Giandujotto scettico

I nazisatanici della collina di Torino

Giandujotto scettico n° 106 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (27/01/2022)

Nella primavera del 1970, i torinesi scoprirono sulle pagine dei quotidiani una realtà sconcertante: nelle ville della collina, a un passo dalla città, si svolgevano riti indicibili, profanazioni di tombe, messe nere a base di droghe e di orpelli nazisti. E si accorsero che gli “hippy-satanisti” che li perpetravano avevano pure rapito una giovane torinese…

Beh, non proprio. La storia, in realtà, si rivelò molto più soft. Tutto iniziò con la sparizione di Paola, una diciassettenne che abitava nel quartiere San Donato. 

La scomparsa

Paola frequentava da circa un anno, un gruppo di hippies che si faceva chiamare “Il Baraccone”, a cui appartenevano anche le sue sorelle. Poi, la sera del 15 febbraio 1970, scomparve insieme al suo fidanzato, un ragazzo diciannovenne anche lui appartenente al “giro”. Lui aveva buoni motivi per sparire, per la verità: era ricercato dalle autorità giudiziarie perché renitente alla leva. Paola, probabilmente, aveva voluto accompagnarlo nella sua fuga. A vederla per ultima erano state proprio le sorelle maggiori: dopo essere andati insieme agli amici in un club, la ragazza aveva detto loro che quella sera non sarebbe rientrata, che desiderava andarsene lontano col fidanzato e vivere una nuova vita. Per dissuaderla, una delle sorelle era andata a dormire insieme a Paola e al fidanzato a casa di alcuni amici hippies, disposti a ospitarli. Ma il terzo giorno la diciassettenne aveva fatto perdere le sue tracce, malgrado i tentativi di fermarla e di ricondurla a casa. 

Iniziarono le indagini, la madre di Paola si mise in cerca della ragazza e le forze dell’ordine cominciarono a perlustrare gli ambienti dei ritrovi giovanili, senza alcun risultato. Fin dall’inizio, le due sorelle raccontarono alla Polizia quanto accaduto: era la descrizione pura e semplice di un allontanamento volontario.

Proprio per questo, probabilmente, la vicenda rimase sottotraccia per alcune settimane. Arrivò a La Stampa solo il 13-14 marzo, un mese dopo la sua sparizione. Ma ecco che fin da subito, senza alcun indizio specifico che potesse suggerirlo, le cronache cominciarono a paventare l’ipotesi di una violenza contro la ragazza ad opera di personaggi “strani”:

L’ultima delle voci vorrebbe la diciassettenne in collina, prigioniera in una villa abbandonata, dove ogni tanto si ritrovano gli hippies per celebrare i loro strani riti. 

Panico da hippies

Fin dalle prime righe de La Stampa, ecco tutti i luoghi comuni del leggendario contemporaneo: la collina torinese delle classi colte e privilegiate ma dedite a chissà quali attività oscure, la prigionia dell’adolescente “rapita”, la casa lussuosa (una villa!) abbandonata e ora preda del male – in cui, come da copione, vengono celebrati degli “strani riti”. 

La svolta del quotidiano forse non può essere compresa appieno senza una piccola digressione sulla mentalità del momento. Gli anni ‘60 erano stati tempi di rapida trasformazione della struttura economica italiana e, dunque, della sociologia e della psicologia collettiva. Nelle città italiane (Torino compresa), a partire dal 1965-1966 avevano fatto la loro apparizione gruppi spontanei di giovani, molto malvisti dalle forze dell’ordine, che somigliavano un po’ ai romantici di metà Ottocento. Influenzati dagli hippies americani e inglesi e dai provos olandesi, erano chiamati con disprezzo “capelloni”. 

Loro, da buoni neo-romantici, coltivavano il mito del Wanderung, dell’escursione, che però a volte sfociava nella fuga fisica dal nucleo familiare tradizionale. Gli allontanamenti volontari provocarono un fortissimo allarme nelle istituzioni. E così, cominciarono a diffondersi voci e leggende che parlavano di giovani rapiti, drogati, costretti a forza ad unirsi a branchi di sbandati. 

