Giandujotto scettico

Galileo Collodi, pietrificatore di stomaci

Giandujotto scettico n° 116 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (16/06/2022)

Conservare i cadaveri trasformandoli in pietra: un sogno coltivato nei secoli da personaggi come Raimondo di Sangro, Girolamo Segato, Paolo Gorini, Francesco Spirito. Erano medici, scienziati e “preparatori anatomici” che sperimentavano nei loro laboratori le tecniche per la conservazione dei corpi – spesso lasciando dietro di sé formule segrete e fama di alchimisti. Del tutto sconosciuta è invece la storia di Galileo Collodi, che per anni cercò di seguire le orme di Segato dalla sua casetta nel cuore di Torino. Ma Collodi non era un grande scienziato come i suoi colleghi: era un ex albergatore fallito, con la sola licenza elementare.

Un ristoratore sfortunato

Dai giornali si riesce a ricostruire a grandi linee la sua vita. Era nato ad Altopascio, in provincia di Lucca, intorno al 1888. Verso il 1910 si trasferì a Torino, dove aprì un ristorante-alberghetto in piazza Castello 23, la Trattoria Fiorenza. Qui, grazie alla cucina toscana, si “era fatto una discreta fortuna e viaggiava in automobile”. (La Stampa, 15 luglio 1936; La Stampa, 28 giugno 1941) Le cose però non erano destinate a durare. Nel 1933 Collodi fu coinvolto in speculazioni finanziarie e accumulò debiti per molte migliaia di lire (circa mezzo milione, dirà poi). Il Tribunale di Torino aprì una procedura fallimentare. Collodi si oppose, affermò di aver fatto solo da prestanome per operazioni in borsa, cercò di spiegare che la sua trattoria era in attivo e quindi era solvibile. Ma il tribunale gli diede torto, e il nostro eroe perse in un sol colpo ristorante e automobile (La Stampa, 16 dicembre 1933). Si ritirò a vivere in una stanzina al numero 11 di corso Duca di Genova, nel cuore di Torino (dopo la Seconda guerra mondiale la strada cambiò nome in corso Stati Uniti).

Fu qui che lo trovò il giornalista Enzo Arnaldi (1910-1959), penna allora popolare del quotidiano La Stampa, che nel luglio del 1936 andò a cercarlo per farsi raccontare di un’invenzione straordinaria. Arnaldi lo avevamo già incontrato nel Giandujotto scettico, perché alcuni anni dopo il suo interesse per il pietrificatore si sarebbe occupato di un mistero (risolto) di fantasmi lanciasassi che tormentavano una panetteria di via Caraglio, sempre a Torino. L’ex ristoratore (dal “nome e cognome quanto mai promettenti”, scherzava il cronista) aveva infatti scoperto “il segreto delle mummie”, un minerale in grado di preservare i corpi per l’eternità. 

Arnaldi, probabilmente, non ci credeva sul serio: l’articolo portava come occhiello la frase, sibillina ma non troppo, Alle soglie dell’inverosimile. Di Collodi, il giornalista scriveva:

[…] non ha nulla, né dell’alchimista, né dello studioso. È un uomo alto, sveglio, dall’agile e pronta parlata toscana. (La Stampa, 15 luglio 1936)

Collodi fornì al cronista il frutto dei suoi esperimenti: un cuore di bovino, un topo, un ranocchio, delle “minugia di pollo” (le interiora) e altri pezzettini. Erano ben conservati:

Il cuore del bovino ha mantenuto intatta la sua forma ed i suoi aspetti costitutivi, anche se il colore è diventato giallo e marrone. Da oltre un anno è conservato e, nel palparlo, pur constatandone la durezza quasi lapidea, si ha la sensazione che la vita non sia ancora del tutto sfuggita dai suoi tessuti e specialmente dalle parti grasse. Il topo è addirittura pietrificato e magnificamente conservato sia nel pelo che nelle forme. La ranocchia è gialla e disseccata. Collodi la spezza. Tutta la sua impalcatura interna è rimasta intatta è pare di legno. Le minugia di pollo, invece, che sono state trattate con l’olio, conservano ancora elasticità e mollezza, pur non esalando alcun odore. Una conservazione ancor più impressionante.

