Pietro Oletti, maree e tarocchi
Giandujotto scettico n° 92 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Nella seconda metà del Settecento il Piemonte fu letteralmente invaso da Tarocchi di produzione francese. Da qui nacque, grazie a un manipolo di stampatori, una tradizione tutta sabauda, con mazzi di carte che non hanno eguale altrove. Fu quella l’età dell’oro dei Tarocchi piemontesi, e fu una vera e propria moda, tanto che scrittori come Giordano Berti hanno definito Torino Capitale dei Tarocchi. Forse un po’ eccessiva come pretesa, anche se delle carte ci sono tracce addirittura nel Cinquecento, ma ciò non toglie che di mazzi di carte, tra Settecento e Ottocento, se ne stampassero davvero un bel po’. Un mazzo famoso è quello dei cosiddetti tarocchi del Vergnano, con riferimento è a Stefano Vergnano, che operò nella capitale del Regno tra il 1840 e il 1859, e che aveva uno stabilimento litografico in via Doragrossa, oggi via Garibaldi).
Tra gli stampatori, uno di quelli che ebbe maggior successo fu Pietro Oletti. Aveva una stamperia in contrada del Gallo, n. 1. La strada si trovava dove oggi sorge via Torquato Tasso, e prendeva nome dall’omonimo albergo. Secondo una rivista dell’epoca impiegava, per i suoi tarocchi duecento risme di carta filigranata all’anno. Oletti era, con tutta probabilità, nativo di Crescentino (Vercelli), ma poi si era trasferito a Torino. Il suo successo era arrivato grazie a un’opera che oggi potremmo definire di retroingegneria: aveva preso alcune calotte, cioè un tipo di berretto, che arrivavano dall’estero, aveva capito come copiarli e aveva iniziato la sua produzione:
Dei nove fabbricanti di carte e tarocchi che stanno in questa città, nessuno ha ancor fatto progredire di molto questo genere di industria, quantunque se ne faccia un grande smercio. Di essi però Pietro Oletti ha il merito di aver introdotta in patria una nuova industria, quella cioè dell’impressione del panno, e del velluto in rilievo ad imitazione del ricamo: in essa è occupato presso di lui un gran numero di operai, che fornisce a basso prezzo quelle berrette impresse che ci venivano finora dall’estero in grande quantità, e ch’egli è giunto con propria diligenza e studio ad imitare felicemente. (Goffredo Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati del Re di Sardegna, 1851)
Ma le invenzioni di Oletti non finiscono qui. Un altro problema cui si dedicò parecchio fu quello della bassa marea. Il calcolo dell’alta e bassa marea era ed è cruciale per la navigazione, e all’epoca veniva computato per lo più a mano.
Nel 1898, Alberto Viriglio gli dedicò qualche riga all’interno del suo Torino e i Torinesi, introducendolo con queste parole:
La meteorologia e la scienza degli astri contarono e contano in Torino strenui cultori, e nel campo speculativo ed in quello – dirò così – macchiettistico.
E così Viriglio menzionava, ad esempio, le lettere di “Domenico Beraudo, grafomane impenitente, sedicente astronomo, in corrispondenza colle Accademie più celebri e… povero in canna”, che aveva l’abitudine di scrivere alle istituzioni scientifiche elencando i suoi alti meriti scientifici – per poi chiedere, immancabilmente, una donazione di pane, olio e qualche risma di carta. La descrizione di Virgilio è scarna, ma la figura di Beraudo è interessante. Troviamo qualche informazione in più su di lui nel saggio Metamorfosi ed evoluzione di un genere letterario: l’Almanacco piemontese nel ‘700, a cura di Lodovica Braida (Mélanges de l’école française de Rome, 1990). Beraudo era uno dei tanti fan della scienza che ruotavano intorno all’editoria degli almanacchi di fine Settecento. Si definiva “liquidatore e Garzon Maggiore delle Milizie Cuneesi” in pensione, e aveva imparato da solo a calcolarsi le effemeridi. Doveva avere anche qualche conoscenza di meteorologia, per cui offriva la sua opera agli stampatori di questi libretti, così popolari nel Diciannovesimo secolo (collaborò, probabilmente, con il popolarissimo Palmaverde).
