Trame nascoste: approcci diversi per cospirazionismi vecchi e nuovi
Da poco tempo è uscito per la collana Religioni & media delle edizioni Mimesis il volume collettivo Trame nascoste. Teorie della cospirazione e miti sul lato in ombra della società. Curato da Nicola Pannofino, del Dipartimento Culture, politica e società dell’Università di Torino e da Davide Pellegrino, del Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del territorio dello stesso ateneo, raccoglie nove saggi di un gruppo di autori che esplorano una serie di cospirazionismi di origine recente e altri radicati in un passato più distante. Giuseppe Stilo ha intervistato per Query Online i due curatori e due degli autori: Daniela Rana, dottoressa di ricerca in Storia delle idee e teoria politica presso l’Università di Torino, e Giuseppe Cùscito, ebraista.
Cosa si può dire del senso generale dell’opera? Come nasce, e cosa tiene insieme i contributi?
(Nicola Pannofino) Il libro nasce con l’intento di analizzare un fenomeno che per lungo tempo è stato marginale negli studi accademici se non, addirittura, guardato con un certo sospetto. Negli ultimi anni, invece, il cospirazionismo ha guadagnato un rinnovato interesse da parte delle scienze sociali ed è ormai entrato a pieno titolo nel linguaggio quotidiano, nella comunicazione mediatica e nel dibattito pubblico. A questa recente visibilità delle teorie della cospirazione hanno verosimilmente contribuito due eventi drammatici della nostra storia, l’attacco terroristico dell’11 settembre e l’attuale pandemia, che hanno innescato un clima di sfiducia verso le istituzioni politiche e scientifiche che non ha precedenti.
Trame nascoste affronta il cospirazionismo – un tema che solleva facilmente animate e appassionate prese di posizione – attenendosi a un criterio di avalutatività, un criterio qualificante della ricerca sociologica, senza schierarsi né a favore né contro. A differenza di molti saggi divulgativi pubblicati sull’argomento, il nostro non è un testo a sostegno di questa o quella teoria del complotto e neppure un testo di debunking. È un libro, insomma che deluderà inevitabilmente sia il lettore che voglia trovare conferme sia il lettore che voglia trovare smentite alle teorie del complotto. Piuttosto, è un libro che si prefigge un compito diverso. Le ragioni di interesse per il cospirazionismo non sono, e non dovrebbero essere, rivolte esclusivamente a stabilirne la fondatezza storica e fattuale. Non è in gioco solo la scelta tra vero e falso. Come studiosi di fenomeni sociali siamo altrettanto interessati a scoprire i motivi che spingono a credere o a non credere alle teorie del complotto, a spiegare i processi della loro formazione e diffusione, a considerarne la rilevanza e le conseguenze sul piano collettivo. In definitiva le teorie della cospirazione non sono soltanto teorie, ma forme d’azione e visioni del mondo.
Con questo metodo di lavoro, che è il filo rosso che attraversa le pagine del libro, abbiamo raccolto i diversi contribuiti che compongono i nove capitoli del libro. Ciascun capitolo è dedicato a una specifica teoria del complotto e affidato a uno studioso specialista del corrispondente tema, rispettando l’esigenza di trattare ogni teoria del complotto iuxta propria principia, nel rispetto delle peculiarità che la connotano. Il libro si concentra sul contesto dell’Italia contemporanea: senza pretese di esaustività, abbiamo selezionato alcuni casi rappresentativi fra quelli che alimentano l’odierno immaginario del complotto italiano. Per rendere conto di questo quadro, il volume è suddiviso, secondo un criterio cronologico, in due parti, incentrate rispettivamente sui cospirazionismi nati nel passato e su quelli nati nel presente. Entrambe le parti includono teorie del complotto che sono sorte e si sono sviluppate nel nostro Paese o che, pur provenienti da altri contesti geografici, hanno trovato qui una loro specifica rielaborazione.
Mi ha colpito la riflessione sul complottismo nei lavori di Eco, in specie in quelli di taglio più propriamente letterario. Cosa ne emerge?
