Lo Squartatore dello Yorkshire: un caso di bias di conferma
Tra il 1975 e il 1980 il terrore scuote il Nord-Ovest dell’Inghilterra. Un assassino seriale, che con poca fantasia i giornali battezzano “Lo Squartatore dello Yorkshire”, individua donne che si trovano da sole per strada la sera, alcune delle quali prostitute, e le convince (o le obbliga) a salire in auto con lui. Il predatore, armato di martello e cacciavite, uccide così tredici donne e ne ferisce almeno altre sette ma, per quanto sembri imprendibile – quasi un fantasma che rimanda al misterioso serial killer vittoriano, Jack lo Squartatore –, la polizia ha almeno nove occasioni per arrestarlo. Per ben nove volte, infatti, gli investigatori interrogano tale Peter Sutcliffe, un camionista che per un motivo o per l’altro continua a spuntare nell’elenco dei possibili sospettati, ma che ogni volta finisce per essere rilasciato.
In un’occasione la polizia mostra a Sutcliffe la fotografia dell’impronta di uno stivale trovata accanto a una vittima, ma nessuno si accorge che l’uomo indossa in quel momento esattamente lo stesso tipo di stivali. In una diversa occasione, nella tasca di un’altra vittima viene trovata una banconota da 5 sterline: dal numero di serie è possibile risalire a una compagnia di trasporti, la Clark Transport, la stessa per cui Sutcliffe lavora. Ma ancora nessuno fa il collegamento.
Eppure Sutcliffe era stato arrestato nel 1969 perché trovato armato di martello in una zona a luci rosse. Eppure un suo amico, Trevor Birdsall, lo aveva accusato in una lettera anonima di essere il serial killer che tutti cercavano. Eppure Tracy Browne, di soli quattordici anni, sopravvissuta all’attacco dell’assassino che la colpisce cinque volte alla testa con il martello, ne descrive l’aspetto in un modo talmente preciso che l’identikit ottenuto sembra una fotografia di Peter Sutcliffe. E così fanno altre donne scampate al massacro.
Ma nulla di tutto questo serve a qualcosa. Alla fine, Sutcliffe finisce in carcere per caso, il 2 gennaio del 1981. La polizia stradale ferma l’auto su cui si è appartato insieme a una prostituta. Vengono entrambi portati in centrale e si scopre che l’auto è rubata. È lo stesso tipo di auto visto più volte in occasione dei diversi delitti. L’uomo si giustifica dicendo che cambia la targa all’auto per non far sapere alla moglie che va con le prostitute. Incredibilmente, la polizia gli crede e ancora una volta sta per rilasciarlo, quando un controllo dell’auto porta alla scoperta di un cacciavite. Poco distante dal punto in cui Sutcliffe era stato fermato, poi, vengono ritrovati anche un martello e un coltello, di cui l’uomo si era liberato vedendo avvicinarsi le luci lampeggianti dell’auto della polizia. Solo allora, messo sotto pressione, Peter Sutcliffe confessa di essere proprio lui lo Squartatore dello Yorkshire. Ma perché non è stato arrestato prima? Perché è sempre stato escluso ogni volta che veniva sospettato o interrogato? Semplice! Perché non combaciava con l’idea che gli investigatori si erano fatti dell’assassino. La polizia, per esempio, aveva ricevuto in un pacco anonimo un nastro registrato in cui il presunto assassino si vantava dei suoi successi. La voce che parlava aveva un forte accento del Nord-Est, che Sutcliffe non possedeva. Quel nastro però era un falso, lo scherzo di un mitomane; i motivi per sospettarlo erano tanti, eppure quello che diceva si accordava bene con l’idea che la polizia si era fatta dell’“assassino di prostitute”. E poi Sutcliffe era sposato e diceva di non frequentare le prostitute. Questo, in effetti, era il vero problema: gli investigatori erano convinti che, proprio come Jack lo Squartatore, l’assassino “uccideva solo le prostitute”. «È un uomo che odia le prostitute» avevano dichiarato i detective in tv. E da questa certezza discendeva tutto il resto.
Peccato che si sbagliassero. In pieno.