Ma Beraudo voleva di più: desiderava ardentemente il plauso dell’Accademia delle Scienze, alla quale scriveva regolarmente per mandare disegni di sue invenzioni, studi meteorologici e memorie, scusandosi per gli errori di ortografia (perché essendo io persona illetterata non potei far di più). Negli archivi dell’istituzione devono essere presenti ancora molti schizzi di questi strumenti, come il suo pluviometro, per misurare il livello delle piogge. Non risultano risposte da parte dell’Accademia. Nel 1789, però, Beraudo riuscì a pubblicare un elenco di tavole compilate mese per mese sui gradi di siccità, umidità e evaporazione, a cui faceva seguire un accurato resoconto sulle “malattie della città” determinate dalle mutazioni del tempo: le due cose, per lui – e non solo per lui, allora – andavano di pari passo.
Continuò a scrivere all’Accademia per anni, riportando osservazioni di meteore, apprezzamenti da parte di celebri scienziati, e chiedendo di poter continuare le sue ricerche “sotto gli auspici della R. Accademia delle Scienze”. Per loro, scriveva, avrebbe potuto occuparsi di regolare l’orologio astronomico, riportare le osservazioni meteorologiche quotidiane, calcolare le effemeridi al meridiano di Torino, creare un erbario dipinto come quello dell’Università…
Se i suoi appelli caddero per anni nel vuoto, però, qualche soddisfazione dovette togliersela con le delle guerre napoleoniche: le idee della rivoluzione francese ebbero effetti profondi anche sulle istituzioni scientifiche dei territori conquistati. I francesi propugnavano una scienza più pratica, meno speculativa, diretta al popolo e – nel tentativo di costruire nuove classi fedeli alla Francia – anche al di fuori della casta accademica. E così, finalmente, ecco la risposta alle insistenze di Beraudo, nel 1797 (riportata sempre da Virgilio nel suo libro):
A tergo. Visto. Si concede libre tre di pane al giorno, libre 4 di olio al mese ed una risma di carta per una volta tanto. – 18 Termidoro, anno VIII. Firmati: CAPRIATA, Presidente. FRANCHI, Segretario.
Ma torniamo al nostro Oletti. Dopo Beraudo, nelle menzioni di Viriglio, veniva infatti lui:
Del pari non rimane vestigia di quello del moderno Oletti “Dio del mare” che, dalla propria fabbrica di tarocchi nella vecchia contrada del Gallo, segnata da una bizzarra sesquipedale scritta a foggia di quadrante solare, lanciava “Sfide di lire mille” all’ignoranza supina di tutti gli Ammiragliati del globo.
Le pubblicità che faceva periodicamente stampare su giornali come la nuovissima Gazzetta del Popolo, infatti, erano un capolavoro di marketing delle origini. Oletti ostentava sicurezza di sé, prometteva un premio di mille lire “a chiunque dimostrerà il contrario”, snocciolava cifre e dati: ogni anno si perdevano in mare “centinaia di bastimenti per ignoranza dei ministeri”, nel 1866 i naufragi dei vascelli erano costati “venti e più milioni”, e tutto questo per colpa della bassa marea e dell’incapacità dei naviganti di calcolarla. Perché – affermava convinto – “la scuola di marina è falsa”. Ed ecco quindi la sua invenzione, il suo fantastico orologio da tasca che garantiva il marinaio “anche con burrasca”.
Lui lo sapeva bene. Nel 1862 aveva pubblicato, per la tipografia Baglioni un opuscolo intitolato Nuova teoria matematica della Marea. Non risultano copie in nessun catalogo bibliotecario consultato, ed è possibile che si trattasse di pochi fogli rilegati con intento pubblicitario, come avveniva spesso all’epoca.