(Giuseppe Cùscito) Ne emerge che le varie teorie cospirazioniste si rifanno tutte a un prototipo comune che Eco rintraccia nel complotto del Monte del Tuono descritto nel romanzo “Il Conte di Montecristo”. Anche se il romanzo di Dumas non costituì probabilmente una fonte diretta per tutte le teorie cospirazioniste venute in seguito, comunque sembra essere ciò che più di altri ha contribuito alla diffusione nell’Ottocento dell’idea di un complotto universale. Un altro tratto in comune tra le teorie cospirazioniste e quelle pseudostoriche è il loro debito verso i racconti di finzione, che vengono presi per veri, spesso tradendo le stesse intenzioni degli autori. Secondo Eco, quindi, della stessa storia che viene raccontata quasi identica ormai da secoli, variano solo i protagonisti. Dai Templari, ai Rosa-Croce, ai Gesuiti, ai Massoni, agli Ebrei (e, aggiungo, ora anche agli alieni, siano essi rettiliani o meno), l’idea di fondo è sempre quella: ci sarebbe un’élite di individui che cospirerebbero di nascosto per orchestrare il dominio del mondo o che di fatto lo dominerebbero già, rimanendo dietro le quinte, nascosti dai governi che costituirebbero solo una facciata
E poi, ho visto pure che Giuseppe Cùscito si sofferma sul kitsch come categoria interpretativa che Eco utilizza. Cosa dire del rapporto fra kitsch e cospirazionismi?
(Giuseppe Cùscito) Intanto è opportuno precisare che questo parallelo non appare nell’opera di Eco, ma è il risultato di una mia personale riflessione. Fatte le dovute distinzioni del caso, ho voluto rendere omaggio allo stesso Eco, comportandomi un po’ come lo stesso autore si comportò nei confronti di San Tommaso d’Aquino. Nella sua tesi di laurea sull’estetica, Eco partì dalle stesse premesse dell’Aquinate per formulare delle proposizioni su argomenti riguardo ai quali l’autore commentato non si era mai espresso. Eco ha quindi scritto ciò che secondo lui avrebbe probabilmente detto San Tommaso su determinati temi (sostenendo peraltro di aver trovato un’aporia nel sistema tomistico, che però non è pertinente in questa sede). Nel saggio su Eco si è voluto compiere un’operazione simile, da nano sulle spalle di un gigante: si è partiti da ciò che ha detto l’autore riguardo alle teorie pseudostoriche, esoteriche e cospirazioniste e si è trovato un parallelo con ciò che lo stesso Eco, altrove, dice del kitsch. In tutti i casi, vengono messe in atto decontestualizzazioni di elementi sparsi, che vengono poi ricontestualizzati in un sistema che pretende di essere alla pari dei sistemi di cui vogliono rappresentare l’alternativa. Le teorie pseudostoriche decontestualizzano reperti archeologici o documenti storici con la pretesa di riscrivere la storia; le teorie esoteriche decontestualizzano singoli elementi da varie tradizioni religiose alla ricerca di una presunta verità universale sulla realtà del cosmo, della divinità e dell’essere umano; le teorie cospirazioniste decontestualizzano elementi presi dalle notizie di attualità considerandoli come i risultati di un piano messo in atto da élite nascoste; il kitsch decontestualizza elementi estetici ricombinandoli insieme senza un criterio unitario. Come il kitsch urla la propria volontà di fare arte, pur senza le necessarie capacità e sensibilità artistiche, così la pseudostoria, l’esoterismo e il complottismo pretendono di essere storia, scienza e geopolitica pur non adottandone i metodi
Alla fine, è possibile sostenere che un fondamento del complottismo sia il senso del sospetto? Dov’è che il senso critico e lo scetticismo sano verso la “versione ufficiale” e il potere prende, per così dire, la strada sbagliata e diventa irrazionalismo?
(Nicola Pannofino) Il sospetto attraversa per intero il campo del complottismo, sia dall’interno che dall’esterno. Le teorie della cospirazione, infatti, sono epistemologie del sospetto, concezioni del mondo che aprono a un altrimenti rispetto all’ordine culturalmente condiviso e accettato e che postulano l’esistenza di un mondo “in ombra”. Allo stesso tempo, sono anche epistemologie sospettate, poiché fin dai primi studi accademici, inaugurati nel 1964 dal testo di Richard Hofstadter The Paranoid Style in American Politics, la comunità scientifica ha stigmatizzato queste teorie, vedendo in esse non solo un atteggiamento fondato su false credenze, ma l’espressione di una mentalità “patologica”, come suggerisce il vocabolo paranoid scelto da Hofstadter e che comparirà ripetutamente nella letteratura successiva.
