Diciassette piccole bare
Nel 1836, un gruppo di ragazzi si recò sull’Arthur’s Seat, la collina che sovrasta Edimburgo, per cacciare conigli. Trovarono invece una nicchia nella roccia coperta da lastre di ardesia, in cui erano state nascoste diciassette bare in miniatura con all’interno diciassette omini in legno.
Chi le aveva messe lì? E che cosa rappresentavano? Negli anni, tantissime ipotesi sono state fatte, da quella di un gioco macabro alla prova di un antico delitto. Solo otto delle bare originarie sopravvivono ai nostri giorni, ospitate dal National Museum of Scotland. Eppure, il mistero legato alla loro origine incuriosisce ancora adesso i visitatori.
Ipotesi stregonesche
Le piccole casse da morto erano lunghe 9-10 cm l’una, ed erano fatte di legno con inserti in stagno. Quando furono scoperte, erano disposte su tre livelli, in due file da otto e con un’unica bara in cima. Dovevano essere state trovate intorno al 25 giugno, ma i giornali cominciarono a parlarne soltanto a metà luglio. Il primo quotidiano a riportare la notizia fu, il 18 luglio 1836, The Scotsman. Raccontò del ritrovamento e del successivo recupero da parte di un certo Ferguson, insegnante dei ragazzi e appassionato di archeologia.
Era stato lui a dissigillare i mini-feretri, nella sua cucina, con l’aiuto di un coltello…
All’interno di ciascuno c’era una figurina intagliata, con abiti realizzati su misura, cuciti e incollati. Particolare interessante: molti degli omini avevano gli occhi aperti. I ragazzi si erano resi subito conto che gli oggetti erano stati messi lì in tempi diversi: il legno delle prime bare era marcito o ammuffito, mentre quello delle ultime era quasi perfetto. Sembrava che qualcuno avesse deposto quelle figurine una alla volta, a distanza di molti anni.
Già, ma perché?
The Scotsman aveva la sua risposta: si trattava evidentemente di un rituale. Nella Scozia moderna alcune donne praticavano ancora la stregoneria, e forse quegli omini erano stati sepolti per colpire qualcuno. Qualcosa di simile a una bambolina voodoo, insomma.
Circa un mese dopo, l’Edinburgh Evening Post avanzò una seconda teoria: forse quella sepoltura era il surrogato di un funerale che non si era potuto svolgere. Citava un’antica usanza della Sassonia, secondo la quale si seppellivano in effigie i propri cari morti in terre lontane. L’ipotesi ebbe un certo successo sulla stampa dell’epoca, e altri giornali citarono l’usanza – diffusa tra le mogli dei marinai – di sotterrare una “figurina” dei propri mariti morti per naufragio. Ma perché così tante tutte insieme?
Il legame con un rito superstizioso è stato proposto anche in tempi recenti. Nel 1976 Walter Hävernick, direttore del Museo di Storia di Amburgo, menzionò una credenza tedesca: un tempo, i marinai avevano l’abitudine di fabbricare talismani per la buona sorte infilando radici di mandragora o bambole in piccole bare. Il tesoro di Arthur’s Seat era forse una collezione di amuleti, magari nascosta da un mercante con l’intenzione di venderla in seguito ai marinai?
Il problema di questa teoria, purtroppo, è che non ci sono tracce di questa superstizione nella Scozia del Diciannovesimo secolo.
Le bare al Museo di Scozia
Dopo l’ondata iniziale di articoli, l’interesse della stampa scemò. Per quasi settant’anni nessuno parlò più del mistero. Le piccole bare finirono dapprima nella collezione di Robert Frazier, un gioielliere di Edimburgo, che le espose nel suo museo privato. Nel 1845, tutti i reperti raccolti dall’uomo furono messi all’asta; nel catalogo della sala figuravano anche “le celebri bare lillipuziane trovate sull’Arthur’s Seat nel 1836”. Da quel momento, si susseguirono diversi proprietari, fino al 1901, quando otto bare furono donate al Museum of Scotland da una donna di Dumfriesshire, Christina Couper.
Difficile capire che fine abbiano fatto le altre nove. Forse erano semplicemente andate distrutte. Secondo alcuni giornali, qualche feretro si era disintegrato non appena i ragazzi lo avevano preso in mano. Probabilmente quelle otto bare erano le uniche conservatesi intatte.