Su molte persone, gli apparecchi di Oletti dovevano fare particolarmente impressione, e il suo genio esser considerato al pari delle più grandi menti del secolo: insomma, un altro inventore italiano che aveva contribuito a dar lustro alla nascente Patria unitaria. Prova ne è questo dialogo immaginario, pubblicato da Raffaele Pompa (Chi si aiuta Dio l’aiuta, ossia, Storia degli uomini che seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami della Umana Civiltà, 1869):
Erc. Che cos’è quell’orologio da tasca ed astronomico, di cui s’è parlato pei giornali? Vitt. È un orologio che può riuscire utilissimo ai marinai, agli agricoltori e ai viaggiatori. Esso, ch’è stato inventato dal torinese Pietro Oletti, segna l’ora solare e l’ora lunare. Le ore della giornata sono scritte in giro tutte 24 e l’indice, che nota il corso del sole, le percorre nello spazio di tempo appunto che occorre a compiersi il giorno solare, mentre un indice più corto, che nota il corso della luna, percorre il circolo medesimo delle ore nello spazio di tempo della rivoluzione lunare. Siccome ai marinai interessa assaissimo il conoscere le opere precise dell’alta e bassa marea, le quali tutti sanno essere regolate dal corso della luna, così quest’orologio è loro di un grande aiuto, perché indica con precisione l’ora lunare e li ammonisce del punto preciso in cui avviene il massimo abbassamento e rigonfiamento del mare. Oltre ciò nel mezzo del quadrante il signor Oletti ha descritto l’emisfero terrestre, figurando il polo artico nel perno degl’indici, e l’equatore nel circolo estremo in cui si chiude. Nell emisfero sono scritte le principali località in guisa tale che l’indice solare, percorrendo il suo giro, nota l’ora del meriggio delle varie località al momento in cui vi passa sopra.
Chi non era d’accordo sull’utilità dello strumento, ahinoi, erano proprio i naviganti, soprattutto quelli appartenenti alla Regia Marina, ossia alla marina da guerra. Oletti si rivolse direttamente al Ministero della marina per chiedere l’adozione del suo dispositivo. Lo strumento venne esaminato dai tecnici, ma considerata “non tale da addivenire alla chiesta esperienza”. Nel maggio 1858 ci riprovò con una petizione diretta alla Camera dei Deputati, lamentandosi del fatto che la sua invenzione era stata “dichiarata di non meritare considerazione alcuna”. Questa volta Oletti suggeriva che una persona fidata si recasse a Genova per verificare con mano “il punto dell’alta e bassa marea”, e constatare così l’utilità del suo strumento.
Anche allora, la richiesta fu rigettata.
Il problema è che per calcolare le maree non basta conoscere la posizione del Sole e della Luna: bisogna effettuare delle correzioni che dipendono anche dalla latitudine e dalla geografia del luogo. Un orologio come quello di Oletti poteva funzionare, ad esempio, a Genova, ma spostandosi altrove, non funzionava più. Ora ci sono orologi che calcolano le maree, ma lo fanno sfruttando dispositivi di geolocalizzazione; all’epoca, una cosa del genere era semplicemente impensabile. Per la Marina, che ovviamente non rimaneva ferma in un unico porto, l’orologio delle maree non era di nessuna utilità. Ma che poteva saperne uno stampatore di tarocchi nato e vissuto in Piemonte, con l’orizzonte marino lontanissimo?
Dopo la sua morte, il remunerativo business dei tarocchi fu continuato dal figlio, Alessandro Oletti (1837-1882). Ci rimangono di lui decine di fogli intonsi con le carte stampate, ma ancora da tagliare: per legge, i fabbricanti dovevano inviarne una copia all’Ufficio del Registro. Questi reperti sono sopravvissuti e sono tuttora conservati presso l’Accademia delle Scienze: a vederli ora, sono un bel salto nel passato.
Dell’orologio delle maree invece, che così tanto aveva fatto parlare sui giornali dell’epoca, purtroppo, non sembra esser rimasta traccia alcuna.
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