei fondi del reggimento. Subito lasciai capitale sufficiente pei pagamenti durante la mia assenza al aiutante di cassa che stava anche compromesso, e partii portando meco li 300.000 franchi del Comité e 500.000 della cassa del reggimento. In totale 800.000. 

Se tutte le truffe di questo tipo erano ambientate in Spagna, nell’Ottocento, è perché la situazione politica era decisamente instabile. All’epoca, dopo parecchi contorcimenti, regnavano i Borbone-Parma, ma nel 1931 sarebbe stata proclamata la repubblica dominata dai partiti della sinistra rivoluzionaria, cosa che porterà alcuni anni dopo alla guerra civile. Il nostro finto Federico Alvarez, all’epoca si dichiarava capitano dell’esercito spagnolo, ma fiancheggiatore in segreto dei repubblicani (partito clandestino, retto da un Comité, cosa che doveva fare molto comunardi parigini). Per acquistare le armi necessarie all’insurrezione contro la monarchia, Alvarez aveva rubato 500.000 franchi alla cassa del reggimento, mentre altri 300.000 gli erano arrivati dai vertici del partito – o almeno così dichiarava. Ma le sue peripezie non finivano lì:

Arrivato in Germania, visitai le fabbriche d’armi, ed informato dei prezzi e condizioni più convenienti, rimisi al Comité nota detagliata per effettuar la compra colla sua approvazione. Aspettava risposta, quando ricevei avviso di mettermi tosto in salvo, perché nostra conspirazione stava scoperta, e conoscitore il Governo della mia missione inviava dei emissari per arrestarmi e chiedeva la mia stradizione. Atterrito da queste notizie, lasciai la Germania, attraversai l’Austria e mi internai in Italia, per allontanarmi del pericolo, e mettere in sicurtà i fondi che portava meco i quali decisi di nascondere non osando fidar a nessuno la mia situazione; al effetto feci per Italia un viaggio rapido e di strano itinerario per far perdere la mia traccia e poter operare con più sicurezza.

Alcuni giorni poi arrivai in Novara dove vedendomi libero di persecuzione, cercai nei dintorni un luogo sicuro ed a coperto da ogni eventualità, e poi di aver la certezza di trovarmi solo sotterrai li 800.000 franchi rinchiusi in una cassetta in zinco; subito levai il piano, presi delle misure e ritornai alla città e mettendo questi documenti nel segreto della valigia partii dirigendomi in Svizzera. 

Scoperto l’ammanco, la polizia spagnola era sulle tracce del nostro Alvarez, e dunque il nostro uomo era scappato in Italia, sotterrando il tesoro vicino a Novara e mettendo la mappa nel doppiofondo di una valigia. Ma perché poi era ritornato a farsi arrestare in Spagna? Anche per questo, c’era una spiegazione: 

In Lucerna ricevei la notizia di trovarsi gravemente malata la mia moglie e colla disperazione di tanta disgrazia mi arrischiai a venire qui, per avere almeno il triste consolo del suo ultimo Addio; arrivai qui senza contrattempo, ma nondimeno andare con precauzione ed essere travestito, fui conosciuto da un infame che credendo ottenere una ricompensa mi denunziò e mi fece arrestare. Per colmo poi di sventura alcun tempo poi morì la mia moglie non restandomi altra persona di fiduccia ch’il mio servo Luis, povero ed attempato. 

Louis, lo ricordiamo, era quello a cui si chiedeva di indirizzare la risposta alla prima lettera: era, dunque, un servo “povero e attempato”, che non poteva certo scavare alla ricerca di un tesoro. E la valigia con la mappa, ce l’aveva lui forse? No, le cose erano più complicate:

La valigia rimase nel potere della mia moglie fino la sua morte, e d’allora in poi la guarda la padrona dove si alloggiava e morì; ma devo farvi presente che né la padrona né persona alcuna conosce l’esistenza del segreto della valigia. Finora non ho fatto diligenza per riscattare i fondi nascosti aspettando il resultato del mio processo, ed essendo stato ora condannato a dieci anni di clausura in una fortezza ed alla prigionia subsidiaria sono deciso di ricuperarli ad ogni evento; ma, a chi fidare questa missione?

