In forma per l’estate? Considerazioni – forse tristi – sul perché spesso non dimagriamo
Antonio Crisafulli è medico, professore associato di Fisiologia umana
I mesi che precedono le vacanze estive sono classicamente associati ad una esigenza che, per alcuni, può diventare anche una sorta di ossessione: dimagrire. La prova costume è infatti imminente e quei 2-3 kg che abbiamo messo su durante l’inverno devono assolutamente sparire prima di esibirci in costume. Le cose si sono ulteriormente aggravate a causa delle chiusure forzate che hanno ridotto l’attività fisica e ci hanno costretto a lunghe serate casalinghe passate sul divano, con a fianco del cibo da sgranocchiare. A peggiorare la nostra ansia da dimagrimento, arrivano puntuali anche le pubblicità sui media e sui social, che ci promettono invariabilmente un “dimagrimento con poco sforzo e senza fame”. Sarà sufficiente prendere la sostanza X (integratori, estratti di erbe, rimedi omeopatici, cibi ipocalorici preconfezionati …) o praticare il metodo Y (digiuni intermittenti, diete chetogeniche, diete del minestrone, diete della Luna …) e il risultato sarà visibile in poche settimane o, addirittura, anche in pochi giorni. A testimonianza dell’efficacia del prodotto ci sono anche le storie aneddotiche della Dr.ssa XX o del Dr. XY e della loro clientela, che è sempre molto soddisfatta del risultato. Vengono poi citati anche studi scientifici che dimostrano come, con quello specifico metodo/sostanza/integratore, si siano ottenuti risultati strabilianti, tali da non dover temere più la prova costume.
Questa introduzione è stata volutamente ironica. Tuttavia, la recente lotta che Homo sapiens ha intrapreso contro l’accumulo di grasso corporeo è tutt’altro che divertente; al contrario, è fonte di frustrazione continua per i pazienti, ma anche per i medici. In realtà si tratta di una storia costellata di fallimenti. Ma affrontiamo l’argomento con i dati della letteratura scientifica, iniziando però con una piccola puntualizzazione: la letteratura a riguardo è sconfinata, spesso conflittuale e a volte il dibattito somiglia più ad una disputa ideologica piuttosto che ad una discussione basata su evidenze scientifiche. Si tratta in effetti di uno dei temi più divisivi della storia della medicina recente, tanto che l’epidemiologo Tim Spector una volta disse che “Nessun altro campo della scienza o della medicina manca così tanto di studi rigorosi”.
Per prima cosa domandiamoci: essere grassi, oltre che essere – per lo meno per qualcuno – un problema estetico, fa male alla salute? La risposta è: sì; e su questo punto non ci sono grosse divisioni tra le opinioni degli specialisti del settore. Dipende però molto da quanto si è grassi. Ad essere pericolosa è soprattutto l’obesità, definita come un indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI) superiore o uguale a 30. Una BMI tra 25 e 29 identifica invece il semplice sovrappeso, che è considerato molto meno pericoloso, mentre una BMI <25 è considerata normale. La BMI si ottiene con un calcolo semplice: dividendo il peso (in kg) per il quadrato della statura (in m2) del soggetto. Esistono sistemi più precisi per il calcolo della quantità di grasso corporeo, ma una trattazione specialistica esula dallo scopo divulgativo di questo articolo. Secondo l’organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’obesità è un fattore di rischio per molte malattie cardiovascolari, metaboliche, tumorali e per alcune malattie muscoloscheletriche [1]. Sempre secondo l’OMS, il numero di persone obese è quasi triplicato dal 1975 e, nel 2016, oltre 1,9 miliardi di adulti erano sovrappeso, mentre 650 milioni erano obesi [1]. Sembra dunque che i problemi con il peso riguardino soprattutto gli ultimi 30-40 anni della storia di Homo sapiens, ed il fenomeno si configura ormai come una vera e propria “pandemia”. Homo sapiens sta dunque progressivamente ingrassando e questa tendenza riguarda quasi tutti i paesi, senza troppe distinzioni tra i grandi centri urbani e le aree rurali [2]. Da quanto scritto è facile intuire come il problema sia preoccupante sia da un punto di vista medico che sociale, poiché è motivo di forte impegno economico per i sistemi sanitari dei vari paesi e per le singole famiglie. Per tacer poi dei risvolti psicologici e sociali. Nonostante ciò, il problema appare ben lungi dall’essere risolto.