Questa inclinazione verso il sospetto rende il confine tra dubbio legittimo e irrazionalismo difficile da tracciare, e la difficoltà principale risiede nel carattere sui generis del complottismo in quanto “teoria”. Nel linguaggio scientifico, improntato al metodo sperimentale, una teoria è tale a condizione di essere suscettibile di controllo empirico: l’osservazione ripetuta consente di mettere alla prova dei fatti le ipotesi e gli asserti per verificarli o, meglio, per considerarli provvisoriamente validi fino a prova contraria. Le teorie del complotto seguono una strada diversa. Il principio che le guida è riassumibile nella massima: “l’assenza di prove non è prova di un’assenza”. Questo vuol dire che la mancanza di evidenze fattuali a supporto di una data teoria del complotto non è, per i complottisti, motivo per confutare la teoria. Al contrario, può costituire un indizio a favore dell’abilità dei cospiratori nel nascondere le tracce del proprio operato. Secondo questa impostazione, se credo che il mondo sia governato da una razza aliena malvagia ma non trovo prove che lo attestino, potrò concludere che questo accade perché gli alieni sono così intelligenti da dissimulare la propria presenza tra gli esseri umani. Un simile modo di ragionare – che elude o ridefinisce la questione dell’onere della prova – appare contraddittorio. Tuttavia, è la contraddizione intrinseca che fonda ogni discorso sull’esistenza di un segreto: voler dire qualcosa su ciò che, per propria natura, si sottrae intenzionalmente alla parola.
Se le teorie della cospirazione fanno così animatamente discutere è appunto perché problematizzano le condizioni comunicative e conoscitive su cui si regge l’atto stesso della discussione: la verità e la segretezza, la fiducia e il sospetto, la menzogna e la credibilità.
Un legame pericoloso, anzi pericolosissimo: sinistra marxista e negazionismo della Shoah. Com’è stato possibile? Che cosa lo caratterizza?
(Daniela Rana) Ricostruendo la genealogia teorico-politica dei negazionismi della Shoah, si nota come un negazionismo o riduzionismo ideologico a sinistra sia funzionale (e non strutturale alle radici teorico-politiche di riferimento, come accade per il negazionismo delle destre radicali). La ricostruzione dei trascorsi ideologici dell’area, infatti, permette di comprendere come, a differenza della destra, la sinistra negazionista di stampo marxista (che non fu l’unica sinistra a esprimere negazionisti: pensiamo per esempio a Paul Rassinier, considerato uno dei padri del negazionismo, militante per quasi tutta la vita nella SFIO, il Partito Socialista francese, nelle cui liste venne poi eletto deputato nel 1946, nonché ex deportato a Buchenwald) neghi lo sterminio non per odio nei confronti degli ebrei, ma per “dedizione nei confronti della classe operaia”. In altri termini, il negazionismo è qui funzionale alla decostruzione del mito dell’antifascismo internazionale, categoria percepita come interclassista, borghese e antiproletaria.
In particolare, nel 1960, furono pubblicati, sulla rivista d’area “Programme Communiste”, due interventi (uno a firma Amadeo Bordiga e l’altro anonimo ma da molti attribuito allo stesso Bordiga il quale, peraltro, non smentì mai) intitolati rispettivamente Vae Victis Germania e Auschwitz ou Le grand alibi, ripubblicati poi nel 1970 dai tipi de La Vieille Taupe, casa editrice francese di ispirazione bordighista. In entrambe le sedi, si affrontava la questione ebraica durante il Reich non in termini negazionisti, ma negandone la specificità, ovvero all’insegna del riduzionismo. Sebbene esponenti successivi (es. Saletta e Garaudy e tutta l’area che poi afferirà a La Vieille Taupe) divennero esplicitamente negazionisti, occorre sottolineare che a Bordiga, intellettuale di riferimento d’area, si possono accostare interpretazioni riduzioniste, ma mai negazioniste tout court.
La caratteristica di un negazionismo funzionale mira, appunto, a decostruire il mito dell’antifascismo internazionale, poiché vede la dicotomia fascismo/antifascismo come politicamente mistificatoria: dalla seconda guerra mondiale, di conseguenza, le nuove generazioni sono cresciute identificando l‘antifascismo con la libertà delle democrazie borghesi o con l’uguaglianza del socialismo sovietico, strenuamente e valorosamente oppostesi all’avanzata della barbarie nazionalsocialista. Ciò che invece occorre comprendere, secondo questa prospettiva, è che tale contrapposizione è spuria: tutti i fronti, infatti, partecipano della stessa natura capitalistica, borghese e imperialista, dello stesso modello di produzione che determina le sovrastrutture politiche di una società.
