Il mito delle penne-bomba nel Piemonte della Seconda guerra mondiale
Giandujotto scettico n° 121 di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo (08/09/2022)
Tempo fa l’archivista Elisa Tealdi ci ha mostrato la fotografia di un documento manoscritto che aveva scoperto nell’Archivio storico del comune di Venaria Reale, in provincia di Torino, in uno dei fascicoli relativi alla Protezione Antiaerea:
Città di Venaria Reale
Il Podestà rende noto che sono state rinvenute nel territorio di questo Comune matite esplosive lanciate da apparecchi nemici nell’ultima incursione aerea. Se ne rende edotta la popolazione, perché chiunque ne avesse a rintracciare dette matite od altri ordigni similari, si astenga dal toccarli e ne avverta subito il locale distaccamento dell’U.N.P.A. o il Comitato Comunale di Protezione Antiaerea (Municipio).
Venaria Reale, 25 giugno 1943 – XXI
È una circolare particolarmente interessante, perché documenta la diffusione, anche in Piemonte, di uno dei miti più longevi della Seconda guerra mondiale: quello delle matite e penne esplosive che – si diceva – venivano buttate dagli aerei nemici per colpire e mutilare i civili italiani.
L’idea, per la verità, non era nuova. Anche nella Prima guerra mondiale erano circolate storie di questo genere. Sopravvissero, e tornarono a circolare allo scoppio del nuovo conflitto. Quando nella primavera del 1943, con il rafforzarsi dell’offensiva alleata sull’Italia meridionale si diffuse il terrore, la voce era già disponibile, e a metà aprile partì una campagna di utilizzo da parte delle autorità a fini di propaganda. Coinvolse alcuni dei maggiori media del tempo, tra cui l’Istituto Luce, che produceva i cinegiornali, e l’agenzia Stefani (quella che poi nella seconda metà del 1944 sarebbe diventata l’Ansa, dopo la liberazione di Roma). Vediamone qualche esempio tratto dalla cronaca della nostra regione.
Le “penne esplosive”: due esempi dalla stampa piemontese
Il 1° gennaio del 1943, i lettori de La Stampa e di molti altri quotidiani trovarono un avviso minaccioso. Il testo era sempre lo stesso, con i nomi della località cambiati in funzione dei luoghi di pubblicazione dei giornali:
Attenzione a un nuovo ordigno che lancia la RAF. – Tra i vari ordigni offensivi che il nemico lascia cadere, ve ne sono taluni aventi forma e peso di una normale matita tascabile, di metallo, contenente una piccola carica esplosiva che può produrre a breve distanza ferite anche di una certa gravità. Torinesi, fate attenzione. Scorgendo tali ordigni, evitateli, tenetevi lontani da essi, segnalateli al Comitato di protezione antiaerea o all’Unpa del gruppo rionale, o alla più vicina sezione dei Vigili Urbani i quali penseranno a farli rimuovere.
L’Italia era in guerra da due anni e mezzo. Eppure, in precedenza (con un solo episodio risalente al luglio 1941, e relativo non a bombardamenti aerei sul territorio metropolitano, ma al fronte libico), le “penne esplosive” della Prima guerra mondiale non si erano ancora fatte vedere.
Il punto è che, da allora, tutto era cambiato. Dall’ottobre del 1942 i centri industriali dell’Italia del nord avevano cominciato a sperimentare sul serio la violenza delle prime, grandi incursioni aeree su vasta scala. Fra il 22 ottobre e il 12 dicembre la capitale piemontese aveva subito un primo, intenso ciclo di bombardamenti. In quei due mesi più di un terzo degli abitanti della città la abbandonò, rifugiandosi in campagna e nei paesini più modesti. Fu in quel clima che fecero la loro ricomparsa le storie sulle penne-bomba della Grande guerra.
L’uso di piccoli spezzoni incendiari e il ritrovamento di inneschi e spolette di bombe di ogni tipo utilizzati dalla RAF fu molto probabilmente la base reale sulla quale fiorirono le leggende terribili sulla slealtà degli aviatori inglesi. Per propaganda, per prudenza, magari anche per convinzione condivisa, le autorità e gli organi di stampa non esitarono a rilanciare e a rafforzare i racconti.