Ma adesso cerchiamo di analizzare alcuni concetti fondamentali per capire perché si stia verificando questo fenomeno. Cominciamo con l’affrontare un problema abbastanza complesso: cosa regola il nostro appetito? Cioè: cosa ci fa sentire sazi oppure affamati? Questo tipo di sensazioni sono sotto il controllo di un complicato meccanismo in parte noto, ma in parte ancora da scoprire. Molto schematicamente, le sensazioni di fame/sazietà dell’organismo umano sono sotto il controllo di un sistema “veloce”, che funziona cioè nel breve periodo, e di uno “lento”, che invece controlla la deposizione di grasso corporeo nel lungo periodo.
Il sistema “veloce” di controllo della sazietà funziona sulla base dello stato di distensione dei visceri e sulla base della secrezione di una pletora di ormoni rilasciati dall’apparato gastroenterico durante la digestione (grelina, colecistochinina, insulina, gastrina … solo per nominare i più noti). In pratica, questo sistema di controllo veloce è quello che ci fa sentire la sensazione di fame tra un pasto e l’altro, oppure la sensazione di sazietà durante un pasto. Il sistema basa la sua azione in buona misura sulla sorveglianza dello stato di riempimento dei visceri gastrointestinali e sul livello di zucchero nel sangue [3,4].
Molto più oscuro nel suo funzionamento e, purtroppo, anche molto più importante nell’economia della composizione corporea del nostro organismo, è il sistema di controllo che abbiamo definito “lento”, cioè a lungo termine del nostro appetito. Tale sistema in pratica controlla quanta energia di deposito deve esserci nel nostro corpo; e siccome gran parte dell’energia è depositata sotto forma di grassi nel tessuto adiposo, ecco che risulta chiaro come il sistema “lento” di controllo dell’appetito sia di fatto l’attore principale che regola la quantità di adipe che c’è nell’organismo. In pratica, è lui che decide quanto dobbiamo essere grassi.
Come accennato, questo sistema è estremamente complesso, solo in parte noto e coinvolge molti centri nervosi e neurotrasmettitori, oltre che l’espressione di centinaia di geni e in esso giocano un ruolo fondamentale i centri nervosi di controllo della vita vegetativa, in particolare quelli dell’ipotalamo. Risultano inoltre coinvolti anche i centri e le vie nervose responsabili dei meccanismi di ricompensa edonica, cioè del piacere. Non dobbiamo infatti dimenticare che il cibo è anche fonte di piacere. Questi centri nervosi “sentono” alcuni segnali ormonali connessi con la quantità di sostanze energetiche circolanti nel nostro sangue e/o presenti nei nostri tessuti (per esempio insulina e leptina, ma anche molti altri, di cui alcuni probabilmente ancora ignoti). Schematizzando al massimo, questi segnali ormonali comunicano ai centri nervosi di controllo del nostro appetito quale sia lo stato di ripienezza dei depositi di energia dell’organismo, i più importanti dei quali sono i depositi di grasso corporeo [3,5,6]. Sulla base di queste informazioni, i centri nervosi regolano la quantità di grasso modulando l’appetito e decidendo quando dobbiamo mangiare; cioè ci fanno sentire la sensazione della fame che, vale la pena ricordare, è una sensazione non dipendente dalla nostra volontà e non controllabile da essa.