Aggiungiamo, infine, un ultimo dato: il 1969 aveva visto, a Los Angeles, il massacro di Cielo Drive, in cui Sharon Tate (incinta all’ottavo mese) ed altre quattro persone erano state brutalmente uccise dai membri della “famiglia Manson” . L’omicidio aveva provocato una fortissima emozione nell’opinione pubblica e l’associazione abbastanza impropria dei movimenti di contestazione giovanile al satanismo e alle pratiche occulte – immancabilmente condotte, nell’immaginario collettivo, tramite rituali violenti e sotto l’influenza di droghe. 

Fu forse per questo che la scomparsa di Paola – di fatto un episodio banale – diede origine a Torino a una serie incredibile di paure, di voci, di indagini e di ansie sociali tali da sfociare, per qualche momento, in un vero e proprio panico morale. 

Voci sulla collina

Stampa Sera s’incaricava di solito di scrivere quello che la testata madre non osava dire fino in fondo. Quello stesso 14 marzo, ecco dunque comparire sui quotidiani un articolo intitolato Allucinanti riti fra i capelloni che terrebbero prigioniera la ragazza fuggita di casa. Il giornale si apriva denunciando l’omertà dei “capelloni” che non rivelavano a nessuno dove fosse la giovane. Ma i cronisti potevano comunque raccontare le indiscrezioni raccolte: gli hippies erano stati infiltrati di recente da “strani individui” che avevano “convinto i ragazzi a partecipare a misteriosi riti”. Il tono era ambiguo: si trattava di cerimonie incruente, certo, ma simili nella forma a “quelle di Beverly Hills” in cui il gruppo di Manson aveva ucciso Sharon Tate… 

Ma cosa facevano, dunque, i nostri satanisti della collina di cui tanto si vociferava? I gruppi di giovani avevano “nomi di battaglia” suggestivi e si attribuivano poteri medianici. Si radunavano nei cimiteri, forse violavano tombe, qualcuno si era pure portato a casa teschi e ossa per replicare i rituali in cantina. Avevano un leader che si faceva chiamare Satana, di cui ancora non era chiara l’identità. Però si sapeva che evocava gli spiriti… 

Stampa Sera abbondava con i dettagli misteriosi e riportava anche la testimonianza di una ragazza che aveva partecipato a queste riunioni:

Ho sentito anche un organo suonare – bisbigliava ieri una ragazzetta ad una sua amica, – voci provenire dall’oltretomba. Satana era come trasformato, il suo volto ed i suoi occhi illuminati da una pila erano completamente trasformati. Non era più un uomo. Parlava con gli spiriti. Un nostro amico lo ha preso in giro, gli ha detto che lui a queste cose non ci credeva, che era tutto frutto di autosuggestione. È morto 15 giorni dopo.

Ma in tutto questo, cosa c’entrava Paola? Forse, secondo il giornale, la giovane poteva essere “finita nelle mani di questa gente”. Dopo tutto, pur allontanatasi di sua volontà, da più di un mese non se ne sapeva niente… 

Profanazioni a San Pietro in Vincoli

Tutta Torino era in allarme. Agli appelli della famiglia seguirono alcune segnalazioni: alcune voci davano Paola in Francia, Svizzera o in Olanda. Un taxista era certo di averla portata a Pinerolo, mentre una giovane era sicura di averle dato un passaggio fino a Rivarolo Canavese, dove la aspettavano “altri hippies”. La madre, nel frattempo, spiegava che da quando Paola aveva conosciuto il suo fidanzato non era più la stessa: ascoltava per ore musica beat, frequentava i bar in cui i capelloni ascoltavano “uno di loro che grattava le corde di una chitarra” o si radunavano intorno ad altri capelloni che raccontavano delle proprie “allucinanti avventure”. E concludeva: “io la picchiavo, ma era inutile”. (La Stampa, 15 marzo 1970)