Niente di meglio di una fonte piemontese del tempo, La Gazzetta del Lago di Verbania del 26 maggio 1943, per rendersi conto dei toni che rapidamente assunse la vicenda delle “penne” (e di mille altri oggetti sganciati, peraltro):
Bimbi, non toccate gli ordigni infernali dei “gangsters” volanti – I nostri nemici combattono una guerra sleale che li copre e li coprirà di infamia nei secoli. I nostri nemici fanno la guerra ai bambini, alle donne, ai vecchi. Briganti nello spirito e nelle opere, i nostri nemici si illudono, così, di deprimere, di fiaccare, di abbattere il morale del popolo italiano, di debilitarne la splendida resistenza. Ottengono – e lo sanno – l’effetto contrario, rendendo più acuto e più inesorabile in nostro odio, più implacabile, per quando verrà l’ora, la nostra vendetta. […] I giornali hanno pubblicato qualche fotografia dei poveri innocenti, straziati dal freddo, premeditato, calcolato terrorismo nemico. Bimbi che hanno perduto l’uso di una o delle due mani, che hanno avuto la vista offesa e le tenere carni aperte da gravi ferite. Falsi orologi, false penne stilografiche, false lampadine tascabili, falsi portafogli, ripieni di cariche esplosive, sono piovuti e seguitano a piovere dagli apparecchi nemici sulle vie delle città e dei paesi, sulle aperte campagne. L’insidia, la più bassa, la più vergognosa delle insidie è stata diffusa ovunque. È stata diffusa dai “gangsters” volanti, che al posto del cuore hanno un sasso o una bottiglia di wisky. (sic) […]
Le penne esplosive, cos’erano davvero?
Oggi disponiamo di un punto di riferimento documentario abbastanza solido al quale agganciarsi per capire in che modo s’innescò la leggenda. Lo ha spiegato lo storico militare Carlo Alfredo Clerici nel numero di marzo 1996 di Storia e battaglie (“Le penne esplosive tra realtà e propaganda”, pp. 38-45).
Il 17 dicembre 1942, con circolare riservata n. 280 della Divisione Affari Riservati della Direzione Generale Servizi Protezione Antiaerea del Ministero degli Interni, inviata a tutti i Prefetti del Regno, si riportavano le prime segnalazioni di un ordigno
“avente forma e peso di una normale matita tascabile, di metallo, contenente una piccola carica esplosiva, sufficiente per frantumare l’involucro e imprimere alle schegge una forza sufficiente per produrre a breve distanza ferite anche di una certa gravità”.
Queste frasi non sono altro che la sostanza del dispaccio d’agenzia Stefani che comparirà sui quotidiani italiani quindici giorni dopo, cioè al Capodanno del 1943.
Ma la scoperta che più colpisce è un’altra. Clerici spiega che altri documenti di poco successivi a quella circolare, provenienti dalla stessa fonte (ossia dalla Direzione della Protezione Antiaerea), dopo aver spiegato che le notizie di lanci delle presunte matite esplosive erano giunte dalla Francia, smentivano che si trattasse di finte penne o matite:
Si tratta in realtà di congegni di ritardo, comunemente impiegati per azioni di sabotaggio ma inutili e inadatti per azioni di bombardamento.
Ancora nel suo articolo, Carlo Clerici mostra lo schema di uno dei modelli di pencil americane di questo genere, così chiamate per la superficiale somiglianza con gli attrezzi per la scrittura, ma non concepiti per trarre in inganno chi le vedesse… Piovere dal cielo.
Più di recente, nel volume curato da Paolo Ferrari, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Udine, L’aeronautica italiana: una storia del Novecento (Franco Angeli, 2004, pp. 231-234), il folklorista Cesare Bermani ha ricostruito varie dicerie relative ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale e, fra queste, anche quelle relative alle “penne”, con particolare riguardo all’Italia del nord e al periodo repubblichino. Anche per lui la natura fantastica delle voci è certa, anche se, come si accennava sopra, fondelli di spezzoni e spolette di bombe, insieme alla pubblicazione della parte più allarmistica della circolare del 17 dicembre 1942, fornirono senz’altro una base “concreta” sulla quale le fantasie si svilupparono.