Sutcliffe era un misogino, un uomo cioè che odiava tutte le donne. E, infatti, aveva sì colpito alcune prostitute, ma non solo loro. Cercava semplicemente donne sole e, di sera, in certe zone poteva essere più facile trovare una prostituta, ma non se la prendeva solo con loro. Quando una donna che non si prostituiva era stata uccisa da Sutcliffe, si trovavano mille pretesti per identificarla come una “poco di buono”. Magari aveva problemi economici e quindi, ipotizzavano i detective, doveva per forza prostituirsi per tirare avanti, anche se non c’erano prove che lo facesse.
Quando invece una donna o una ragazza era stata aggredita da Sutcliffe, ma per miracolo era riuscita a salvarsi, i suoi racconti, i dettagli che dava, le descrizioni precise che forniva dell’assalitore venivano semplicemente ignorati perché queste donne non sembravano il tipo di vittima del “vero” Squartatore. La polizia cercava Jack the Ripper, il genio del male, non un insignificante camionista di Bradford.
Quindi dobbiamo chiederci: perché la polizia ha fallito così miseramente? Perché gli investigatori si sono lasciati accecare dai loro pregiudizi. E, soprattutto, si sono rifiutati di cambiare idea ogni volta che le prove smentivano ciò in cui credevano.
Certo, un brutto caso di bias di conferma, ma non sono certo stati gli unici ad averne sofferto. “Tutti noi, nelle nostre conoscenze e nelle nostre opinioni, abbiamo dei punti ciechi”, scrive lo psicologo Adam Grant nel suo eccellente libro Think Again, dedicato alla necessità di mettere in discussione le nostre stesse convinzioni. “La cattiva notizia è che questi punti ciechi possono renderci ciechi alla nostra stessa cecità, cosa che ci da una falsa fiducia nella nostra capacità di giudizio e ci impedisce di ripensare le cose. La buona notizia è che con un giusto grado di fiducia possiamo abituarci a osservare noi stessi con maggiore chiarezza e a migliorare il nostro sguardo” (Grant, 2021).
Gli investigatori inglesi del caso dello Squartatore dello Yorkshire avrebbero potuto far proprio questo suggerimento se avessero ascoltato ciò che, quasi un secolo prima, un altro detective inglese, per quanto immaginario, aveva detto: “È un errore madornale teorizzare prima di avere in mano i dati” afferma infatti Sherlock Holmes nel racconto Uno scandalo in Boemia. “Gradualmente si iniziano a distorcere i fatti per farli andare d’accordo con le teorie, anziché formulare teorie sulla base dei fatti”.
Ed è un errore in cui tutti, chi più chi meno, possiamo cadere. Perché? Perché tutti noi siamo più propensi a cercare conferme per qualcosa in cui crediamo, anziché smentite.
Note
Grant, A. 2021. Think Again. New York, Penguin Random House, p. 35 (edizione italiana: Pensaci ancora, Egea).
Tratto da: Massimo Polidoro, Pensa come un* scienziat*, Piemme, Milano, 2021.
Immagine in evidenza: https://pxhere.com/en/photo/1559443, CC-0, Public Domain
Complimenti per l’ Articolo, caro Massimo. Concordo con Te sul fatto che Sutcliffe sia scappato alla Polizia perché questa si era fatta convinzioni sbagliate. Nella vita quotidiana spesso ci capita di cercare cose che abbiamo a portata di mano e di occhio, ma che non vogliamo vedere lì dove sono, bensì da un altra parte. Sutcliffe non è l’ unico caso nel campo dei killer seriali, dove spesso gli Investigatori sono soggetti ad aspettative e pressioni che non li aiutano a cercare la Verità come andrebbe cercata e come loro stessi sanno che andrebbe cercata. Anche Pacciani ha potuto uccidere liberamente per un decennio perché ci si aspettava un altra persona. Scusami per l’ esempio, perché, lo sai, secondo me anche Tu, nello studiare il caso, sei cascato in un bias di conferma. Permettimi, alla fine, anche una spiegazione paranormale, sennò non sarei io: molti serial killer sono aiutati da quelle cose che noi chiamiamo Fortuna e Caso, ma in realtà si tratta di Satana, cui spesso loro offrono le vittime. Ma il Demonio non è un amico fidato, non rispetta i patti e, prima che tu te l’ aspetti, ti toglie l’ aiuto, lascia che tu sia catturato, e cerca di indurti alla disperazione ed al suicidio.