Una ricetta di famiglia

Come aveva ottenuto quei risultati? Collodi si teneva sul vago: non voleva svelare i suoi segreti. Tutto risaliva al padre, un carradore di Altopascio (veniva chiamato così chi costruiva e riparava carri). Nei tempi morti di quel lavoro artigianale, l’uomo passava il tempo libero a leggere e a studiare. Spiegava il figlio:

L’avesse scoperto lui, o qualcuno gliel’avesse rivelato, il certo è che lui solo sapeva d’un certo minerale, abbondantissimo in tutt’Italia, che, disciolto al calore, produceva delle emanazioni la cui influenza su animali morti o su pezzi di carne… era quella di conservarli. Una specie di processo di mummificazione. Egli si dilettava sovente di questi esperimenti e diceva a me piccolino che con quel suo sistema, se fosse stato applicato da scienziati, si poteva evitare che i cadaveri andassero in decomposizione. La cosa, come ben possono immaginare, mi impressionava, ma ero ragazzo e più ai giochi pensavo che non ai morti da mantenere intatti per sempre. Mio padre, d’altra parte, non menava alcun vanto di queste sue conoscente e non mi disse mai in qual modo quel minerale dalle proprietà così straordinarie gli fosse venuto tra mano. Soltanto ora mi sorge il dubbio che si tratti di qualche segreto del nostro grande Segato, trapelato, in chissà qual modo, da Firenze fino ad Altopascio. 

Girolamo Segato (1792-1836) era un personaggio misterioso. Nativo del Bellunese, cartografo e naturalista, tornò dai suoi viaggi in Egitto col tarlo della mummificazione. Sperimentò a lungo le tecniche di disidratazione e mineralizzazione dei tessuti; i suoi preparati (tra cui il busto di una giovane e diversi organi umani) sono attualmente conservati presso il Museo del Dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale dell’Università di Firenze. La sua tecnica di “pietrificazione”, però, rimane tuttora ignota: Segato si portò il segreto nella tomba (la si può ammirare nella Basilica di Santa Croce), né volle mai rivelarlo a nessuno, nonostante le insistenze. 

Con le sue allusioni, Collodi buttava lì l’idea che la sua ricetta fosse proprio quella del grande pietrificatore. Ma al tempo stesso, non poteva fare a meno di menzionare misteriose “emanazioni”, prodotte dal minerale in grado di influenzare la conservazione della carne: un riferimento, molto probabilmente, alla moda della radioattività, che proprio in quel periodo spopolava anche a Torino, oppure a qualche altra improbabile energia vitale, mania di tanti tipi di occultismo e, in una certa misura, anche di alcuni correnti filosofiche.

La guarigione dall’ulcera

Quanto alla “riscoperta” di quegli studi paterni, Collodi spiegava: 

Mio padre, ormai vicino ai novant’anni, morì e delle sue esperienze più nessuno di noi parlò. […] Finché si arrivò al 1933. Da tre anni io soffrivo di ulcera gastrica, un’ulcera, che, siccome non mi decidevo a farmi operare, andava sempre più aggravandosi e mi aveva portato anche degli sbocchi di sangue.