Anche in questo forum relativo proprio alla storia torinese si ricorda come la nostra diceria fosse facilmente confermata dall’uso di spolette esplosive a tempo, la cui forma poteva ricordare penne e matite. D’altro canto, come ha documentato lo storico polacco Filip Graliński, proprio mentre la storia si diffondeva in Italia voci analoghe, sostenute dalle autorità di occupazione tedesche, comparivano in massa sulla stampa di quel Paese, strettamente controllata dai nazisti.
Fu appunto nei primi mesi del 1943 che, in Piemonte come nel resto dell’Italia, la frequenza di queste notizie andò moltiplicandosi.
La prima ondata delle penne esplosive
Man mano che le sconfitte si accumulavano, le penne-bomba diventavano un’ossessione della propaganda fascista. Le vediamo moltiplicarsi sul serio a partire dalla seconda metà di marzo del 1943, cioè mentre in Tunisia le forze italo-tedesche combattevano le ultime battaglie di retroguardia e ormai cominciava a delinearsi chiara la prospettiva di un’invasione del Paese con uno sbarco anfibio.
Come prevedibile, la minaccia paventata era quella verso i bambini. Se ne parla in questi termini per un bombardamento su Afragola e Caserta (La Stampa, 24 marzo 1943) e poi per uno su Castelvetrano, nel Trapanese (Corriere della Sera e La Stampa, 17 aprile 1943, sulla base di un dispaccio dell’agenzia di stampa semiufficiale, la Stefani). La stampa alleata invece irrideva la storia (dispaccio Associated Press del 24 aprile) e, anzi, denunciava che Radio Roma, nel tentativo di suscitare l’odio degli italiani, incitava la popolazione a giustiziare sul posto gli equipaggi degli aerei alleati abbattuti.
Fu proprio da quel momento che la campagna propagandistica italiana prese davvero il via. Il 28 aprile la Stefani rese pubblico un caso di ferimento di bambini a Santo Stefano d’Aspromonte (Reggio Calabria); il 30, sui giornali apparve una telefoto di una delle “penne”, opera dell’Istituto Luce, perché tutti prestassero attenzione alla minaccia.
Il 2 maggio il Tevere, quotidiano fascista fra i più estremisti, diretto dal razzista Telesio Interlandi (1894-1965) – responsabile anche de La Difesa della razza – faceva suo l’appello a giustiziare i “gangster dell’aria” che ormai conducevano la guerra in maniera così barbara contro la civiltà europea. Appena quarantott’ore dopo, insieme alle cronache di un devastante attacco aereo su Grosseto, i giornali riproducevano in prima pagina un’altra telefoto Luce: quella di uno dei bambini feriti in Calabria dalle “penne stilografiche esplosive”, fatte apposta per attirare la curiosità dei più piccoli. Il Tevere adottava tutti i toni più feroci del linguaggio fascista:
L’invenzione della stilografica esplosiva è tipicamente americana; vi è il gusto della produzione in serie; la predilezione per gli oggettini fragili; la grossolana furbizia del mercante che specula sulla semplicità della clientela; infine la terribile attitudine al delitto, la ferocia impassibile dei gangster americani.
In questo modo, l’accusa contro la “penna da due lire” diventava un giudizio su un intero mondo, quello decadente della democrazia, del commercio, delle libertà. Il mondo americano produceva non solo oggettini brutti, ma anche mortali; e lo faceva con una tecnica pianificata, scientifica (la parola “scienza” ricorre spesso, nelle storie delle penne esplosive): quella del Paese dei gangsters. Quei gangsters che, dal pilotare le macchine di grossa cilindrata della Chicago anni Venti, erano passati direttamente ai comandi delle fortezze volanti che scaricavano matite-bomba sui balilla italiani.
