I Segreti dei Serial Killer: il Sol Levante
Quando si parla di serial killer, sia nella cronaca che in ambito cinematografico, di solito siamo in territorio statunitense, il quale detiene il triste record di assassini seriali. In realtà, il fenomeno è presente in tutto il mondo, anche se per ragioni sociali e politiche non esistono dati precisi di ogni Paese, come nel caso di molti stati africani, o qualora vi sia una dittatura che eserciti un ferreo controllo sulle informazioni che vengono rese pubbliche. Un esempio tipico è l’Unione Sovietica, che ha censurato o minimizzato i dati sui crimini violenti, consentendo a seriali come Andrei Chickatilo di agire indisturbati per molti anni. I tentativi di gestire il fenomeno senza fare troppa pubblicità ai crimini si sono spesso tradotti in arresti ed esecuzioni sommarie di innocenti.
Un’attenzione crescente negli ultimi anni è stata data ai Paesi asiatici, che hanno registrato diversi assassini seriali dotati di particolare ferocia, spesso non inferiore a quella dei “colleghi” americani. I più clamorosi sono principalmente cinesi e giapponesi e hanno avuto una certa notorietà a partire dagli anni Novanta, anche se molti casi piuttosto eclatanti risalgono ai primi decenni del Novecento. Esistono poi alcuni seriali o assassini asiatici che non hanno agito in patria, sfogando i desideri omicidi all’estero, come nel caso di Charles Chitat Ng, nato a Hong Kong, spietato e sadico, che uccideva negli USA insieme al complice Leonard Lake; o nella celeberrima vicenda del giapponese Issei Sagawa, che uccise e divorò una ragazza a Parigi, e che grazie alla sua famiglia facoltosa e influente di fatto non fu mai punito per il suo crimine. Le polizie di Cina e Giappone non hanno l’abitudine all’indagine sul delitto seriale ormai collaudata degli statunitensi, e ciò ha fatto sì che diversi serial killer potessero agire impuniti per molto tempo, anche se, in particolare il Giappone, dopo la cattura di questi criminali, ha quasi sempre comminato la pena di morte, spesso eseguita a pochi anni dal termine del processo, a differenza della media degli USA.
Il tipico seriale giapponese ricorda quello classico americano: maschio, sui trent’anni o anche meno, che agisce soprattutto nelle grandi città, piuttosto organizzato e con una vittimologia che va dai bambini alle giovani donne. Alcuni casi di omicidi, sia singoli che seriali, hanno protagonisti assassini bambini o adolescenti; in questi casi la loro identità viene protetta per legge, sono resi noti solamente dei soprannomi, come ad esempio Nevada Tan, una ragazzina di dodici anni che ha ucciso una sua compagna di scuola nel 2004. [1]
Un caso piuttosto noto in Giappone è quello del “Ragazzo A”, conosciuto anche come il “Mostro di Kobe”, dalla città in cui si sono svolti i crimini, spesso viene però usato il soprannome con cui si è firmato lui stesso, Seito Sakakibara. Il suo vero nome, Shin’ichiro Azuma, sarà reso noto dopo i suoi ventun’anni, quando ormai aveva assunto una nuova identità tuttora segreta.
SEITO SAKAKIBARA: “Questo è l’inizio del gioco…”
Nel 1997, Sakakibara ha 14 anni. Il 27 maggio di quell’anno, sul cancello della scuola elementare Tainohata, viene ritrovata la testa di un bambino che frequentava l’istituto, orribilmente mutilata. Nella bocca della vittima si trova una lettera delirante, con frasi come:
“questo è l’inizio del gioco […] provate a fermarmi, se ci riuscite, stupidi poliziotti. Ho una voglia disperata di veder morire la gente, per me è un brivido uccidere. […]”
Giungono alla stampa altre lettere dello stesso tenore in cui vengono annunciati altri delitti.
Nelle lettere è ribadita l’importanza di chiamarlo Sakakibara, senza storpiare il suo nome, e mostra di non gradire il nome datogli dalla stampa, “La rosa del Diavolo”. Queste comunicazioni con la stampa e la polizia ricordano moltissimo le lettere di Jack lo Squartatore (si pensi al suo celebre “catch me when you can”), di Zodiac, di Luigi Chiatti o del Figlio di Sam: provocatorie, sfacciate, inquietanti. Denotano un desiderio del killer di tenere sotto scacco la società, di essere lui a condurre il “gioco” delle indagini. Fa riferimenti al sistema scolastico giapponese, descritto come oppressivo, rigido, disumano, che non fa diventare i bambini cittadini civili, ma esseri invisibili, non-persone.