Né dei parenti né dei amici posso fidare, perchè solamente ho avuto disinganni dacché sono in prigione, e da quei del partito che avevano il dovere di procurarmi la libertà, non vedo che spiarmi e sorvegliarmi per sorprendere dove guardai li 800.000 franchi. Attristato e corrucciato al pari tempo di questo indegno procedere, sono affatto risolto di non fidar niente qui a persona alcuna; di più, avrei anche paura d’essere tradito altra volta e trovarmi nella ruina per sempre, disonorato e nel più grande abbandono. Queste ed altre ragioni che scuso darvi per non faticarvi più, mi obbligano dirigermi ad una persona del paese dove sotterrai i fondi, laquale, ancorché non sia che per gratitudine ed interesse, sarà certamente leale e discreta; giacché il mio servo Luis non può incaricarsi solo di una missione tanto delicata in paese strano. 

Conclusione: Alvarez pretendeva un giuramento di segretezza e una risposta immediata dal Morosatti, ribadiva la cessione della quarta parte del malloppo e si diceva pronto a mandargli il servo Louis con la mappa – a Novara o a Cannobio, secondo sua preferenza, in modo da non destar sospetti nei vicini e nei conoscenti di Morosatti. In questo modo, il fortunato panettiere avrebbe potuto scavare il forziere e a inviare al povero prigioniero spagnolo la sua parte del bottino. Richieste di soldi, al momento, non ne erano ancora arrivate.

FASE 3: L’invio del servo. Morosatti scrisse al prigioniero spagnolo accettando l’incarico. Le successive due risposte vennero pubblicate su La Vedetta nel numero del 19 dicembre (ma anticipate da un breve trailer la settimana prima). Finalmente l’affare era fatto e lo pseudo-Alvarez mandava a Cannobio il suo servo (chiamato qui Lecis o Luis, indifferentemente): 

Signore! Ho ricevuto vostra pregiata lettera 7 andante e vi rispondo subito per annunciarvi che domani ritirerà Lecis la valigia dell’albergo e preparerà il suo viaggio. Con un giorno d’anticipazione vi farò sapere la sua uscita da Barcellona. Alla presente lettera non dovrete rispondere perchè se Lecis è già fuori non potrà ricevere vostra risposta. Il mio servo porterà colla stessa valigia il piano, le misure ed un foglio spiegativo; di più porterà delle istruzioni ben detagliate fino a concludere l’affare; di modo che ancorché io non possa ricevere vostre notizie mentre Lecis sia assente, state tranquillo perchè nelle mie istruzioni tutto sarà preveduto.

Confido in vostra onoratezza, in vostra prudenza e chiaro criterio colla sicurezza che opererete con discrezione e senza dar luogo ai sospetti. Scuso darvi contrassegno alcuno per riconoscervi perchè dovendo recarsi nel proprio vostro domicilio non avete che accreditare a Lecis vostra personalità facendole vedere qualche mia lettera. 

Vi saluto con stima e credetemi vostro sincero
Alvarez.

FASE 4: La richiesta di soldi. Sembrava tutto a posto, ma… Ovviamente c’era stato un contrattempo. Il servo non era riuscito a recuperare la valigia, che – ve lo ricordate? – era custodita prima dalla moglie, e poi dalla sua padrona di casa. Ma questa non voleva mollarla senza il pagamento delle spese che aveva sostenuto per le cure e il funerale della defunta.

Signore, colla più profonda pena vedomi obbligato di farvi sapere un grave successo occorso; ma credete che vorrei scusarmi. Quando ieri vi scrivei, credevo prosimo il fine della mia sventura, ma vedo con amarezza che solo sono nel mondo per soffrire. Senza dubbio il buon Dio non vuole che stia tranquillo fino che abbia esaurito la coppa del dolore. Vi dico sinceramente che tanta sventura tienemi completamente spaventato. 

Ecco il successo, vedete signore se posso avere tranquillo lo spirito. Dopo la morte della mia moglie feci saper alla padrona che tanto i suoi servizi come le spese fatte durante la malattia ed enterramento della mia moglie lui sarebbe religiosamente pagati in quanto io fossi in libertà, perchè quando restai prigioniero mi furono sequestrati tutti i valori e denaro che allora portava meco. Importa il debito da mia moglie per pensione, servizi e spese la somma di 1960 franchi.