L’ulcera era, all’epoca, un male pressoché incurabile. L’ipersecrezione dell’acido gastrico produceva nei malati nausea, bruciori di stomaco, dolore continuo; in qualche caso degenerava in carcinoma. La si credeva frutto delle preoccupazioni: per curarla si ricorreva inizialmente alla dieta e poi, quando le cose si aggravavano, alla chirurgia, sino alla resezione quasi totale dello stomaco. Ora si sa che è frutto di un batterio, l’Helicobacter pylori, e si tratta con antibiotici. Collodi, per non dover ricorrere a quell’operazione demolitiva, ripensò a quel rimedio paterno:

Mi venne l’ispirazione. Io non so né di medicina, né di chimica, poiché ho appena la licenza elementare, ma, chissà come, pensai che quella soluzione che veniva ad indurire la fibre morte degli animali, avrebbe potuto chiudere la mia ulcera. Era una cosa pazzesca che non osai rivelare ad alcuno. Dopo tanti anni, ricercai il misterioso minerale, lo feci sciogliere nell’olio bollente e filtrai la soluzione. Mi venne fuori un liquido che dell’olio aveva ancora il colore, ma che dell’olio aveva perso tutte le altre caratteristiche, dal gusto alla trasparenza. 

Collodi non provò subito il rimedio: lo sperimentò prima su due grossi cani da caccia. Diede loro da bere il liquido e glielo inoculò tramite iniezioni. Le bestie non manifestarono “alcun fenomeno preoccupante”. Così si decise anche lui: per molti giorni, a intervalli regolari, si autosomministrò la medicina, e dopo un mese e mezzo – affermava – era completamente guarito. 

Da allora non ebbi più alcun disturbo ed ora mi permetto anche di mangiare cibi, come il salame, che il mio stomaco ha sempre accettato con molta riluttanza.

La sua non era la sola “guarigione miracolosa”: anche un vecchio cane era guarito da una “grossa boccia” che gli era venuta sotto la gola, forse un tumore; dopo il trattamento con il misterioso olio minerale, era vissuto ancora due anni. 

Il parere del professor Giovanni Marro

Nella sua intervista del 1936 Collodi non aveva voluto spiegare i dettagli del procedimento. Parlava di un misterioso minerale (“un calcare, un bitume di petrolio?”, si chiedeva il cronista) che veniva fatto sciogliere sul fuoco. Nella soluzione così preparata si inseriva l’animaletto morto o il pezzo di carne da pietrificare, avvolto in modo che non fosse a contatto diretto con il liquido ma che ne potesse assorbire le “emanazioni”. Per la durata del trattamento, Collodi andava ad occhio: non aveva ancora sperimentato a sufficienza per trarne una regola, così come non aveva ancora provato ad utilizzare il liquido a freddo. 

Per questo si era rivolto al giornale: desiderava solo “poter fare delle esperienze” al di là dei limiti che l’indigenza e l’ignoranza gli avevano imposto. Cercava uno scienziato disposto a studiare il suo segreto.

Due giorni dopo, il 17 luglio, La Stampa intervistò il professor Giovanni Marro, medico, antropologo, esperto di mummie egizie e direttore del Museo di Antropologia di Torino. Marro spiegò che la mummificazione poteva avvenire anche naturalmente, quando le condizioni ambientali erano favorevoli e il cadavere posto su una superficie porosa in grado di assorbire i liquidi del corpo. Gli egizi avevano preso spunto da questo processo per mettere a punto una tecnica più efficiente, in cui i visceri erano asportati e il cadavere avvolto in lini intrisi di sostanze chimiche. Il problema è che non sempre i cadaveri mummificati rimanevano tali: cambiando le condizioni ambientali, la putrefazione poteva ricominciare, come avvenuto di recente a un ammiraglio dell’epoca faraonica conservato a Torino. 

La conclusione di Marro era questa: i preparati anatomici di Collodi erano indubbiamente affascinanti, ma sarebbero durati? 

Il prof. Marro non ha veduto i pezzi anatomici: un cuore, un topo ed una rana, portati dal Collodi non a lui ma a suo fratello il prof. Andrea Marro [primario di chirurgia all’Ospedale Maggiore San Giovanni di Torino, NdA]; ma ha saputo che essi si presentano assai bene. Si tratta però, egli aggiunge, di pezzi che non hanno il collaudo del tempo. Saranno stati preparati da un mese, due, tre, ma chi può dire se essi si conserveranno come si conservarono quelli del Segato?