In giugno viene arrestato e confessa sia il delitto del bambino che quello ai danni di una bambina di dieci anni, strangolata e colpita a morte. Avrebbe aggredito almeno altri tre bambini, senza ucciderli. La sua condanna tiene conto della sua giovane età: dopo qualche anno di detenzione e di cure psichiatriche viene liberato e gli è stata assegnata una nuova identità. Il caso fa molto scalpore in Giappone, in particolare per la clemenza della pena. Vengono accusati i film e i fumetti horror e splatter di corrompere le menti fragili, anche perché in Giappone non sono infrequenti i fumetti horror senza alcuna censura per quanto riguarda le scene di violenza e omicidi.
L’età dell’imputabilità a seguito di questo caso viene abbassata da 16 a 14 anni. [2]
SADAMICHI HIRASAWA: “Il medico”
Nel 1948, in un Giappone ancora molto provato dal secondo conflitto mondiale, avviene un caso di cronaca nera che ha dell’incredibile: a Tokyo, il 26 gennaio, in una filiale della Banca Imperiale, entra un uomo che si presenta, con tanto di biglietto da visita, come il “Dottor Jiro Yamaguchi”, del Dipartimento della Salute. Viene ricevuto dal direttore, a cui spiega che le forze di occupazione americane hanno stabilito come prioritario il contenimento di una epidemia di dissenteria, e che il suo compito è di distribuire un vaccino ai dipendenti della banca, da assumere per via orale. Tutti i quattordici dipendenti, compreso il direttore, assumono così un bicchiere della sostanza, iniziando però poco dopo a sentirsi male, tossendo, accusando bruciore e dolori atroci. Il “medico” dà loro una seconda dose, che avrebbe dovuto alleviare i sintomi, mentre peggiora solo la situazione: l’uomo sta in realtà somministrando forti dosi di cianuro di potassio. A seguito del veleno, perdono la vita dodici impiegati. Il falso medico ruba una modica cifra, l’equivalente di poco più di mille euro, e svanisce nel nulla.
Gli inquirenti scoprono ben due episodi analoghi, risalenti al 1947: in una filiale della banca Yasuda si era presentato il falso medico, però le dosi di veleno non erano sufficientemente potenti da uccidere, e causano solo forti dolori e vomito. In un’altra occasione, il direttore non aveva creduto a quello strano dottore e lo aveva fatto uscire dall’edificio senza fargli somministrare nulla a nessuno. In questa circostanza si era presentato come “Dottor Shigeru Matsui”, lasciando anche stavolta, come d’abitudine tra i professionisti giapponesi, il suo biglietto da visita. Si scopre che il dottor Matsui esiste davvero, ma non è il responsabile del massacro: quest’ultimo ha solo usato il biglietto dell’ignaro medico. Le indagini portano quindi a un uomo insospettabile, un pittore e direttore di un’associazione artistica, Sadamichi Hirasawa, che viene poi riconosciuto da diversi testimoni. Il pittore è ben inserito nella rigida società giapponese, conduce una vita tranquilla. Come nel caso di Sakakibara, non abbiamo sufficienti elementi della sua infanzia per comprendere appieno cosa lo abbia spinto a diventare uno strano miscuglio di mass murderer e serial killer “medico”. [3]
Anche se le sue vittime sono morte tutte nello stesso momento e luogo, caratteristica tipica del mass murderer, in realtà la coazione a ripetere il suo gesto lo accomuna ai serial killer.
I suoi avvocati riescono miracolosamente ad evitargli la pena di morte, e Hirasawa passerà il resto della vita in carcere. Il figlio cerca per anni di dimostrare l’innocenza del padre, sostenendo che la vera colpevole sarebbe un’unità militare americana incaricata di studiare le armi batteriologiche, ma senza successo. Hirasawa, che durante la detenzione non smette di dipingere e scrive un’autobiografia, muore in carcere nel 1987. [4]
KIYOSHI OKUBO: “Il figlio di Kodaira”
Nasce nel 1935 in una famiglia numerosa e caotica, viene considerato dai suoi genitori fin da piccolo il figlio più intelligente e meritevole, specialmente dopo la morte del primogenito. Kiyoshi dà presto problemi a scuola con gli insegnanti, ma soprattutto con le compagne, molestandole pesantemente. Il ragazzo attribuisce la sua condotta al bullismo subito a scuola, per il suo essere russo da parte di madre, quindi un gaijin, uno straniero. In realtà Kiyoshi mostra una spiccata vena sadica e un istinto sessuale anormale. Il giovane vive una particolare dicotomia: è considerato uno “strano” e violento dalla società, mentre viene idolatrato e protetto contro ogni evidenza dai familiari.