La caccia alle streghe, però, raggiunse il culmine fra il 16 e il 17 marzo. Nel corso delle ricerche, la polizia aveva fatto una macabra scoperta. I capelloni si radunavano nelle cripte sotterranee di ciò che restava di una chiesa sconsacrata, all’interno del cimitero di San Pietro in Vincoli. Alcuni di loro compivano “allucinanti esperimenti medianici”. Era forse in quegli ambienti la chiave della scomparsa di Paola? Il 17, la stessa testata dedicò mezza pagina alla scoperta, con ricchezza di particolari e di foto. Si parlava di bare spaccate, ossa trafugate, tombe aperte per portar via “monili e macabri cimeli”… (La Stampa, 16 marzo 1970). I profanatori avevano anche asportato le spoglie di una marchesa morta nel 1857. I sepolcri però erano quelli nobiliari; forse i vandali erano semplicemente a caccia dei gioielli. (La Stampa, 18 marzo 1970)

Ma tutto questo – lo ripetiamo – che cosa aveva a che vedere con la sparizione di Paola? Secondo il quotidiano lei era la probabile, povera vittima di quel mondo occulto, che aveva involontariamente portato alla luce la realtà satanica di troppi giovani di Torino.

Esito di una retata

Nelle stesse ore delle scoperte di San Pietro in Vincoli, i Carabinieri del nucleo investigativo perquisirono anche una cascina. Ci avevano trovato una stanza con “quaderni scritti a mano”, tra cui uno intitolato “Messa nera”. C’erano poi una cassa che poteva ricordare una bara, un teschio di plastica e veli scuri. Forse la stanza era stata usata durante il recente Carnevale per organizzare serate da brivido, ma forse c’era di più. Ma c’era un’altra novità: una retata delle forze dell’ordine nei locali di aggregazione aveva permesso di arrestare una trentina di “capelloni”, tra cui il famoso Satana e il suo amico “Ho Chi-Minh”. Alcuni erano stati trovati in possesso di droghe o medicinali stimolanti; altri avevano parlato di rituali in una cascina fra Gassino e Cinzano, dove

si sarebbero svolte cerimonie “nazi-sataniche” in una stanza illuminata con candele, con foto di campi di sterminio alle pareti, svastiche e una bara al centro, dove si sarebbero sdraiati i neofiti per essere iniziati agli oscuri riti del gruppo. (La Stampa, 17 marzo 1970)

C’era poi una strana storia raccontata da un ragazzo dodicenne, già ricoverato in un istituto per disturbi mentali. Lui aveva dichiaro che di notte

si sentiva telepaticamente comandato ad uscire per andare in uno scantinato di via Lagrange, dove si incontrava con dei capelloni che lo ipnotizzavano e poi lo rimandavano a casa. (La Stampa, 17 marzo 1970)

Ora gli inquirenti volevano scoprire cosa c’era di vero.

Ma in tutto questo – di nuovo – cosa c’entrava Paola? Secondo la sorella maggiore di Paola, che appariva piuttosto tranquilla, nulla: la sua era una semplice fuga romantica. Si era innamorata e se n’era andata con l’uomo che amava. Di lui, diceva che era un “bravo ragazzo” e che a Paola voleva veramente bene: aveva perfino accettato di tagliarsi i riccioli, per lei. Non ne sapeva nulla di nazisti, satanisti, messe nere. Probabilmente la ragazza era ospite con il fidanzato di qualche amico o conoscente. Il padre, invece, definiva il giovane “uno spostato” che aveva lasciato scuola e famiglia per fare una vita da fannullone. Tutti, comunque, speravano che la giovane tornasse a casa presto. 

La cascina del diavolo

Ancora il 17 marzo, in un’altra edizione del giornale, La Stampa parlava diffusamente delle nuove scoperte del nucleo investigativo dei Carabinieri su quella che ormai era chiamata una “setta”. Un capitano aveva dichiarato al giornale che avevano trovato il “rifugio” degli adoratori di Satana, la cascina di Gassino in cui si radunavano i capelloni. Si trattava di un vero e proprio tempio con arnesi di tortura, fruste, catene inchiodate ai muri. Era arredato con una bara in cui si sdraiavano le donne, vestite solo con i veli neri. E poi, ancora, un teschio di plastica con vernice rossa, orpelli nazisti, elmetti nazisti, drappi scuri… I rituali – questa era la tesi degli inquirenti – servivano a irretire “ragazzine sprovvedute” e prevedevano orge e atti sessuali. 

