La strana storia della Madonna del gatto
Giandujotto scettico n° 117 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (30/06/2022)
Un giallo leonardesco dagli inaspettati risvolti piemontesi: è questa la storia dietro alla Madonna del gatto, ritrovata nel 1939 e poi scomparsa nel nulla, per poi riapparire… Nello studio di un pittore torinese.
Un dipinto perduto
Andiamo con ordine. La nostra storia ruota intorno a un presunto dipinto di Leonardo da Vinci: la Madonna del gatto. Tra gli schizzi del grande pittore e inventore, in effetti, sono noti diversi studi preparatori per un’opera con questo soggetto, una specie di Sacra Famiglia in cui mamma e figlio giocano con un gattino. Le versioni più celebri di questi studi sono quelle che si trovano sul recto e sul verso di un foglio conservato al British Museum di Londra, ma ce ne sono almeno altre cinque sparse per il mondo (due sono presso la Galleria degli Uffizi a Firenze).
Il problema è che, a fronte di questi schizzi preparatori, non si conosce alcun dipinto con questo soggetto, né in musei né in collezioni private. Forse Leonardo non lo realizzò mai, forse andò perduto. Col passare degli anni, numerosi pittori presero spunto da questi studi per realizzare opere di chiara ispirazione leonardesca. Di un presunto originale, però, nessuna traccia.
Fino al 1939. Quell’anno il regime fascista si apprestava a celebrare il genio italico con una grandiosa mostra dedicata all’artista, quando i giornali pubblicarono una notizia che fece sobbalzare tutti gli appassionati d’arte: la Madonna del Gatto era stata ritrovata.
Un ritrovamento quasi miracoloso
L’opera d’arte – una tavola in pioppo dipinta, dell’altezza di una cinquantina di centimetri – arrivava da Savona ed era proprietà di Carlo Nola, un uomo che La Stampa del 25 agosto 1939 presentò come “discendente di antica e nobile famiglia pugliese, figlio di un valoroso capitano dei carabinieri deceduto per cause di servizio”. Nola spiegò che quel quadro si trovava da sempre appeso in casa sua, e che non sapeva come la sua famiglia ne fosse venuta in possesso: nessuno gli aveva mai dato troppa importanza, finché…
Furono i riferimenti pubblicati sull’introvabile dipinto, in occasione della Mostra di Milano – riferimenti che palesavano singolari coincidenze con il quadro di sua proprietà – che spinsero il Nola a parlarne ad amici inducendolo poi a portare il quadro a Milano e a presentarlo ad un profondo conoscitore dell’opera leonardesca. Questi, di fronte al dipinto di cui rilevava subito la squisita e superba fattura, di fronte ai richiami del capolavoro accennato da biografi del grande Vinciano, non seppe nascondere il proprio senso di sorpresa. Senza alcuna anticipazione sull’attribuzione, il quadro venne lasciato all’esame degli esperti del Comitato della Leonardesca, prof. Giorgio Nicodemi, prof. Pietro Toesca e senatore Antonio Venturi [Adolfo, in realtà, NdR]: ed essi si sono pronunziati con l’attribuire a Leonardo la paternità di quest’opera (La Stampa, 25 agosto 1939).
L’autenticità del quadro era stata confermata anche dagli esperti del Castello Sforzesco, che avevano sottoposto la tavola a radiografia e avevano scoperto alcune analogie con le opere di Leonardo (ad esempio, nella “disposizione delle prime pennellate”). Certo, il dipinto era molto rovinato: la tavola presentava una profonda fenditura, e due stuccature che potevano far pensare all’opera distruttiva di candele accese in onore della Madonna. I colori erano slavati e parte degli “sfumati” tipici delle opere leonardesche erano scomparsi: ma era ciò che ci si aspettava da un’opera di quasi cinquecento anni prima. Doveva trattarsi di una tavola lasciata incompiuta da Da Vinci: il gatto era solo disegnato e non dipinto. Il quadro fu rapidamente affidato a un restauratore, che si impegnò a consegnare la Madonna del gatto alla Mostra di Leonardo di Milano entro il 5 settembre: dal giorno successivo, sarebbe stata esposta ai visitatori.