Se, storicamente, ci è stato tramandato che la grande differenza qualitativa tra i due capitalismi è costituita dalla Shoah, ossia da quell’insanabile crimine contro l’umanità che rende incommensurabili i due tipi di capitalismi, ciò implica che, nel momento in cui tale “grande alibi” dovesse venire meno, si potrebbe finalmente restituire alla storia la seconda guerra mondiale, con i suoi crimini tutti ugualmente orrendi e i suoi capitalismi tutti ugualmente negativi. La riduzione (e poi la negazione) della Shoah rappresenta, quindi, la premessa ineludibile per la critica all’antifascismo, che aveva dato una visione del nazismo appiattita sulla centralità della Shoah.
Bordiga e tutto il bordighismo che diverrà negazionista non cercano di riabilitare il nazismo o di diffondere un odio antiebraico: la loro motivazione trascende la cifra storica contingente, che ha luogo in quanto determinata economicamente. Ci si concentra sullo sterminio solo perché è una chiave di lettura fondamentale che permette di equiparare fascismo e antifascismo.
L’antisemitismo nazifascista viene letto, in questa prospettiva, non come odio nei confronti degli ebrei in quanto ebrei, ma come risultato contingente della loro posizione nel contesto socio-economico. Secondo tale visione, gli ebrei, a causa della loro storia, si trovavano concentrati nella piccola e media borghesia e perciò, in quella contingenza storica caratterizzata da guerra e crisi, furono sacrificati per salvare il resto: l’antisemitismo nacque qui, come mezzo per concentrare l’opera distruttiva su una parte ben precisa (e riconoscibile) della piccola borghesia; derivò, cioè, non da intenzioni genocidarie ma dalla costrizione economica.
Ecco perché si preferirà definire questo tipo di negazionismo come funzionale: decostruire il “mito di Auschwitz” non è il fine, ma il mezzo per dimostrare la tesi di fondo, ossia la sostanziale affinità di fascismo e antifascismo, la quale, in ultima analisi, serve a sostenere la Causa rivoluzionaria.
La differenza fondamentale tra riduzionismo e negazionismo, all’interno della galassia funzionale, risiede nel fatto che, mentre nel riduzionismo à la Bordiga l’avvenuto sterminio era stato sfruttato dal capitalismo antifascista vittorioso in guerra (che aveva, cioè, colto l’occasione), nel negazionismo tout court di un Saletta (il più prolifico negazionista italiano di stampo bordighista), lo sterminio non è mai avvenuto ed è stato proprio inventato dal capitalismo antifascista, in combutta con il sionismo -altra espressione del capitalismo antifascista-, per evitare di attirare l’attenzione sui propri crimini bellici e postbellici. L’invenzione cui si fa riferimento, però, non è “un’immaginaria «cospirazione ebraica»”, ma una costruzione fatta di propaganda di guerra e specchi riflessi in cui non si riconosce una mente centrale, secondo le ricostruzioni illustrate dai negazionisti “fattualisti” (es. l’italiano Mattogno, tra i più importanti a livello internazionale).
Più in generale: veniamo dall’eredità dei grandi maestri del sospetto che hanno segnato il XX secolo della psicoanalisi, ma sulla scorta di Nietzsche e di Marx. Pensi che questi maestri abbiano, in un certo senso, qualcosa da rimproverarsi a proposito della negazione recente di realtà documentatissime come la persecuzione dei fascismi contro gli ebrei?
(Nicola Pannofino) L’immaginario contemporaneo del complotto è, almeno in parte, erede di quella ermeneutica del dubbio che proprio i “maestri del sospetto” – per usare la nota espressione di Paul Ricoeur – hanno delineato. Maestri del sospetto sono stati Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud. Ciascuno nel proprio campo ha introdotto l’idea secondo cui la coscienza, la ragione, la morale, la cultura siano governate da motivazioni nascoste, pulsioni psichiche inconsapevoli, desideri irrazionali, rapporti di forza economici. Ad accomunare Marx, Nietzsche e Freud, dunque, è un principio sovversivo che ribalta le certezze del senso comune, secondo il quale dietro, al di sotto, o al di là di ciò che si considera reale o vero, ci sia dell’altro. La formulazione di tale principio, tuttavia, la ritroviamo ben prima dell’epoca moderna. Se ripercorriamo la linea genealogica di questo atteggiamento giungiamo all’origine stessa del pensiero occidentale, a Eraclito, il filosofo che ha posto le basi di quello che Giorgio Colli, efficacemente, denomina “pathos del nascosto”, la tendenza a considerare il fondamento del reale come qualcosa di celato allo sguardo. I maestri del sospetto, comunque, non sono maestri né dello scetticismo né del negazionismo, ma della critica verso le forme della nostra conoscenza. È una prospettiva che non ha mai smesso di esercitare la sua fascinazione lungo i secoli e che oggi, con le teorie del complotto, è entrata prepotentemente nella cultura popolare e nel linguaggio corrente. Per tutte le teorie del complotto, infatti, la realtà che ci circonda è un inganno, una macchinazione. Metaforicamente, somiglia a una rappresentazione teatrale di cui siamo inconsapevoli spettatori. E come a teatro, dietro il palcoscenico sul quale avviene lo spettacolo si trova un backstage, uno spazio riservato dove la verità viene tenuta segreta e nel quale agirebbe nell’ombra un nemico invisibile, l’élite di potere che governa gli accadimenti storici.