La donazione coincise con un rinnovato interesse da parte della stampa. In questo clima, nel 1906 The Scotsman pubblicò una notizia bizzarra. Una donna di Edimburgo aveva raccontato al periodico che il padre, citato solo come “Mr B.” aveva ricevuto la visita nel suo negozio di un sordomuto forse con qualche problema mentale.
Come racconta il sito del National Museum,
In un’occasione, l’uomo aveva disegnato su un pezzo di carta l’immagine di tre piccole bare, con le date del 1837, del 1838 e del 1840 scritte sul retro. Nell’autunno del 1837, spiega The Scotsman, un parente stretto di Mr B. era morto; l’anno seguente era morto un cugino, e nel 1840 il fratello. Dopo il funerale, il sordomuto apparve di nuovo, entrò nell’ufficio di Mr B. e ammiccando scomparve per non tornare mai più. Non è possibile – si chiedeva l’articolo – che quest’uomo fosse stato il creatore delle bare di Arthur’s Seat, impazzito per la perdita dei suoi tesori? Oppure tutta la storia non è nient’altro che una coincidenza?
Il collegamento, per quanto avanzato dal giornale, sembra un po’ troppo labile per essere considerato probante.
Nuove analisi e nuove ipotesi
Il passare del tempo non ha impedito il moltiplicarsi delle ipotesi. Negli anni Novanta due studiosi, lo statunitense Samuel Menefee e il curatore del Museo Allen Simpson, hanno sottoposto le otto bare a nuove analisi.
Ai raggi X, si è visto che non c’erano tracce di aghi o di spilli conficcati negli omini. Si è potuto inoltre appurare che il tessuto con cui erano fatti i vestitini risaliva al 1830 circa; le bare, quindi, non dovrebbero essere rimaste sepolte troppo a lungo.
I due studiosi hanno ipotizzato che le figurine fossero state realizzate tutte dalla stessa persona. Il portamento, le braccia e gli occhi aperti fanno pensare a soldatini, più che a cadaveri. È probabile che non siano stati realizzati apposta per stare nelle bare: ad alcuni degli omini mancano le braccia, probabilmente rimosse per farli entrare nei feretri. Menefee e Simpson hanno anche avanzato la teoria che l’autore possa essere stato un calzolaio, e questo sulla base dei materiali utilizzati (legno, ornamenti in ferro stagnato, chiodi..).
Nulla di certo, però, si può dire sul creatore e sulle sue motivazioni.
Anche l’idea che le bare siano state collocate in periodi diversi non è facile da provare. Come spiegava nel 2013 Mike Dash sullo Smithsonian Magazine:
La scoperta non è stata fatta da qualche esperto archeologo che ne ha compiuto un esame scrupoloso prima di spostare un solo pezzo di legno, ma da un gruppo di ragazzi che sembrano aver mescolato bene le bare confondendole l’una contro l’altra, e che non hanno mai fornito alcun resoconto in prima persona della loro scoperta. Il meglio che si può dire è che molte delle bare sopravvissute mostrano un decadimento considerevolmente maggiore delle altre […], ma se il decadimento sia stato il prodotto del tempo o semplicemente degli agenti atmosferici non è possibile dirlo. Può darsi che le bare danneggiate fossero semplicemente quelle che occupavano il livello più basso nella nicchia, e che erano quindi quelle più esposte ai danni causati dall’acqua.
Se davvero si tratta di una “sepoltura sostitutiva”, forse bisognerebbe individuare qualche tragedia dimenticata in cui perirono diciassette persone (o anche più: non sappiamo se la deposizione delle bare dovesse continuare, in assenza del ritrovamento). Mike Dash suggerisce di cercare tracce di un naufragio in cui siano periti diciassette marinai. Schiere di appassionati, negli anni, hanno provato a indagare in questa direzione, ma senza risultati.