Nel restante mese di maggio la campagna raggiunse il culmine della sua virulenza: un “ciondolo esplosivo” aveva sfracellato un ragazzo a Falciano di Carinola (Caserta) (La Stampa, 8 maggio 1943); penne stilografiche, matite e orologi in similoro ancora nel Reggino (La Stampa, 15 maggio); matite a Messina (La Stampa, 17 maggio).
Su Civitavecchia, invece, dalle stive dei bombardieri era piovuto un intero supermercato: penne, matite, orologi, rossetto per le labbra, lampade tascabili, sigari, temperini, scatole di brillantina, astucci di pillole per la tosse marca “Flaubert”, temperini, bombolette… Tutto imbottito di esplosivo! (Corriere della Sera e La Stampa, 18 maggio).
Notizie simili arrivavano dalla Germania: su Kiel erano cadute bambole esplosive (La Stampa, 20 maggio). La stampa britannica era, più che indignata, allibita: quello che la propaganda dell’Italia morente aveva adottato era ormai uno strange course, un atteggiamento bizzarro. E la cosa era comprensibile: il 13 maggio 1943 le forze italo-tedesche in Tunisia si erano arrese; 240.000 uomini erano stati presi prigionieri, i dirigenti del regime erano ormai spariti dalla scena pubblica, e da lì a meno di due mesi sarebbe iniziata l’invasione dell’Italia meridionale.
Il 30 maggio, nel riferire di un ancor più pesante bombardamento su Livorno avvenuto due giorni prima (circa 300 morti e un migliaio di feriti), La Stampa si spingeva a spiegare come erano fatte le sigarette-bomba americane:
[…] portano sulla carta questa subdola scritta: “Carta sopraffina di Bologna”. Le sigarette hanno un bocchino azzurro e rosso, ma al posto del tabacco è facilmente visibile una materia, pure rossa, che tradisce la presenza dell’esplosivo.
Insomma: come in altre leggende contemporanee e cospirazioni segrete, ecco la rivelazione di un “segnale” che permetteva di disinnescare il complotto – e senza grossi sforzi.
Al vertice, sta l’elemento più pietoso fra tutti: l’ostentazione voyeuristica degli effetti delle “penne” sui bambini feriti – vittime in realtà, probabilmente, delle numerose schegge prodotte dalle bombe. Ecco la copertina di uno dei maggiori settimanali del tempo, L’Illustrazione italiana del 9 maggio 1943, con il più famoso di questi protagonisti: il piccolo Francesco, di Reggio Calabria, tenuto in braccio per la macchina fotografica da un’infermiera sorridente.
La seconda ondata delle “penne”: la Repubblica sociale
Con la nascita della Repubblica Sociale e con l’inizio della guerra civile, l’acuirsi delle violenze quotidiane e la crescente incertezza generale fecero ricomparire la leggenda delle matite anti-bimbi.
Fuori dal Piemonte se ne parlò per il grave bombardamento di Firenze del 1° maggio 1944 (La Stampa, 2 maggio), per Udine (Corriere della Sera, 18 maggio 1944, La Stampa, 29 maggio 1944) e Lagosanto, in provincia di Ferrara (Corriere della Sera, 20 marzo 1945). C’era anche un documento datato 1° marzo 1945, leggibile qui e redatto dall’Unione Provinciale di Protezione Antiaerea per Savona, che denunciava un lancio di matite su un comune della provincia, il mese precedente.
In Piemonte, troviamo due episodi menzionati da La Stampa. Il primo è un presunto lancio di penne sull’Astigiano il 16 maggio del 1944. Per il quotidiano del giorno successivo:
Dopo che una formazione di velivoli nord-americani aveva sorvolato la zona di Asti, il piccolo Maggiorino […], di 6 anni, da Valleronie, rinveniva in una vigna una penna stilografica. Preso da naturale curiosità il bimbo si impadroniva dell’oggetto che gli esplodeva tra le mani causandogli gravi ferite agli arti superiori e agli occhi, per cui i sanitari si riservano la prognosi.