La sperimentazione, due anni più tardi

Nell’aprile 1938 Collodi tornò a farsi sentire con La Stampa per condividere i suoi progressi. Questa volta accolse il cronista – sempre Enzo Arnaldi – in un elegante studio medico al primo piano di corso Valentino (oggi corso Marconi). Rispetto al 1936 c’erano importantissime novità: due ricercatori, incuriositi dalla notizia sul giornale, avevano preso la cosa sul serio e avviato una sperimentazione clinica sull’ulcera gastrica. 

Si trattava del dottor Gian Mario Griffey (?-1975), torinese, e di Mario Debenedetti, medico di Acqui Terme (1904-1978, fondatore nel 1950 della Casa di cura Villa Igea nella cittadina piemontese). I due non erano entusiasti dell’interesse del quotidiano, ma gli anticiparono i risultati di quella sperimentazione: il rimedio scoperto da Collodi era quasi miracoloso, guariva circa l’80% dei pazienti! 

All’inizio, comunque, non tutto era andato liscio. Spiegava Griffey:

Tra l’altro impiantammo a San Mauro un intero allevamento di cavie su cui provammo il liquido. La cosa in sé non aveva nulla di eccezionale, ma poco mancò che finisse malamente per me, poiché i contadini del luogo, addossando alle nostre povere cavie la colpa di una malattia che colpiva i loro conigli, quasi mi linciavano. 

Gli esperimenti sulle cavie avevano dato esito positivo, e si era così passati alla sperimentazione sui pazienti. 

Le prime difficoltà le incontrammo… nel trovare i soggetti. Non era facile imbattersi in ammalati disposti ad accettare un sistema di cura di genere così eccezionale. I soggetti furono quanto di meno idoneo si potesse radunare. Gente in condizioni finanziarie disagiate e che, quindi, non poteva certo tenere un regime di vita e di vitto adatto a favorire il buon esito della cura. Nonostante ciò, i primi risultati superarono le nostre anche più rosee aspettative. In pochi giorni ammalati che da anni si contorcevano fra spasimi atroci si sentivano sollevati, potevano riposare durante la notte, riuscivano a digerire quanto mangiavano. Il miglioramento continuava, poi, rapidamente e presto i pazienti rifiorivano; riprendevano le occupazioni d’un tempo. Incoraggiati da simili risultati, continuammo con maggior energia nell’iniziativa, perfezionando studi e applicazioni, assicurandoci un rigoroso controllo radiologico e chimico delle fasi della malattia. 

In breve: la voce si era sparsa, nuove persone accorrevano per farsi trattare con il “metodo Collodi”. I due dottori non si spingevano a dire di aver trovato la cura definitiva per l’ulcera gastrica e duodenale: era una malattia ciclica, poteva regredire anche da sola, e comunque non si capiva bene come funzionasse il tutto (forse il misterioso liquido ricostruiva il tessuto epiteliale dello stomaco?)… Però non esitavano ad affermare che quel metodo offriva “eccezionali possibilità di guarigione”.

Buona parte dell’articolo de La Stampa era occupato da testimonianze dei “guariti”, i cui nomi – evidentemente – erano stati dati dai dottori al cronista: medici scettici convinti dagli inaspettati risultati, donne che avevano potuto buttar via la ventriera, giovanotti che dovevano essere operati e avevano schivato l’intervento grazie al metodo Collodi, formaggiaie di Porta Palazzo che erano guarite da ogni dolore… Diverse radiografie, fornite dal professor Arrigo Foà (1901-?), poi privato della sua cattedra a a causa della mostruosità delle leggi razziste antisemite decise dal fascismo, mostravano il “prima” e il “dopo” la cura. Arnaldi gongolava: quella scoperta era, almeno in parte, anche merito suo, che da cronista curioso aveva scritto un articolo di metodi alchemici e pietrificatori; ma quelle tecniche, studiate dalla medicina moderna, potevano forse fornire nuove frecce alla lotta contro l’ulcera. 