Secondo il quotidiano una delle partecipanti aveva dichiarato, riferendosi a uno dei “sacerdoti”:

L’ho visto nudo, drappeggiarsi in un lenzuolo bianco e venire verso di me nell’aria, senza che i suoi piedi toccassero il pavimento.

Il capitano dei carabinieri ammetteva che fino a quel momento non era ravvisabile nessun reato, dal momento che le uniche ragazze che avevano ammesso di aver partecipato ai riti dicevano di averlo fatto spontaneamente. C’era, però, il rischio che in quelle cerimonie fossero consumate droghe, alcolici con pastiglie sciolte all’interno e sigarette di marijuana. 

Il 18 La Stampa spiegò che si era potuta scoprire l’affittuaria della cascina (i proprietari, invece, erano risultati estranei). Si trattava di un’impiegata Fiat ventitreenne. Il giornale, come da copione, affermava che il luogo era adibito a “messe nere e ad altre perversioni”. I sospetti erano spinti dalle inevitabili voci dei contadini della zona, che vedevano i giovani frequentare il posto, scendere dalle auto “quasi sempre all’imbrunire, e sparire velocemente all’interno”. 

Il “tempio satanico” appena scoperto era forse legato alla sparizione? L’affittuaria smentì qualsiasi ipotesi del genere. Aveva il gusto del macabro, del gotico – era quasi una mania di massa, alla fine degli anni Sessanta – ma non aveva fatto niente di male. Voleva semplicemente un posto tranquillo per passare i weekend e si incontrava lì con i suoi amici. Quanto alla bara, le piaceva dormire lì dentro: era forse un reato? Occorre comunque dire una cosa, e cioè che la donna non era un’hippy, né li frequentava. I frequentatori della cascina erano quasi tutti impiegati e operai. La donna negò anche di aver mai partecipato a rituali satanici. Solo una volta avevano inscenato un poltergeist per prendersi gioco di un’amica, facendo muovere gli oggetti con fili nascosti.

Lei e la madre erano spaventate dal clamore suscitato. Ma non emersero reati a carico dell’inquilina; probabilmente, dopo quella parentesi, la donna tornò al suo impiego in Fiat, rassicurante anche in tempi di contestazione, di cultura pop, di esplosione d’interesse per l’occulto e di crescente libertà sessuale per le donne. 

E Paola?

I Carabinieri, però cercavano ancora di capire se Paola fosse stata ospite in qualche modo di quella terribile “comunità hippy” (peraltro inesistente), o, almeno, di altri capelloni. Anche stavolta non si approdò a nulla, ma la città intera, dopo questa notizia, ormai sapeva: rituali nazisatanici con scomparsa di minorenne annessa avvenivano sistematicamente, nella capitale industriale d’Italia! 

Beh, se non non si trattava proprio di un rapimento, almeno gli hippies dovevano aver traviato la povera Paola, secondo La Stampa. La ragazza, scriveva il quotidiano nella sua edizione serale del 21 marzo, se n’era pur sempre andata per seguire “un beat dai folti capelli ricciuti”. A quel punto, chissà che cosa le era capitato… 

Due sorelle della ragazza si erano mosse per conto loro, cercando indiscrezioni sulla possibile sorte della giovane. Avevano descritto ai Carabinieri tutti i punti di ritrovo giovanile in cui la ragazza avrebbe potuto rifugiarsi. Con loro, gli agenti avevano perquisito una cascina semidiroccata in via Principessa Felicita di Savoia e una villa disabitata in collina, presso la Fontana dei Francesi. Anche lì dovevano esser passati i “capelloni”: di Paola, però, nessuna traccia. 