Il più entusiasta era proprio il senatore Venturi, che ai giornali dichiarava:
Ho piacere di aver vissuto tanto da poter vedere questa opera meravigliosa, che così ho sempre immaginato: questi colori, questa sinfonia di tinte, questa bellezza spirituale. (La Stampa, 25 agosto 1939)
La Madonna del gatto in mostra
Il restauro arrivò entro i tempi previsti: prima, il dipinto fu affidato ai “fratelli Porta di Milano”; poi, per la ripulitura e la “restituzione delle tinte”, all’artista Hans Sendresen.
La mostra di Milano mise il quadro in un posto d’onore: lo collocò al centro di una stanza, sistemato su un cavalletto, “per dar modo ai numerosi studiosi, agli appassionati ed al pubblico di di osservarlo a pieno agio e sotto tutte le gradazioni, gli effetti e le sfumature di luce” (La Stampa, 15 settembre 1939). D’altra parte, diversi esperti si erano già pronunciati a favore dell’autenticità: oltre a quelli già citati, si erano aggiunti Giovanni Poggi, Mario Salmi e Hernando Selman, tutti commissari artistici della mostra. Ma, anche in assenza del loro parere, l’attribuzione era certa:
L’opera è infatti animata da squisita grazia, ed inconfondibile appare l’espressione che è sul volto della Vergine; le figure del putto e del gattino, che con esso gioca, sotto lo sguardo amoroso della Madre, si riscontrano poi in numerosi disegni incompiuti del Maestro, ciò che li fa giudicare, più che veri disegni, studi di appunto, ricerca di particolari effetti in preparazione alla maggiore opera. Altre particolarità di disegno e di costruzione di sfondi denunciano poi chiaramente l’origine dell’opera, essendo in coincidenza con altri dipinti accertati del Maestro. Così il colore del pavimento, che in smorzata prospettiva fugge verso il fondo, è lo stesso di quello sul quale poggia l’Annunciata del quadro fiorentino, ed ha la stessa ampiezza, mascherata da toni di delicata ombra, di quello che è nell’Annunciazione al Louvre. Lo sfondo, attraverso la finestra aperta sulla destra, si intravede roccioso e irto di guglie, desolato e solitario, con una strada serpeggiante che gli fa da corona, ed è molto simile a quello di altri dipinti. Il leggero panno bianco che è sul capo della Vergine appare uguale al disegno della Madonna del Liocorno (La Stampa, 15 settembre 1939).
Davvero un colpaccio, per la mostra milanese. Visitatori, esperti d’arte e studiosi erano in visibilio. La storia del ritrovamento fu ripresa e comparve su almeno un centinaio di giornali, italiani e stranieri. Al proprietario arrivarono anche numerose proposte di acquisto a prezzi elevati, che Carlo Nola però declinò.
I primi dubbi
Le prime perplessità sull’opera appena ritrovata arrivarono alla fine di settembre. La Stampa del 29 di quel mese ne diede conto, presagendo “complicate polemiche”.
Ora altri esperti pubblicamente esprimono dubbi formali e sostanziali, ne discutono l’epoca oltre che la fattura, e tutto al più ammettono che la Madonna del gatto denoti elementi leonardeschi perchè estratto da pitture e disegni copiati da qualcuno che frequentava gli ambienti del Maestro (La Stampa, 29 settembre 1939).
La Madonna del gatto era forse un falso moderno? Le discussioni si fecero più accese. Qualcuno arrivò a contestare la stessa presenza di un gatto, “animale perfido”, in gloria insieme alla Vergine, accostamento che un pittore cristiano non avrebbe mai realizzato (in realtà, la presenza di questi felini nell’arte sacra non è poi così anomala). Stampa Sera, nella sua edizione del 3 ottobre, pubblicò un editoriale di un certo “Ipsissimus” che invitava a piantarla con tutte quelle polemiche:
A me siffatte discussioni sono sempre parse superflue. Un quadro è bello o brutto. Nel primo caso, mi pare si possa apprezzarlo anche se un grande pittore non l’ha eseguito; nell’altro, che lo si possa mandare in solaio anche se un grandissimo vi ha messo le mani (La Stampa, 3 ottobre 1939).
Colpito dai dubbi, il sovrintendente alle Belle Arti di Milano, professor Pacchioni, sottopose il caso al Ministero dell’educazione nazionale, che dispose che il dipinto fosse sottoposto a ulteriori analisi. Il 9 ottobre il quadro fu imballato e portato via dalla mostra (La Stampa, 11 ottobre 1939).