Il tramonto

Dopo tutto questo, ci saremmo aspettati qualche ulteriore articolo sul metodo Collodi. E invece, la cura del nostro “pietrificatore” scomparve nel nulla. Griffey, peraltro, per quanto ne sappiamo fu vicino alle teorie “alternative” sulle malattie e su ogni cosa vi venga di mente propugnate da un ingegnere bergamasco, Marco Todeschini, inventore di una “teoria” da lui chiamata psicobiofisica che – fra le altre cose – nei suoi intenti era del tutto opposta alla fisica relativistica… 

Per anni La Stampa pubblicò annunci per curare l’ulcera con un “metodo vegetale del dottor Botta” e con pillole ad hoc. Ma del misterioso liquido minerale di Collodi, nessuna traccia. Possiamo supporre che, al di là delle dichiarazioni entusiaste del momento, la sperimentazione dopo un po’ si sia rivelata un buco nell’acqua. 

È difficile anche ipotizzare quale fosse il sistema da lui utilizzato. Nella storia della pietrificazione, sono stati usati metodi molto diversi, e non sempre facili da intuire. Girolamo Segato (1792-1836) portò il suo segreto nella tomba; Paolo Gorini (1831-1881) rivelò parte delle sue tecniche a Luigi Rovida, suo amico e medico personale. Francesco Spirito (1885-1962) pubblicò invece tutto su riviste scientifiche. Parte del fascino dei pietrificatori sta proprio nel vivere in questa terra di mezzo tra alchimia e chimica, tra l’esperimento condotto occultamente nel proprio laboratorio e la necessità di divulgare al mondo le proprie scoperte come è normale nella scienza moderna. 

Per chi volesse approfondire la questione, non possiamo che consigliare i lavori di Luigi Garlaschelli, che ha studiato a lungo l’argomento e ha riprodotto alcune delle tecniche utilizzate in passato (e in particolare questa tesi, di cui è stato relatore). Interpellato sul nostro Collodi, Garlaschelli ha ipotizzato che il liquido segreto potesse essere un silicato di sodio o di potassio (uno dei sistemi impiegati da Francesco Spirito). Ma si tratta ovviamente di una semplice congettura: senza altre informazioni in merito, la caccia al misterioso “metodo Collodi” è tuttora aperta. 

Il nome di Galileo Collodi, comunque, fa ancora un paio di sporadiche apparizioni su La Stampa. Possiamo supporre, da una lettera al quotidiano, che sopravvisse aiutando un parente nella conduzione di un negozio. Tanti anni dopo, nel 1971, scrisse nuovamente a La Stampa per chiedere lumi sulla mummificazione egizia: 

“Non sono un imbalsamatore di animali, ma un mummificatore all’egiziana. Nel mio piccolo museo tengo da 40 anni alcuni esemplari di volatili rari mummificati: senza piume, per il resto completi. l’intestino e tutto. Vorrei sapere se si può conoscere il procedimento scientifico usato dagli antichi Egizi, anche se la durata della conservazione per millenni resta ancora un mistero. Non mi basta la risposta apparsa più volte su alcune riviste che la lunga conservazione si ottiene privando la materia organica dell acqua”. 

Chiede troppo il nostro lettore?

All’epoca Collodi doveva avere circa 85 anni; ma il tarlo era ancora lì. L’ossessione di una vita, si direbbe. 

L’ultima traccia che abbiamo di lui è la notizia della sua morte, tratta dallo stato civile della città di Torino. Comparve su La Stampa del 24 giugno  1978: Collodi aveva novant’anni. Un paio di righe con nome, cognome e residenza, in un punto modesto del quartiere Crocetta nemmeno troppo lontano da dove abitava al tempo della sua breve notorietà, ma neanche un’allusione al mistero delle sue pietrificazioni.  

Si ringrazia Luigi Garlaschelli per i suggerimenti e le indicazioni.

Immagine in evidenza: rospo pietrificato da Paolo Gorini conservato all’Ospedale vecchio di Lodi, foto di Phyrexian, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0