Furono proprio quei tentativi a far scoprire agli inquirenti la storia delle tombe di San Pietro in Vincoli profanate (e di altri cimiteri della zona). Una delle sorelle maggiori di Paola aveva anche assistito a uno di questi raduni, ma non si trattava di rituali satanici con orge annesse. Piuttosto, pare che i giovani si rifugiassero lì per discutere del più e del meno: chiacchieravano di problemi sociali, di droghe, di fenomeni paranormali – e sì, anche del “Satana americano” (La Stampa non lo dice, ma è possibile si riferissero a Anton LaVey, che nel 1969 aveva pubblicato la sua “scandalosa” e vendutissima Bibbia satanica). Alla fine, le forze dell’ordine denunciarono otto ragazzi al sostituto procuratore per i vandalismi avvenuti nei cimiteri (La Stampa, 29 aprile 1970).

Ma in tutto questo – torniamo a ripeterlo – cosa c’entrava Paola? Nulla. Nei giorni seguenti alla scomparsa, la ragazza aveva scritto un paio di volte alla famiglia. Nelle lettere parlava di un prossimo spostamento di lei e del fidanzato in Scozia, di una futura luna di miele in Messico e di un definitivo stabilimento in Olanda… Nel complesso, malgrado la psicosi hippy-nazisatanica, la vicenda sembrava meno complicata di quanto i giornali e le voci lasciassero intendere. Forse i due non erano nemmeno troppo distanti da Torino (La Stampa, 19 marzo 1970).

Ritorno a casa

Alla fine di luglio la vicenda si risolse. Paola rientrò a casa con il fidanzato, e a chi le chiedeva dove era stata, rispondeva ridendo: 

A spasso per il mondo.

Probabilmente non si era nemmeno allontanata troppo dalla città. Contenta e felice, era rimasta tutto il tempo con colui che amava, desiderosa di emanciparsi dalla famiglia che disapprovava la relazione. Aveva fatto preoccupare i suoi, ma non le era capitato niente. Borghesemente, rientrando a casa, Paola aveva annunciato alla sua famiglia l’intenzione di sposare il “capellone”. 

Su La Stampa del 29 luglio 1970 campeggiano le foto dei genitori, felici per la ricomparsa della figlia. Nell’occhiello, bonaria, la redazione scriveva che Paola, “stanca di vagabondaggi”, voleva diventare “una brava casalinga”. Quasi senza batter ciglio, il giornale metteva da parte le paginate di illazioni su riti satanici, messe nere, droga, rapimenti e orge – come se le illazioni e le voci non fossero state amplificate a dismisura proprio su quelle pagine. 

Di quelle paure e di quelle fantasie, La Stampa ormai parlava in forma impersonale: 

A un certo punto, si era sparsa la voce che Paola era in collina, prigioniera di una banda di “capelloni” che celebravano messe nere e altre diavolerie. I genitori, disperati, si erano rivolti alla polizia. Battute, titoli sui giornali, angoscia per la sorte di questi sbandati: sullo sfondo di simili vicende resta sempre la figura tragica di Maria Teresa Novara

Questo nome oggi dirà poco. Maria Teresa Novara aveva 13 anni, quando venne uccisa a Canale d’Alba, nel Cuneese. Rapita da una casa a Villafranca d’Asti, venne ripetutamente violentata, tenuta segregata e poi uccisa. Solo che i colpevoli non erano capelloni, satanisti o hippy. Erano residenti della zona, lavoratori e padri di famiglia. I quotidiani – La Stampa compresa – ne parlarono accreditando l’ipotesi di una possibile fuga d’amore; raccontarono, riprendendo voci e dicerie, che la ragazzina fosse scappata con l’intenzione di andare a prostituirsi.

A toglierle la libertà e la vita erano stati quelli come noi, non misteriosi sbandati à la Charles Manson. A diffondere voci, timori e leggende erano stati i giornali più importanti, non i social media che allora non esistevano ancora. Con il loro sensazionalismo, avevano fornito benzina ai cospirazionisti e amplificato infondate leggende metropolitane. Nel caso di Maria Teresa come in quello, ben meno tragico, della nostra Paola. 

Foto di Donovan Reeves da Unsplash