Nel 2018, invece, Jeff Nisbet, storico dilettante, collegò le bare di Edimburgo all’insurrezione scozzese del 1820, ossia a una serie di proteste e di scioperi volti ad ottenere paghe più alte e migliori condizioni di lavoro. Le rivolte presero una piega violenta e furono soffocate nel sangue; molti dei partecipanti furono condannati alla pena di morte, altri finirono deportati nelle Americhe. Tuttora sull’Arthur’s Seat esiste una strada, la Radical Road, dedicata all’insurrezione. Gli omini nelle bare potrebbero rappresentare vittime di quegli eventi, messe lì per tener viva la fiamma della rivoluzione sociale?
Le prove a supporto di questa teoria, al momento, sono abbastanza deboli.
Burke e Hare
L’ipotesi che ebbe più successo fra il grande pubblico, invece, è quella che collega le diciassette bare alla storia di due celebri criminali scozzesi: i serial killer William Burke e William Hare.
Nel Diciannovesimo secolo, la necessità di cadaveri per le scuole di anatomia aveva portato al sorgere di un fiorente traffico illegale. Criminali soprannominati “resurrezionisti” rubavano i corpi dalle tombe appena scavate e li rivendevano a medici e chirurghi compiacenti. Burke e Hare cominciarono così, vendendo il cadavere di un morto che doveva loro dei soldi. Poi si resero conto che c’era un modo più semplice per trovare i corpi… Per circa due anni, i due criminali andarono avanti a uccidere persone – prima inquilini della loro pensione, poi semplici passanti – e a rivenderne i cadaveri. Burke e Hare furono arrestati nel novembre del 1828. Hare testimoniò contro Burke e fu liberato nel febbraio 1829; Burke, invece, fu impiccato e dissezionato presso l’Edinburgh Medical College. Le vittime accertate dei loro crimini furono sedici.
Ed è qui che la storia si intreccia con le ipotesi. Contando anche l’uomo morto per cause naturali ma venduto dai due, si arriverebbe a quota diciassette. Oppure potrebbe esserci stata una diciassettesima vittima di omicidio? E a quel punto, qualcuno avrebbe sepolto gli omini sulla collina, in sostituzione dei cadaveri finiti sotto i bisturi? Ma chi avrebbe potuto compiere un atto del genere? Forse una persona coinvolta nei crimini, oppure un parente degli uccisi?
La teoria fu presentata da Menefee e Allen Simpson nel 1994 su un giornale di storia locale. In un documentario del National Geographic andato in onda nel 2005 fu avanzata l’idea che l’artigiano delle piccole bare fosse addirittura lo stesso William Burke, tormentato dai sensi di colpa. Non esiste, però, alcuna prova al riguardo. L’ipotesi, peraltro, presenta anche punti deboli, non ultimo il fatto che dodici delle vittime di Burke e Hare erano donne, mentre gli omini in legno hanno vestiti maschili.
Le piccole bare, un enigma che continua
Di recente le otto piccole bare di Edimburgo sono una delle attrazioni principali del Museum of Scotland. Sono comparse in spettacoli, documentari, persino in un romanzo di Ian Rankin, poi riadattato per la televisione.
Nel dicembre 2014, un ulteriore piccolo mistero andò ad aggiungersi a quello ormai “canonico”. I curatori del Museo ricevettero infatti un pacco misterioso, che conteneva una replica moderna di una delle bare e un biglietto intitolato “XVIII”?
Il testo diceva:
Al National Museum of Scotland – Un regalo – Perché vi prendete cura dei nostri tesori nazionali, in particolare degli VIII.
A seguire, una citazione tratta da The Body Snatcher (“Il ladro di cadaveri”), racconto lungo del 1884 di Robert Louis Stevenson, forse ispirato in parte proprio alle vicende di Burke e Hare.
Un’altra bambolina, contrassegnata con il numero XIX, venne invece lasciata nella sezione “Folklore scozzese” della Biblioteca Centrale di Edimburgo. Anche in quel caso, una piccola figurina in legno con la sua bara d’ordinanza era accompagnata da una citazione letteraria: l’anonimo donatore questa volta aveva scelto un passo di The Resurrection Club di Christopher Wallace.
Le piccole bare di Edimburgo, insomma, rimangono un enigma che negli anni ha continuato a generare ipotesi, teorie e nuove storie. Non è forse questo che si addice ad ogni buon mistero irrisolto?
Immagine in evidenza: le bare presso il National Museum of Scotland, Fair Use.