Nella credenza che la mia dannazione sarebbe di quattro o cinque anni, pregai anche alla padrona di guardare fedelmente la mia valigia durante la mia prigionia, ma essendo stato condannate a 10 anni di clausura ed alla prigionia subsidiaria e timoroso che la mia vita non sia tanto lunga come la dannazione, decidei di riscattare i fondi per migliorare la mia situazione e vedere poi se poteva procurarmi la libertà con una forte somma fosse quale fosse. Allora risolsi dirigermi a lei postochè non voleva fidar qui l’affare ed il mio servo non lo vedo capace per disimpegnare solo questa commissione.

Ottenuta vostra conformità aspettava vostra confermazione per inviare Luis in Italia con tutto il necessario per operare entrambi fino a riuscire; al effetto ieri poi di rispondere a vostra lettera ordinai a Luis di ritirare la valigia del albergo e preparare il suo viaggio quanto prima, al pari tempo lui consegnai una ricevuta da 1960 franchi a favore della padrona.

La padrona, ovviamente, non voleva saperne nulla della ricevuta: voleva i soldi. Era ricorsa in tribunale, e il giudice aveva fatto sequestrare la valigia. Sarebbe rimasta lì fino alla sentenza. Ogni ulteriore accomodamento con la proprietaria di casa era andato a vuoto. Alla fine, il povero prigioniero prospettava due soluzioni: essendo lui un capitano dell’esercito, per quanto in prigione, avrebbe potuto chiedere che il suo caso venisse giudicato dal tribunale militare. Questo significava che la valigia sarebbe passata a lui, ed essendo considerata oggetto “di uso necessario”, gli sarebbe stata restituita alla fine della sua prigionia – quindi, dieci anni dopo. Oppure… A questo punto, arrivava l’altra proposta, quella che poi, a ben vedere, era il centro di tutta la questione:

Se anticipate le 1960 franchi per levare il sequestro, vi cederò la somma di 300.000 franchi invece della quarta parte convenuta. Comprendo che vostro aiuto e lo sborso da questi piccola somma è più che ben ricompensato colla quarta parte dei 800.000 franchi, ma anche comprendo che non devo stiracchiare il prezzo della mia salvazione e forse della mia libertà e la mia vita. […] Se siete conforme, rispondetemi a volta di posta per darvi instruzioni, altramente sarei obbligato di reclamare l’intervento del Tribunale Militare ed allora saranno inutili tutti i nostri sforzi per riescire oggi. 

In attesa vi saluto con stima.
Alvarez

FASE 5: Il sollecito. Arrivata la domanda dei 1960 franchi, Morosatti considerò il gioco scoperto e lo scherzo finito. Non rispose più al truffatore. Ma questo, sentendo la preda sfuggirgli tra le mani, doveva pur tentare un ultimo colpo. E così, pubblicata su La Vedetta del 29 dicembre, ecco che arrivava l’ultima, lamentosa, missiva, accompagnata dalla falsa ricevuta della Depositeria giudiziaria, dove secondo “Alvarez” era conservata la valigia: 

Faccio seguitare la mia lettera penso che forse Lei crediate che questo successo non è vero, e che è invenzione per essere pentito di avervi finto il mio segreto, o per avere già bisogno di vostro aiuto. Credete Signore che non ho fatto altra cosa che darvi conto da questo ostacolo perchè ci impedisce di riuscire, dunque senza il piano che feci sul terreno e le misure è impossibile di ritrovare il luogo fisso ed esatto, e per tanto impossibile la riuscita. Non voglio che Lei abbiate il più piccolo dubbio sulla mia sincerità, e per Vostra convinzione rimettovi aggiunto la ricevuta della Depositeria giudiziale consegnata conforme a legge, la quale do fede ed acredita il mio diritto di riscattare la valigia mediante il pagamento dei 1960 franchi fatto avanti che il litigio sia giudicato. 

Rimettovi questo documento fidato in vostra onoratezza e nella incurità che lo rincrerete [?] a vostra risposta sia quale sia vostra risoluzione, altramente potreste causarmi pregiudizio senza utilità alcuna per lei nè per altrui. Vi prego di prendere una risoluzione pronta e decisiva, dunque trovandosi la valigia nelle mani del Tribunale non dobbiamo perdere il tempo in discussioni per dar luogo di far tarde. Anche vi prego franchezza perché vi dico veramente che faticato di una tanto lunga lotta, sono rasegnato di lasciar il mio destino alla volontà di Dio. 