Tre giorni dopo, il 19 maggio, il quotidiano torinese riferiva un altro episodio, ancora più incredibile. Le camicie nere della 1° Legione d’assalto “Tagliamento” erano da circa un mese impegnate nella zona di Vercelli, in operazioni contro i “banditi che si annidavano sui picchi dominanti il Sesia e il Sessera” (in altre parole, i partigiani). Durante i rastrellamenti i soldati repubblichini avevano ucciso 68 “ribelli” e fatto 38 prigionieri; ma soprattutto avevano sequestrato fucili automatici inglesi, pistole, moschetti, bombe a mano, munizioni e
oltre 3 quintali di esplosivi (mine, matite, penne stilografiche e persino scatole di sardine esplosive).
Se per le matite esplosive si può pensare ai già citati congegni a tempo per azioni di sabotaggio, le scatole di sardine esplosive sfuggono a ogni tentativo di interpretazione.
L’ultimo episodio a noi noto riguarda Milano. Il Corriere della Sera del 13 aprile 1945, ormai a tre settimane dalla resa delle forze tedesche in Italia, snocciolava il consueto elenco di accendini, rossetti, sigarette, penne, matite.
Dopo la guerra: sensi nuovi per una lunga storia
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, le penne esplosive non scomparvero con la fine della Seconda guerra mondiale. Le ragioni sono sostanzialmente due. La prima è che purtroppo, anche dopo la fine del conflitto, molte persone continuarono a rimanere uccise o mutilate dagli innumerevoli ordigni abbandonati sul campo, oppure lanciati e inesplosi. Le penne-ordigno, ormai radicate nell’immaginario collettivo, potevano quindi essere chiamate in causa per giustificare incidenti o per descrivere il ritrovamento di congegni vagamente somiglianti a matite.
Già a poche settimane dalla fine delle ostilità, ad esempio, a Trieste si era parlato del rinvenimento di stilografiche esplosive, “forse abbandonate da qualcuno che aveva voluto disfarsene” (La Stampa, 20 maggio 1945). Il 5 gennaio 1946, invece, fu il Corriere della Sera a chiamarle in causa: in un edificio milanese in cui aveva avuto sede un “ufficio dell’aeronautica della Repubblica sociale”, la Questura aveva rinvenuto un esemplare di penna esplosiva e una con la punta avvelenata, probabilmente destinate a essere lanciate sulla parte di Italia già liberata dagli eserciti alleati. Il che appare quantomeno curioso: non erano gli altri, i gangster americani senza scrupoli, a usare mezzi del genere contro il popolo italiano? Lo stesso racconto usato dall’Asse, insomma, si ritorceva ora contro i suoi sopravvissuti…
La seconda ragione per cui le penne esplosive fecero fatica a scomparire, è che il mito del loro utilizzo venne attribuito, in momenti diversi, a gruppi neofascisti, eversivi o terroristici. Un esempio è l’allarme registrato, sempre a Milano, nel 1947. L’11 settembre, La Stampa riferì che si stava ricercando “una signora alta, bruna, certamente straniera” che su un tram aveva lasciato cadere una stilografica che, raccolta da uomo, si era rivelata, all’esame della direzione di artiglieria, “una comune penna esplosiva”.
La maggior parte delle cronache post-belliche che menzionano le penne esplosive ricade in questi due filoni (con il primo, quello dei residuati bellici alleati, a farla da padrone). A fine settembre 1947 a farne la scoperta fu un contadino di Erba, nel Comasco (La Stampa, 1° ottobre 1947); nel tardo autunno del 1949, in due episodi distinti, due fratellini valdostani – si diceva – rimasero feriti, uno da una penna esplosiva, l’altro, da… un orologio esploso (La Stampa, 13 dicembre 1949). Altri scoppi attribuiti a “matite” e penne si registrarono a Palazzuolo sul Senio, in provincia di Firenze (La Stampa, 1° febbraio 1950), a Siena (La Stampa, 18 agosto 1954), nel Pescarese (La Stampa, 28 agosto 1955), a Catania (La Stampa, 26 aprile 1966).