Ora che abbiamo capito che la regolazione dell’appetito è abbastanza complessa, cerchiamo di capire se le diete funzionano nel farci dimagrire. La risposta è in genere positiva: si, le diete IPOCALORICHE funzionano nel farci perdere peso. Per ipocalorica si intende una dieta che contenga una quantità di calorie inferiore a quella necessaria al fabbisogno quotidiano di un individuo. Il fatto che le diete ipocaloriche funzionino non dovrebbe sorprenderci; è infatti diretta conseguenza delle leggi della termodinamica, per cui l’energia non si crea né si distrugge, ma si può solo trasformare. Durante una dieta ipocalorica si introducono nell’organismo meno calorie di quanto non se ne consumino e si crea un bilancio energetico negativo, con conseguente mobilizzazione delle scorte di grassi. Il problema delle diete ipocaloriche è però che esse si portano dietro alcuni effetti collaterali di difficile soluzione. Infatti, il sistema di controllo a lungo termine del grasso corporeo si accorge del bilancio energetico negativo e ci induce la sensazione di fame. Non esiste dieta che funzioni che non causi anche fame. La sensazione di fame è molto difficile da contenere. Infatti, le diete ipocaloriche funzionano abbastanza bene nei primi mesi, quando le motivazioni psicologiche al dimagrimento sono forti, ma tendono alla lunga a fallire. Secondo diverse statistiche, si riesce a dimagrire anche significativamente (fino al 10% della massa corporea) in un anno, ma poi si tende quasi sempre a riprendere peso, tanto che le diete ipocaloriche falliscono nel 90-95% dei casi a 5 anni. Cioè, dopo 5 anni, il 90-95% degli individui che aveva perso peso con una dieta ipocalorica lo ha ripreso, a volte con gli interessi [7]. Gli stessi centri di controllo a lungo termine della fame mettono anche in opera una serie di adattamenti dell’organismo che ci portano a ridurre la spesa energetica. In pratica, entro determinati limiti, il metabolismo rallenta, rendendo così difficile mantenere un deficit energetico simile a quello che si aveva ad inizio dieta. C’è anche da considerare che chi ingrassa normalmente non lo fa di botto, ma in maniera lenta e costante. È sufficiente ingrassare di soli 3 gr al giorno (circa 25 kcal di eccesso calorico al dì) per ritrovarsi con circa 1 kg in più in un anno, che diventano 10 kg in 10 anni. Da ciò si capisce come i sistemi che regolano il grasso corporeo debbano essere estremamente precisi e ben modulati se non si vuole ingrassare. Lo scenario è quindi quello di una sorta di lotta, molto lenta nel tempo, tra la nostra volontà – che vorrebbe dimagrire – e i sistemi di controllo dell’appetito, che operano inconsciamente e che ci fanno venire fame. Purtroppo, nella realtà, alla lunga quasi sempre prevalgono quest’ultimi.
Un’altra questione che viene spesso dibattuta è se un particolare tipo di dieta sia migliore di un’altra nel ridurre il grasso corporeo. Negli anni, con cadenza abbastanza regolare, sono state proposte vari regimi dietetici che prevedono l’esclusione, o la forte limitazione, di uno dei tre macronutrienti (carboidrati, proteine o grassi). Ad oggi, nessuno di questi approcci sembra essersi dimostrato più efficace rispetto alla semplice dieta ipocalorica equilibrata [8,9,10,11]. Insomma, non è tanto la composizione in macronutrienti dei cibi che mangiamo a farci dimagrire; piuttosto, è la riduzione delle calorie totali ingerite la vera causa della perdita di peso. Vero è tuttavia che i cibi industriali cosiddetti “ultra-processati” – quelli confezionati industrialmente e che contengono grandi quantità di zuccheri semplici, grassi e sale, cioè quelli che vengono spesso indicati come junk food – sono ultimamente additati come responsabili di una alterata percezione di sazietà. In pratica, questi cibi riescono ad “imbrogliare”, con meccanismi ancora ignoti, i sistemi di controllo del nostro appetito. La percezione della quantità di energia ingerita risulterebbe inferiore a quella reale, con conseguente riduzione del senso di sazietà ed incremento delle calorie introdotte [12].
Di recente poi è emerso un altro protagonista in questa complessa e intricata relazione tra ciò che mangiamo e il nostro peso: il microbiota intestinale, cioè quella variegata comunità di microrganismi che albergano nel nostro corpo. Circa 1/3 di questi microorganismi soggiorna nel nostro intestino, svolge un ruolo fondamentale nella digestione e cambia in composizione sulla base della nostra dieta [13]. Per quanto ancora non conclusive ed in fase di continuo aggiornamento, recenti scoperte indicano che il cibo che ingeriamo possa modificare il nostro microbiota il quale, a sua volta, influenza il nostro appetito e la nostra composizione corporea. In recenti ricerche condotte su un verme (Caenorhabditis elegans), si è addirittura osservato come il microbiota sia in grado di modulare i comportamenti alimentari del suo ospite agendo sui neurotrasmettitori [14]. Tale fenomeno non è mai stato osservato nelle specie superiori o nell’uomo, ma rende ragione delle complesse interazioni tra i batteri fisiologicamente presenti nel nostro apparato digerente e il controllo dell’appetito. Si ritiene possibile che i cibi ultra-processati siano in grado di alterare il microbiota favorendo l’obesità.