In questo senso, le teorie della cospirazione aspirano a essere uno strumento di smascheramento del piano occulto del nemico e, insieme, uno strumento di dissenso e denuncia, una contro-narrazione paradossale (dal greco para, contro, e doxa, opinione condivisa) che si oppone polemicamente al sapere condiviso, giudicato falso, e alle autorità socialmente legittimate, ritenute corrotte. Ne è un esempio eloquente il terrapiattismo, il caso di cui mi sono occupato nel libro. La teoria della Terra piatta è una delle espressioni più radicali e onnicomprensive di cospirazione ed è, proprio per questo, particolarmente istruttiva. Il terrapiattismo contemporaneo affonda le proprie radici, nella seconda metà dell’Ottocento, nell’opera seminale Zetetic Astronomy dell’inglese Samuel Rowbotham, uno scienziato autodidatta e fervente cristiano. Nella sua opera, Rowbotham si schiera contro la scienza ufficiale del suo tempo e, delineando, per così dire, la figura del ricercatore indipendente ante litteram, rivendica per l’“uomo comune” la possibilità di comprendere autonomamente la verità con l’esercizio della propria ragione e con l’esperienza diretta, senza la mediazione di qualsivoglia autorità accademica. È l’esigenza, tipicamente moderna, di un accesso alla conoscenza e di una partecipazione alla costruzione del sapere “dal basso” che non tocca solo il campo della scienza, ma che si riscontra parallelamente anche nella politica e nella religione. In tutti questi campi la modernità ha avviato processi di deregolamentazione e di critica verso l’istituzione che hanno trovato, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione, un potente mezzo con cui ciascun individuo può ritagliarsi ad hoc un personale percorso di ricerca su misura delle proprie opzioni, credenze e preferenze.
Per me la responsabilità maggiore della credenza nei Complotti e nelle Cospirazioni è dei Professori di Storia e dei loro libri: mi ricordo che fin dalla scuola Media mi hanno insegnato che il Potere non è leale verso i Sudditi, tende a perpetuarne il Dominio con mezzi illeciti e nascondendo i suoi piani di governo. Addirittura, farebbero guerre dopo aver finto di volere la Pace!!! Se mi avessero insegnato, invece, la Verità, cioè che coloro che detengono il Potere sono persone simpatiche, leali, e sinceramente preoccupate della salute dei loro Governati (tutti sanno che arrivano addirittura a non dormire la notte, pensando al nostro bene!) non sarei mai stato complottista, e così la maggioranza dei Cittadini Complottisti. A me ci sono voluti decenni per capire che i Governanti, i Ricchi (cosa di cui non han colpa!) i Giornalisti, i Militari, i Magistrati e gli Scienziati meritan tutta la nostra fiducia. Spero gli altri ci arrivino prima.
Credo che una cosa sia il complottismo (specialmente quello che asserisce che un’elite – Savi di Sion, extraterrestri, club di Bilderberg o quant’altro – piloti i governi mondiali oppure cerchi di renderci schiavi iniettandoci microchip o modificando il nostro genoma), un’altra la cieca fiducia nei poteri. Per citare, non Hegel ne’ Chomsky, ma De Andrè: “Certo bisogna farne di strada… però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”. Quindi? Credo sia giusto dare a qualcosa/qualcuno la propria fiducia, non assoluta (come i componenti la parte bovina dei popoli, capaci – ad esempio – di morire o di vivere poveramente per le guerre volute da chi con esse si arricchisce ulteriormente) ma critica, per quanto possibile; personalmente (ma non pretendo – magari così fosse! – di avere la Verità nel taschino), opto per la Scienza: con tutti i limiti possibili, essa si basa su evidenze verificate ed ha saputo, a differenza delle religioni, mettersi in discussione e, all’occorrenza, riscrivere i propri libri.