In questi casi, la paternità delle presunte armi subdole non era più attribuita a nessuno, oppure lo era in modo vago: si trattava o di ordigni “lanciati durante i bombardamenti del 1944”, oppure di “quelle che durante l’ultimo conflitto erano lanciate dagli aerei nemici” – dove per “nemici” si intendevano ovviamente britannici e americani, ma senza menzionarli esplicitamente, ora che erano alleati.
Il Piemonte non restò indenne da questi episodi. Il 23 febbraio del 1957, nella cronaca torinese de La Stampa apparve la notizia secondo la quale un giardiniere comunale ventisettenne era rimasto ferito dallo scoppio di un ordigno mentre zappava nel parco di Cavoretto, quartiere collinare della città. Senza nessun’altra spiegazione, il trafiletto sosteneva che la causa dell’incidente era da attribuirsi “probabilmente a una matita esplosiva”. Chi, e come avesse tratto quella conclusione, non era dato sapersi.
La versione Fenoglio
Per illustrare meglio che cosa albergasse nella mente di parecchi italiani anche molti anni dopo la fine della tragedia bellica, ci viene in soccorso la letteratura.
Nel racconto “Lo scambio di prigionieri” di Beppe Fenoglio, oggi contenuto nella raccolta L’affare dell’anima (Einaudi, 1978) tre partigiani trasportano un prigioniero fascista sulle colline delle Langhe cuneesi per scambiarlo con un loro compagno. Questa la scena:
Quel prigioniero cominciò a piangere a mani giunte e a dire “no, no, no”.
“Che gli prende?“ domando io e Orlando mi spiega che faceva così a ogni fermata, perché a ogni fermata credeva di essere arrivato al posto della sua fucilazione.
“Ma non gli avete detto che lo portate a scambiare?” e Orlando “Detto e ridetto, ma non ci crede”.
Intanto ci eravamo avviati e il prigioniero continuava a piangere e supplicare e allora Miguel gli disse “Adesso piantala. Ma credi sul serio che se volessimo fucilarti faremmo fare a te e a noi una simile sgambata?”
Andavamo verso Neviglie. Camminavamo senza sforzarci sia perché avevamo molto tempo davanti sia perché il prigioniero per essere bendato logicamente non abbondava col passo. Dopo cinque o sei chilometri ci fermammo per accendere le sigarette e quello tornò a belare.
“Non ricominciare”, gli dissi, “piuttosto apri la bocca”. Avevo acceso anche per lui.
“No, no, no!“ grida e poi serra la bocca più che può.
“Non fare storie, aprila. Voglio solo ficcarci una sigaretta. Tu fumi, no?“
“Fumo sì, ma ho paura”.
“Paura di che?“
“Ho paura”, mi risponde, “ho paura che tu mi cacci in bocca una matita esplosiva”. “Disgraziato!“ gli dico, ma non insisto. Lui allenta, io colgo il momento buono e gli premo una sigaretta fra i denti. “Tira e dimmi se è una sigaretta esplosiva”. Tirò una boccata, un’altra. “Dì almeno grazie”.
“Grazie, grazie mille”, fa lui, ed io “Va’ là che sei un bel disgraziato”.
Attraverso la paura del prigioniero, Fenoglio irrideva una propaganda che stravolgeva la realtà, e di cui tutto sommato era vittima anche quel disgraziato repubblichino.
E non solo lui. I discorsi autovittimizzanti della stampa fascista in merito alle penne esplosive avevano tratti sottili, dai molteplici risvolti. A ben vedere, non si trattava soltanto di essere uccisi in modo subdolo, sleale, dai “gangsters dell’aria” americani, ma anche di dover ammettere la miseria in cui il Paese era caduto.
I bambini italiani raccoglievano matite, penne, giocattoli, perché ne avevano bisogno. Gli uomini anelavano al fumo da sigaretta, agli accendini, ai sigari, perché il tabacco di buona qualità, piccola pausa nell’orrore quotidiano, era difficile da trovare, in un Paese condotto alla catastrofe dal fascismo. L’Italia era al suo anno zero. Era il momento ideale perché leggende come quella delle stilografiche-bomba tornassero a diffondersi.