Il trillo del diavolo: “Mio cuggino”
Alzi la mano chi non ha mai sentito dire “Mio cugino mi ha detto che una volta…”, oppure se è lui uno dei fortunati ad avere il parente che, dopo la premessa, si lancia nella descrizione di mirabolanti quanto improbabili avvenimenti di cui è stato protagonista o testimone.
Di solito si tratta di storie che hanno dell’incredibile, quasi mai di prima mano e che si tramandano di bocca in bocca, spesso arricchendosi di particolari: sono le famose leggende metropolitane. Negli ultimi decenni l’esplosione dei social network ne ha permesso la circolazione su piattaforme digitali che ne hanno velocizzato la diffusione, ma anche la smentita (il famoso debunking). Agli albori della diffusione di internet, intorno a metà anni ’90, erano le mail e le liste di discussione i protagonisti indiscussi. Prima ancora c’era il passaparola.
È in questo clima culturale che irrompono gli Elio e Le Storie Tese, band milanese di virtuosi strumentisti e abili autori di testi tra il demenziale, il dissacrante e il politicamente scorretto, cresciuti nell’underground meneghino dei primi anni ’80 per poi esplodere alla fine del decennio. Ma chi non li conosce, al giorno d’oggi? Beh, per i pochi che ancora non si sanno orientare bene, ecco un paio di link di Ondarock.it e Rock.it per colmare questa lacuna.
Dopo aver dato alle stampe tre album dal crescente successo nonostante titoli improponibili in cingalese o turco (“abbiamo sempre fatto titoli semplici perché aiuta a vendere dischi”, afferma Elio in un’intervista ), il gruppo pubblica il disco Eat the phikis, che contiene un brano dal titolo inequivocabile: Mio cuggino.
Si parte subito forte:
Mi ha detto mio cuggino che una volta si è schiantato con la moto,
mio cuggino, mio cuggino.
Mi ha detto mio cuggino che poi si è tolto il casco e si è aperta la testa,
mio cuggino, mio cuggino.
Mio cuggino si è tolto il casco, mio cuggino si è aperta la testa.
Una leggenda che periodicamente riaffiora è quella del motociclista che, in seguito a un incidente, batte la testa sull’asfalto, sul marciapiedi o sul guardrail. Per fortuna indossa il casco, che previene una morte immediata. Quando qualcuno si avvicina al malcapitato per soccorrerlo, il motociclista afferma di stare bene, e nel dirlo si sfila il casco. A questo punto, tra l’orrore degli astanti, la scatola cranica si apre in due e lo sfortunato centauro muore sul colpo.
Questa storia è un evergreen che pare circoli fin dalla Seconda guerra mondiale, quando il protagonista non era un motociclista ma un soldato. Quale può essere il suo significato, oltre a una buona dose di narrazione splatter? Forse un ammonimento al fatto che nonostante le precauzioni, viaggiare in sella alle due ruote sia pericoloso, e che in generale nella vita non si può mai dire?
Una cosa va però ricordata: nel caso si assista a un incidente è importante soccorrere il ferito e accertarsi che non abbia problemi a respirare, quindi slacciare la fibbia del casco è importante. Fondamentale è anche ricordarsi che per sfilare il casco a chi ha avuto un incidente bisogna conoscere le giuste tecniche per evitare danni permanenti al rachide cervicale, per cui a meno di competenze specifiche o altri rischi più immediati è bene attendere l’arrivo dei soccorsi.
Mi ha detto mio cuggino che una volta ha trovato in spiaggia un cane
e invece era un topo,
mio cuggino, mio cuggino.
Negli anni ’80 e ’90 c’è stata un’esplosione del turismo su scala mondiale e mete prima appannaggio di pochi fortunati sono diventate accessibili a tutti. Anche luoghi lontani come i paesi del Sud America hanno visto l’arrivo di molti viaggiatori da ogni parte del globo. In questo contesto circola la storia, come sempre in tante varianti, della coppia che va in vacanza in Messico e sulla spiaggia vede un piccolo e amorevole cucciolo che sembra perso e in difficoltà. I due decidono quindi di portarlo a casa e allevarlo ma, quando dopo alcune settimane questo cresce, si rendono conto con orrore di aver adottato un grande e poco piacevole roditore!
L’insegnamento, più o meno conscio, che si può trovare nel “sottotraccia” di questa storia è che bisogna sempre dubitare delle apparenze, e c’è chi può approfittare della bontà altrui, ma è anche riflesso di come il diverso sia spesso temuto (e, come affermano alcuni sociologi, in tempi di crisi migratorie questo è un esempio che calza benissimo) e si senta il bisogno dell’autorità costituita (il veterinario che in qualche variante del racconto apre gli occhi all’incauta coppia) per ristabilire l’ordine.
Mi ha detto mio cuggino che una volta è stato co’una
che poi gli ha scritto sullo specchio benvenuto nell’AIDS,
mio cuggino, mio cuggino.
Poverino, mio cuggino benvenuto nell’AIDS –
mio cuggino topo cane, mio cuggino benvenuto nell’AIDS.