Riassumendo, a parte i cibi ultra-processati, il cui ruolo deve ancora essere chiarito, in linea di massima nessuna dieta specifica può essere ritenuta responsabile dell’epidemia di obesità in atto, né esistono diete ideali. Resta tuttavia un punto fermo: se si ingeriscono più calorie di quante se ne consumano si ingrassa; viceversa, se ne introduciamo di meno si dimagrisce.
Uno degli approcci che, a rigor di logica, potrebbe risultare efficace nel farci perdere peso dovrebbe essere l’incremento di dispendio energetico dovuto all’attività fisica. Purtroppo, incrementare il numero di calorie spese facendo esercizio fisico non ha mai dato i risultati sperati ed è sempre stato uno strumento sopravvalutato per perdere peso [15,16]. Senza entrare nei dettagli dei complessi meccanismi che legano attività fisica e controllo del peso corporeo e semplificando al massimo un argomento che da solo meriterebbe un articolo, il motivo è abbastanza intuitivo: risulta fin troppo semplice rimpiazzare le calorie spese con l’attività fisica – che di norma sono nell’ordine delle 300-400 kcal/ora per esercizi ad intensità moderata – aumentando l’introito calorico. In pratica, è sufficiente uno spuntino per rimpiazzare le calorie spese durante un’ora di allenamento. Per cui, risulta difficile perdere peso con il solo esercizio se questo non è accompagnato da una dieta ipocalorica. La pratica regolare di attività fisica sembra invece essere d’aiuto nel mantenere il peso corporeo dopo che si è dimagriti. Inoltre, non bisogna dimenticare che essere fisicamente attivi comporta una serie di benefici per la salute che vanno ben oltre quelli legati alla sola riduzione del grasso corporeo.
A complicare ulteriormente il quadro entrano poi fattori i genetici ed epigenetici. Mentre è senz’altro vero che esistono persone che tendono fatalmente ad ingrassare se hanno facile accesso al cibo, è altrettanto vero che esistono individui che non ingrassano. Inoltre, alcuni gruppi etnici sono sicuramente più inclini all’obesità di altri. Secondo recenti stime, la variabilità genetica è responsabile delle variazioni di BMI tra individui in un range compreso tra il 47 ed l’80% [17]. Il peso dei fattori ereditari non è dunque marginale; anzi, nel quadro complesso e multifattoriale che stiamo dipingendo è uno dei fattori più importanti. Vi è poi l’epigenetica, che potrebbe essere grossolanamente definita come “il grado di attivazione dei geni di un individuo in relazione all’ambiente in cui è esposto”. Sono diventati ormai noti alcuni studi condotti sulle conseguenze di alcune grandi carestie del secolo scorso: quella olandese e quella cinese. Per quanto i risultati siano ancora dibattuti, sembra ormai esserci una discreta evidenza sul fatto che i figli di madri che abbiano subito la fame durante la gestazione, sviluppino poi più facilmente sovrappeso/obesità se sono vissuti in un ambiente di abbondanza alimentare, come è quello dei giorni nostri [18].
A questo punto è utile riassumere i dati fin qui esposti, che appaiono ad oggi essere assodati: 1) Homo sapiens tende inesorabilmente ad ingrassare da qualche decennio; 2) le diete ipocaloriche funzionano indipendentemente dalla loro composizione in macronutrienti; 3) i “cibi spazzatura”, oltre che essere in generale poco salutari, sembrano in grado di ingannare i sistemi di controllo della fame; 4) l’esercizio fisico non associato a diete ipocaloriche è scarsamente efficace nel farci perdere peso; 5) fattori quali il microbiota, la genetica e l’epigenetica svolgono un ruolo non secondario nel fenomeno.
Si può tentare adesso di rispondere a due domande: perché questa epidemia di grasso si sta manifestando solo negli ultimi decenni, mentre è stato un fenomeno marginale per tutta l’esistenza di Homo sapiens? E perché le diete falliscono così spesso? Prima di provare a rispondere a queste due domande, l’autore di questo articolo vuole sottolineare che la trattazione che segue è ancora oggetto di studio e di dibattito scientifico, per cui le conclusioni soffrono di un certo grado di speculazione.