Quando ha solo undici anni, violenta una compagna denudandola e mettendole sassi nella vagina. L’orribile episodio non scompone particolarmente i genitori, che scherzano sull’accaduto chiamando il figlio il “Piccolo Kodaira” o “Il figlio di Kodaira”, riferendosi a uno dei più celebri serial killer e stupratori nipponici.
Viene espulso da diverse scuole e successivamente non riesce a tenere un lavoro, anche quando apre un negozio finanziato dai genitori, sempre per via della sua svogliatezza e del suo comportamento imprevedibile, iracondo e violento.
A partire dal 1955 violenta o cerca di violentare molte ragazze, ed i suoi genitori, ad ogni accusa e arresto, minimizzano tenacemente le sue colpe, ma non lo salvano da diversi periodi in carcere.
Si sposa nel 1962 e continua imperterrito i suoi stupri nell’ambito di alcuni campus universitari, sentendosi sempre più forte e imprendibile, ma ad un certo punto le violenze non bastano più.
Nel 1971 comincia ad uccidere. Inizia, grazie ai genitori, un’attività di rappresentante di decorazioni d’interni, e durante i suoi frequenti viaggi in macchina stupra e uccide ben otto donne, abbandonando i loro corpi come fossero spazzatura. Diverse vittime di stupro rimaste in vita descrivono sia Kiyoshi sia la sua auto, e le autorità finalmente lo rintracciano e lo catturano.
Viene condannato a morte e giustiziato per impiccagione nel 1976. [5]
Conclusioni
La società giapponese è estremamente complessa, con elementi culturali tipici della modernità mescolati a quelli di un’antica tradizione di obbedienza all’autorità, rispetto della gerarchia e delle regole, oltre che di abitudine al sacrificio, anche estremo, pur di arrivare al successo. La competitività sociale è a livelli estremamente alti: moltissimi giapponesi soffrono la solitudine, c’è un alto livello di repressione sessuale, e tutto ciò porta grande sofferenza e frustrazione per chiunque non rientri negli stretti canoni del successo.
Frutto di questa frustrazione può essere considerato il fenomeno nato proprio in Giappone degli hikikomori, adolescenti e adulti che non escono di casa anche per molti anni, tagliandosi fuori volontariamente dalla società. Il Giappone registra anche un elevato tasso di suicidi, considerato una vera e propria piaga sociale.
Un seriale come Sakakibara sembrerebbe frutto proprio di questa “schizofrenia”, secondo cui o si è dentro o si è fuori, scegliendo di tagliare completamente i ponti con la società nel modo più atroce e sconvolgente possibile: utilizzando la testa di un bambino come una sorta di manifesto del suo istinto violento e del suo rifiuto totale delle norme sociali.
Il caso di Hirasawa colpisce per la sua peculiarità: non rispecchia affatto le tipiche modalità né dello stragista di massa né dell’”angelo della morte” che agisce in ospedale. È senza dubbio un assassino in grado di mostrarsi credibile e rassicurante, che maschera dietro all’apparente movente della rapina, in realtà insignificante, una chiara volontà omicidiaria, con un’esplicita componente sadica, deducibile dalla doppia dose di veleno somministrata durante la strage alla Banca Imperiale, mentre gli impiegati soffrivano terribilmente davanti agli occhi del “dottore”.
Infine, il caso di Okubo è probabilmente il più “classico” se paragonato alla casistica americana, la sua particolarità è il fatto che la famiglia ha difeso e protetto il figlio contro ogni logica: il loro comportamento è molto in contrasto con i tipici genitori giapponesi, anche di fronte ad uno stupro commesso ad appena undici anni.
Queste storie sono molto diverse tra loro, ma mostrano un lato poco noto del Giappone, come sempre avviene per i serial killer. Per quanto siano un fenomeno estremamente marginale, i seriali sono uno specchio degli aspetti più contraddittori e oscuri del Paese in cui vivono e della loro cultura di riferimento.
Note
[1] M. Newton, Dizionario dei serial killer, Newton Compton, Roma 2005, pp. 183-186.
[2] M. Torre, Giappone di sangue, Amazon Italia, Torino 2020, pp. 89-91.
[3] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma, 2006, p. 113.
[4] M. Torre, Giappone di sangue, Amazon Italia, Torino 2020, p. 91.
[5] Ibidem, pp. 81-84.
Un ringraziamento speciale al Dott. Fabio Marzinotto per la sua consulenza.