Il gatto torna in solaio
L’ordine del Ministero fu una doccia fredda per gli organizzatori dell’esposizione: era la dimostrazione che quell’opera forse non era davvero di Leonardo. L’annuncio, inevitabilmente, provocò una serie di strascichi polemici sulla facilità con cui gli “esperti” avevano gridato alla grande scoperta.
In un articolo intitolato “I capolavori immaginari”, il critico piemontese Marziano Bernardi bacchettò l’avventatezza dei suoi colleghi che avevano autenticato il quadro:
Tutto ciò, come ognuno può giudicare, è molto grave. Non si tratta, questa volta, d’uno dei consueti problemi critici dibattuti da studiosi specializzati in un campo strettamente culturale. Aprendo le sale della Mostra ad un dipinto balzato di colpo alla celebrità […] si è creata una situazione che autorizzerebbe a formulare parecchie domande: prima fra tutte, se non sarebbe stato opportuno agire con maggior cautela. Non il dubbio sulla autenticità è da deplorare, che anzi, in simili occasioni, non si dubita mai abbastanza. Da deplorare invece è, oltre – diciamolo pure – la precipitazione seguita nel caso presente, questo dilagante abuso di scoperte e di attribuzioni di capolavori rinvenuti nei solai e nelle capanne, sottoposti ai soliti «esperti», battezzati coi nomi più famosi, gettati poi il più delle volte sul mercato antiquario come un’appetitosa esca ai fiduciosi disposti ad abboccare. Ma questa volta, ripetiamo, il caso è più delicato perché, esulando da una grossolana manovra mercantile, ha interessato una manifestazione di interesse internazionale. (La Stampa, 11 ottobre 1939)
La Madonna del gatto aveva fatto fare una pessima figura agli esperti d’arte, e tutto sulla base di un dipinto che probabilmente non era neppure mai stato dipinto. Di questo, Bernardi sembrava convinto: citava, a favore della sua ipotesi, la diversità tra i tanti schizzi leonardeschi sul quel soggetto, che denunciavano un’idea ancora acerba e presto abbandonata.
Ad ogni modo, il critico torinese si augurava che la vicenda fosse da monito per frenare i “troppo facili entusiasmi” dei numerosi “scopritori di capolavori”.
La soluzione del mistero
Non sono noti i risultati della seconda perizia: secondo La Stampa dell’8 ottobre 1990 avevano confermato la paternità di Leonardo, ma, nonostante questo, il quadro fu restituito a Carlo Nola e scomparve dalla scena pubblica. Passarono gli anni, ci fu una guerra mondiale di mezzo, la Guerra Fredda, il Sessantotto, gli anni di piombo. Alla Madonna del gatto non pensava più nessuno.
Il dipinto rispuntò, improvvisamente, nel 1990 nell’atelier di un pittore torinese. E anche il mistero del suo autore trovò la sua soluzione proprio a Torino.
Il 3 ottobre 1990 moriva per un ictus cerebrale l’artista Cesare Tubino. Era nato a Genova nel 1899; aveva studiato prima nella sua città e poi a Firenze, approdando in seguito a Torino, dove aveva vissuto tutta la vita. Nel capoluogo, però si era anche specializzato nella tecnica dell’imitazione: non semplici copie di opere già note, ma dipinti realizzati alla maniera di grandi artisti.
Su di lui, il già citato Marziano Bernardi nl 1960 scrisse:
Volete vedere, così come niente fosse, un profilo femminile del Pollaiuolo, una Madonna di Dirk Boutz, una Venere di Luca Cranach, tre quadri che, a dir poco, passano il mezzo miliardo? […] I tre capolavori però non sono in vendita. Sono di proprietà del pittore Cesare Tubino che se li tiene carissimi per un semplice motivo: perché li ha dipinti lui, e onestamente lo dichiara, e aggiunge anche che da antiquari e collezionisti ha avuto offerte favolose. (La Stampa, 9 gennaio 1960)
Un onesto, ottimo imitatore, non un falsario, almeno in questa parte della sua vita (le cronache menzionano una vertenza che coinvolse Tubino nel 1941, intentata da un acquirente che voleva indietro i soldi per un falso Lawrence).
Nel suo atelier in via Medici, nella zona nord della città, gli eredi trovarono la Madonna del gatto, scomparsa da decenni. Con lei il testamento, dove il pittore confessava:
L’ho dipinta io. Se mai doveste venderla, mi raccomando: con la mia firma… Leonardo da Vinci non c’entra proprio nulla. (La Stampa, 8 ottobre 1990)
Dopo averla realizzata, Tubino aveva sottoposto la tavola a un processo di invecchiamento artificiale, portandola da una temperatura di -20 gradi a una di 30-40: e così, ecco che era apparsa la craquelure, la trama di screpolature tipica delle opere antiche, o pseudo-tali.