Per prima cosa analizziamo la nostra storia evolutiva che, per quanto breve, è estremamente variegata e spesso complessa. Cominciamo col dire che Homo sapiens ha condotto gran parte della sua esistenza come cacciatore-raccoglitore. Gli individui che hanno questo stile di vita hanno bisogno di compiere grandi spostamenti per approvvigionarsi di cibo e tali spostamenti comportano una spesa energetica. In molti mammiferi (per esempio ratto, il ghepardo, ma anche lo scimpanzé) è stato osservato che portare a termine un compito apparentemente semplice come procurarsi cibo, richiede la partecipazione e la coordinazione di una vasta quantità di regioni del cervello che, tra le altre cose, calcolano quanto sforzo è necessario per ottenere il cibo e quale sarà la ricompensa energetica se quel cibo verrà effettivamente raggiunto [19,20]. In pratica, esiste nel sistema nervoso una sorta di calcolatore automatico che misura la differenza tra l’energia spesa per procurare il cibo e la ricompensa energetica garantita dal cibo stesso e, se non ne vale la pena, l’animale non si mette in moto e preferisce stare a riposo. Questo sistema ovviamente tiene conto dei livelli di depositi energetici dell’organismo e, se questi si stanno svuotando, la motivazione per la ricerca di cibo diventa alta. C’è da sottolineare come questo sistema sia del tutto inconscio ed automatico. Il ghepardo è un esempio paradigmatico: vive la sua esistenza con la necessità di cacciare, ma per cacciare non può ingrassare, altrimenti sarebbe difficile correre più velocemente delle prede. Per cui passa gran parte del tempo a riposare e si mette in moto solo quando il bilancio energetico supera una certa soglia di negatività. Anche il ratto si comporta in maniera simile, per quanto non sia un cacciatore. L’esistenza di un simile calcolatore automatico non è stata ancora dimostrata nell’uomo, anche se ci sono diversi indizi che ci portano a credere che anche noi abbiamo un qualcosa di simile nel nostro encefalo [21,22]. A questo punto è utile considerare che, recentemente, nella vita evolutiva di Homo sapiens ha fatto la sua comparsa uno straordinario sistema di conservazione del cibo: il frigorifero, che permette di avere a portata di mano cibo fresco e altamente calorico in quantità molto in eccesso rispetto al nostro fabbisogno. Inoltre, questo cibo costa poco sia in termini economici che dal punto di vista delle calorie necessarie per procurarlo: è sufficiente aprire lo sportello del frigo per averlo. Risulta quindi abbastanza intuitivo comprendere come un’invenzione tecnologica, peraltro utilissima, possa avere “spiazzato” il nostro calcolatore automatico: abbiamo tutto il cibo che vogliamo a costo energetico praticamente zero.
Ma un altro evento avvenuto circa 10.000 anni fa pare abbia contribuito in maniera sostanziale a determinare l’epidemia di obesità che stiamo vivendo: l’introduzione dell’agricoltura come sistema di approvvigionamento di cibo, che è stata una vera rivoluzione. L’agricoltura ha reso disponibile un eccesso di calorie che fino ad allora era sconosciuto per Homo sapiens, favorendo la crescita esponenziale della popolazione umana. Tuttavia, l’agricoltura si è portata dietro un effetto collaterale: la comparsa ciclica di carestie che hanno imposto una selezione naturale a favore degli individui che avevano più capacità di accumulo di grasso, utile a superare i periodi di fame. In pratica, una certa fetta della popolazione mondiale soffre dell’eredità genetica di un adattamento biologico durato millenni, in cui i nostri progenitori hanno ciclicamente fatto la fame e in cui mettere su qualche chilo di grasso durante il periodo di abbondanza poteva salvarti la vita nella carestia successiva [23]. Ma, per lo meno nel mondo occidentale, di carestie non se ne vedono più ormai da decenni, per cui questo sistema di adattamento adesso risulta inutile, se non dannoso. Insomma, una parte della colpa del progressivo aumento di grasso nella popolazione mondiale è dei nostri nonni e bisnonni, che hanno fatto la fame, e della tecnologia moderna, che ci permette di avere cibo in abbondanza e con poco sforzo e di conservarlo con strumenti come il frigorifero. A completare il quadro, ci si mettono pure i cibi industriali ad alto valore energetico che, come già detto, sembrano in grado di ingannare i nostri centri della fame.