In attesa vi saluto con stima.
Alvarez

Inutile dire che il buon Alvarez non ricevette mai risposta. E questa è la fine della nostra truffa alla spagnola del 1903, che La Vedetta ci ha permesso di seguire in ogni dettaglio: per un criminale di inizio Novecento, rispetto ai moderni prìncipi nigeriani, ci voleva sicuramente più impegno, più tempo e francobolli. 

Aggiungiamo, però, un’ultima circostanza. Morosatti, per uno di quegli strani casi del destino, trovò davvero un piccolo tesoro. Avvenne sette anni dopo, mentre alcuni operai stavano lavorando in una sua proprietà:

Dai muratori addetti ai lavori di atterramento d’un vecchio fabbricato sulla cui area si dovrà erigere un nuovo fabbricato per conto del sig. Giuseppe Morosatti, venne ai piedi di un vecchio pilastro, rinvenuta un’anfora di pietra piena di vecchie monete indecifrabili, ma che si ritengono antichissime e di gran valore. Vennero portate a Milano per farle esaminare da un numismatico, che senza dubbio saprà decifrarle, e dire a quall’epoca appartengono (La Vedetta, 30 luglio 1910) 

Non sappiamo altro su questo ritrovamento, ma la coincidenza è divertente: non aveva bisogno di andare in Spagna, Giuseppe Morosatti; il tesoro ce l’aveva già sotto i piedi, e senza bisogno di mappe spagnole! Altro non sappiamo, se non che il nostro uomo, negli anni continuò a vivere a Cannobio, organizzando le feste ed occupandosi della sua panetteria. Fu il primo, in paese, a dotarsi di un’impastatrice meccanica per la sua bottega e il primo, nel 1913, a sostituire il forno tradizionale con un modernissimo forno elettrico. Fu un piccolo interprete della modernità che avanzava, tanto da offrire un grammofono, nel 1913, per allietare la mensa di Natale – un lusso che all’epoca non tutti potevano permettersi. 

Chissà se le cose sarebbero andate diversamente, se nel 1903 fosse caduto nella truffa. Certo, aveva evitato una gran fregatura. Ma non tutti avevano la stessa lucidità. 

Sulla quantità, infatti, c’era chi ci cascava. I giornali di quegli anni riferiscono diversi raggiri portati a buon fine e altri sventati all’ultimo. Proprio su La Vedetta del 19 luglio 1905 si parla del “marchese di S. Marzano, provinciale dei gesuiti [dunque, un nobile e religioso piemontese, ma, a quanto vediamo, non aveva il grado di provinciale, che è altissimo, e risiedeva a Torino, NdR], che col vecchio sistema della truffa alla spagnola, si è lasciato frodare lire 340.000”. Periodicamente, le questure chiedevano l’aiuto dei settimanali di provincia, perché mettessero sul chi va là i propri lettori. Alcuni cronisti trattavano quegli inganni con sufficienza, quasi con fastidio, incapaci di capire come qualcuno potesse cascarci. 

Vogliamo concludere con una piccola filastrocca pubblicata su Il popolo biellese nel febbraio 1933: l’autore, Marco Pipa, un biellese che si dilettava a comporre epigrammi e che morì suicida pochi mesi dopo, partiva descrivendo i treni carichi di biellesi che andavano in Spagna a prendersi l’agognato tesoro… E finiva per augurarsi che tutti ridessero di quel raggiro, lasciando “i birbanti” con un palmo di naso. Ed è quello che ci auguriamo succeda, prima o poi, anche con le moderne truffe alla nigeriana. 

Tutti i giorni parte un treno
Pieno pieno
Di biellesi, o che cuccagna,
Che in Ispagna
Van per prender quel milione
Di quel tale ch’è in prigione. 

I biellesi, poverini
Fantolini, innocentini,
Van fidenti a quel richiamo,
Come i pesci vanno all’amo;
E pensate quanti soldi
Fan quegli altri manigoldi…. 

Voi ridete? Rido anch’io!
Il pensiero vostro e mio
È di rider tutti quanti
Di quei… fieri lestofanti,
Che col loro scemo inganno,
No, non riescon a far danno .

I biellesi san che l’oro
Si guadagna col lavoro
E truffati restan essi
I birbanti… proprio dessi.

(Marco Pipa, Il popolo biellese, 27 febbraio 1933)

Immagine in evidenza: di Primiano, da Pixabay.