Poi aveva chiesto a un amico, Carlo Nola, di portare il quadro a Milano nella speranza che qualcuno potesse abboccare. E così era stato.
Scherzo, volontà di sfidare i “professoroni” dell’arte, voglia di vedere quanto erano verosimili le sue imitazioni? Probabilmente tutto questo, ma anche un certo desiderio
di rivalsa nei confronti del regime che a lui, mazziniano di sentimenti antifascisti, senza “tessera del pane”, aveva troppo spesso precluso la strada delle grandi mostre. […] Nella sua cassaforte, accanto al testamento e alle foto del figlio Libero, fucilato dai fascisti nel ‘43 e medaglia d’oro della Resistenza, c’erano centinaia di ritagli di giornali del ‘39, italiani e stranieri, che magnificavano “l’eccezionale ritrovamento” (L’Unità, 9 ottobre 1990)
Queste motivazioni furono confermate qualche giorno dopo, quando dalle carte del pittore spuntò fuori un suo scritto che ripercorreva le vicende dell’epoca, le angherie subite dai colleghi e la decisione di non rivelare nulla nei decenni successivi al 1939: non voleva passare per falsario (Stampa Sera, 9 ottobre 1990).
Come le teste del Modigliani…
Quando uscì la storia del ritrovamento, per la verità, i giornali calcarono un po’ la mano: Stampa Sera dell’8 ottobre 1990, ad esempio, parlava di “mondo dell’arte scosso dalla notizia”. Si trattava certamente di un’esagerazione: perizie di comodo a parte, la Madonna del gatto era ormai considerata universalmente un abbaglio, e se nessuno in quegli anni l’aveva cercata era proprio perché la sua falsità era data per scontata. Lo spiegò al quotidiano torinese anche Carlo Pedretti, dell’Università di Los Angeles, uno dei massimi studiosi di Leonardo da Vinci:
Si sapeva da tempo […] che la “Madonna del gatto”, esposta alla Triennale di Milano nel 1939, era un falso. Tanto che già allora Carlo Ludovico Ragghiami aveva sconfessato l’attribuzione. Bisogna dire, come nel caso dei Modigliani di Livorno, che in alcuni frangenti anche gli studiosi più accreditati possono sbagliare. È necessario avvicinarsi e analizzare le opere con molta attenzione, con umiltà. (Stampa Sera, 8 ottobre 1990)
Dai giornali del 1990 si coglie un certo fastidio da parte dei critici d’arte, per il riemergere di quell’antica débâcle. Alcuni scrissero, in sostanza, che nessun vero studioso ci aveva mai veramente creduto (La Stampa, 9 ottobre 1990), ma i periodici dell’epoca ci restituiscono un quadro abbastanza diverso.
In tanti, d’altra parte, anche oggi ricordiamo la vicenda delle teste di Modigliani, ripescate dal Fosso Reale di Livorno nel 1984 e attribuite al grande pittore (in realtà, si trattava di uno scherzo di tre giovani del posto). Altre beffe del mondo dell’arte sono meno note, almeno in Italia. Nel 1947, Han van Meegeren, pittore e commerciante d’arte olandese, finì sotto processo per collaborazionismo con gli occupanti nazisti: era accusato di aver fatto finire tra le mani di Hermann Göring, il capo dell’aviazione militare del Terzo Reich, un preziosissimo quadro nientemeno che di Jan Vermeer. Dimostrò invece che si trattava di un falso, dipinto alla maniera del pittore olandese, e che, in sostanza, aveva preso in giro il nemico.
La storia della Madonna del gatto conservata per decenni, di nascosto, a Torino, si inserisce proprio in questo filone: beffe eclatanti che hanno ingannato, almeno per un po’, anche i più esperti critici e storici dell’arte.
È quasi un peccato che la Madonna del gatto nascosta in via Medici, a Torino, non abbia la stessa notorietà delle “teste di Modigliani” toscane: un posto nella storia dei “falsi dell’arte” se l’è guadagnato senz’altro.
Immagine: Studio per la Madonna del gatto, Leonardo da Vinci, da Wikimedia Commons, pubblico dominio