Non è dunque strana l’epidemia di obesità che stiamo vivendo. Essa è frutto dei meccanismi di selezione naturale, che con l’invenzione dell’agricoltura, ha favorito l’eredità genetica dei “risparmiatori energetici”, accumulatori di grasso, i quali, da qualche decennio, vivono immersi in un’ambiente “obesogeno”, con tante calorie a portata di mano e che necessitano di pochissimo sforzo per essere raccolte. In pratica, i nostri organismi non si sono adattati all’abbondanza costante di cibo e alla sua facile accessibilità, fenomeno sconosciuto fino a qualche decennio fa.
Questo è probabilmente il motivo per cui le diete in gran parte falliscono: rappresentano il teatro dello scontro tra la nostra volontà di perdere peso e i nostri sistemi di controllo ipotalamici del grasso corporeo, che sono automatici ed inconsci e che sono stati selezionati per funzionare in un ambiente totalmente diverso da quello in cui viviamo oggi. Sembra proprio che il nostro ipotalamo abbia prevalso sulla nostra volontà. Qualcuno in passato ha paragonato le sforzo di volontà necessario a dimagrire a quello di mantenere un palloncino gonfio d’aria sott’acqua: ci vuole tanta concentrazione perché, non appena ci si distrae, il palloncino scappa e ritorna a galla. Chi non riesce a dimagrire non deve quindi sentirsi in colpa per questo, egli è solo vittima di uno dei tanti episodi della nostra storia biologico-evolutiva.
Resta infine da segnalare che intorno a questo fenomeno gira uno spaventoso volume d’affari legato all’industria delle diete e del cibo dietetico, con un business multimiliardario legato a promesse di dimagrimento spesso irreali e irrealizzabili [24].
Per approfondire
[1] https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/obesity-and-overweight
[2] Rising rural body-mass index is the main driver of the global obesity epidemic in adults. NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC). Nature 2019 May; 569(7755):260-264.
[3] Perspective on the central control of appetite. Blundell JE. Obesity (Silver Spring). 2006 Jul;14 Suppl 4:160S-163S.
[4] If body fatness is under physiological regulation, then how come we have an obesity epidemic? Speakman JR. Physiology (Bethesda). 2014 Mar;29(2):88-98.
[5] Hypothalamic circuits regulating appetite and energy homeostasis: pathways to obesity. Timper K, Brüning JC. Dis Model Mech. 2017 Jun 1;10(6):679-689.
[6] Food reward, hyperphagia, and obesity. Berthoud HR, Lenard NR, Shin AC. Am J Physiol Regul Integr Comp Physiol. 2011 Jun;300(6): R1266-77.
[7] Biology’s response to dieting: the impetus for weight regain. Maclean PS, Bergouignan A, Cornier MA, Jackman MR. Am J Physiol Regul Integr Comp Physiol. 2011 Sep;301(3): R581-600.
[8] Is There an Optimal Diet for Weight Management and Metabolic Health? Thom G, Lean M. Gastroenterology. 2017 May;152(7):1739-1751.
[9] Carbohydrates, insulin, and obesity. Speakman JR, Hall KD. Science. 2021 May 7;372(6542):577-578.
[10] Comparison of weight loss among named diet programs in overweight and obese adults: a meta-analysis.
Johnston BC, Kanters S, Bandayrel K, Wu P, Naji F, Siemieniuk RA, Ball GD, Busse JW, Thorlund K, Guyatt G, Jansen JP, Mills EJ. JAMA. 2014 Sep 3;312(9):923-33.
[11] Effect of Low-Fat vs Low-Carbohydrate Diet on 12-Month Weight Loss in Overweight Adults and the Association with Genotype Pattern or Insulin Secretion: The DIETFITS Randomized Clinical Trial. Gardner CD, Trepanowski JF, Del Gobbo LC, Hauser ME, Rigdon J, Ioannidis JPA, Desai M, King AC. JAMA. 2018 Feb 20;319(7):667-679.
[12] Processed foods and food reward. Small DM, DiFeliceantonio AG. Science. 2019 Jan 25;363(6425):346-347.
[13] Gut Microbiota: Modulation of Host Physiology in Obesity. Nehra V, Allen JM, Mailing LJ, Kashyap PC, Woods JA. Physiology (Bethesda). 2016 Sep;31(5):327-35
[14] A neurotransmitter produced by gut bacteria modulates host sensory behaviour. O’Donnell MP, Fox BW, Chao PH, Schroeder FC, Sengupta P. Nature. 2020 Jul;583(7816):415-420. doi:
[15] Debunking the myth: exercise is an effective weight loss treatment. Kelly AS. Exerc Sport Sci Rev. 2015 Jan;43(1):2.
[16] Physical activity does not influence obesity risk: time to clarify the public health message. Luke A, Cooper RS.
Int J Epidemiol. 2013 Dec;42(6):1831-6.
[17] Genetic and environmental effects on body mass index from infancy to the onset of adulthood: an individual-based pooled analysis of 45 twin cohorts participating in the COllaborative project of Development of Anthropometrical measures in Twins (CODATwins) study. Silventoinen K, et al. Am J Clin Nutr. 2016 Aug;104(2):371-9.
[18] Intrauterine programming of obesity and type 2 diabetes. Fernandez-Twinn DS, Hjort L, Novakovic B, Ozanne SE, Saffery R. Diabetologia. 2019 Oct;62(10):1789-1801.
[19] To ingest or rest? Specialized roles of lateral hypothalamic area neurons in coordinating energy balance. Brown JA, Woodworth HL, Leinninger GM. Front Syst Neurosci. 2015 Feb 18;9:9.
[20] Lateral septum as a nexus for mood, motivation, and movement. Wirtshafter HS, Wilson MA. Neurosci Biobehav Rev. 2021 Jul; 126:544-559.
[21] The Fox and the Grapes-How Physical Constraints Affect Value Based Decision Making. Gross J, Woelbert E, Strobel M. PLoS One. 2015 Jun 10;10(6):e0127619.
[22] Human spatial memory implicitly prioritizes high-calorie foods. de Vries R, Morquecho-Campos P, de Vet E, de Rijk M, Postma E, de Graaf K, Engel B, Boesveldt S. Sci Rep. 2020 Oct 8;10(1):15174.
[23] Energy intake/physical activity interactions in the homeostasis of body weight regulation. Prentice A, Jebb S.
Nutr Rev. 2004 Jul;62(7 Pt 2):S98-104.
[24] Marketdata Enterprises. The US Weight Loss & Diet Control Market. Lynbrook, NY: Marketdata Enterprises; 2009.
Gentilissimi, temo vi sia sfuggito un errore di battitura nella frase “La BMI si ottiene con un calcolo semplice: dividendo il peso (in kg) per la statura (in m2) del soggetto”. Penso sia più comprensibile scrivere “dividendo il peso (in kg) per IL QUADRATO DELla statura (in m) del soggetto (es. kg 75 / m 1,8^2 = 23)”. Cordiali saluti.
Gentilissimo Riccardo Sclavi,
le scrive l’autore dell’articolo. Grazie per la segnalazione. Correggeremo il testo.
Bravo, Antonio, ben fatto e ben scritto. La dieta Macrobiotica, che seguiamo da 40 anni, ha come principi base il cucinare con le proprie mani cibi locali, di stagione, masticandoli 100 volte a boccone. Non conservati, nemmeno in frigo. Si perde un sacco di tempo, anche a fare la spesa, e, in accordo con quanto scrivi non c’è spazio e tempo per ingrassare. Ma non ci sono studi seri a convalidare.
Leggenda metropolitana! Poi il commento “non c’è spazio per ingrassare” sarebbe stato meglio fisse rimasto nella tastiera
Piccole critiche, che non sminuiscono il valore dell’ articolo: non abbiamo farmaci omeopatici che facciano dimagrire, si tenta di intervenire sui disturbi psichici che provocano il mancato autocontrollo. Mai vista pubblicità in materia, anche perché vietata in Italia. Carestie: niente paura, torneranno presto, anche in Occidente, come i 40° a Vancouver. Anche di tutto ciò mi mancano gli studi seri.