Oggi l’AIDS non è più sulla cresta dell’onda: abbiamo incontrato nuove pandemie e altri timori hanno scalato la classifica relegandolo in posizioni più lontane dalla vetta, tanto che tra i giovani c’è l’errata convinzione che questa malattia non sia più un problema. Tra chi è nato negli anni ’70 e ’80, invece, la paura di contrarre il virus era alta. La maggior parte delle infezioni avvenivano nella comunità dei tossicodipendenti, attraverso lo scambio di siringhe infette, o attraverso rapporti sessuali non protetti, e questo fece sì che dopo la grande “liberazione sessuale” degli anni ’60 e ’70 aumentasse il senso di insicurezza. Ogni partner, soprattutto se occasionale, poteva essere veicolo della mortale infezione.
Erano numerose le campagne di sensibilizzazione per i giovani: tra i quaranta/cinquantenni di oggi è ancora molto vivo il ricordo della Pubblicità Progresso in cui i sieropositivi erano indicati da un alone viola che li circondava. Ecco, quindi l’ammonimento insito nella storia che veniva raccontata: un giovane abborda una bella ragazza in discoteca, la serata prosegue in camera da letto, e al mattino, quando si sveglia, legge il macabro messaggio lasciato dalla partner di una notte, scritto col rossetto su uno specchio.
A onor del vero, la cronaca anche recente ci ha portato a conoscenza di persone, soprattutto uomini, che pur consapevoli della propria sieropositività hanno continuato ad avere rapporti non protetti con le proprie partner, infettandole, e in alcuni casi causandone la morte perché la diagnosi è arrivata a uno stadio troppo avanzato della malattia. Non c’è però traccia di orde di untori/untrici che abbiano contribuito alla diffusione della malattia. C’è da ricordare che, per quanto sia pericoloso, non è detto che necessariamente un rapporto non protetto con una persona sieropositiva porti a contagio sicuro (dallo 0,1% al 3% a seconda del tipo di rapporto), ma in ogni caso è meglio non giocare a questa roulette russa.
Mio cuggino, mio cuggino,
mio cuggino è rispettato, amico di tutti.
Mio cuggino ha fatto questo e quello,
mio cuggino mi protegge quando vengono a picchiammi
perché chiamo mio cuggino. Anzi: io chiamo a mio cuggino.
Questa non è propriamente una leggenda metropolitana, ma più una “nota di costume”. Oggi si parla molto di bullismo nelle scuole e in altri centri di aggregazione per ragazzi; nei favolosi anni ’80 e ’90, il fenomeno era presente ma molto più ignorato. E allora, per difendersi, qualcuno poteva ricorrere alle “abilità” di un fantomatico cugino, magari più grande di età o abituato a menare le mani. Non era così improbabile sentire un ragazzino subissato dire “Adesso chiamo mio cugino!”
Mi ha detto mio cuggino che una volta ha visto una senza reggipetto
Stghidin, sttghidin, stish stidun; aaah – mio cuggino mio cuggino.
Mi ha detto mio cuggino che una volta in discoteca ha conosciuto una tipa
che però poi non si ricorda più niente e alla fine si è svegliato in un fosso
tutto bagnato che gli mancava un rene,
mio cuggino mio cuggino.
La strofa si apre con quella che per gli adolescenti anni ’80 e ’90, senza l’accesso massiccio e incontrollato al porno di questi ultimi lustri, era una quasi leggenda metropolitana. Le cose si fanno più interessanti al verso successivo: una creepy story che veniva spesso raccontata nelle serate tra amici e conoscenti era quella, spacciata per assolutamente vera, dei ragazzi – sì, perché le vittime erano soprattutto uomini, perché considerati più facilmente ingannabili con offerte erotiche – abbordati in discoteca da ragazze bellissime.
I protagonisti della storia proseguivano la serata con la speranza di una notte di sesso, e poi invece si ritrovavano in un luogo sconosciuto senza un organo, di solito un rene (forse perché è uno dei pochi organi la cui asportazione permette di sopravvivere). Tralasciando il fatto che, per un’organizzazione dedita al traffico di organi, non sia conveniente lasciare in vita possibili testimoni, a molti sfugge la difficoltà di organizzare in poco tempo un espianto e un successivo trapianto, che per forza di cose va fatto entro un periodo limitato. Oltretutto, nella storia non si spiega come mai venga scelto proprio “quel” malcapitato: per valutare la compatibilità tra donatore e ricevente sono necessari esami specifici che certo non possono essere fatti nei bagni di una discoteca.
Anche ai giorni nostri si rincorrono voci di traffico di organi proveniente da vittime di una orribile tratta. Quanto c’è di vero? Sono state fatte alcune inchieste nel corso del tempo, senza riscontrare prove definitive a sostegno di questa tesi. Anzi, come affermato da diversi studiosi che hanno analizzato la questione, questi racconti probabilmente sono la versione moderna di narrazioni più antiche (come il vampirismo, le uccisioni rituali di bambini da parte degli ebrei, ma anche la più recente tratta delle bianche) che danno sfogo a paure diffuse nella società. Allo stesso tempo sono anche un modo per dare voce a conflitti più o meno latenti e denunciare lo sfruttamento dei Paesi poveri ad opera dell’Occidente opulento, l’asetticità e indifferenza della medicina moderna, oltre ad essere in qualche caso velate (si pensi alla “tratta delle bianche”) di una buona dose di razzismo.
Il CICAP si è occupato più volte in passato dell’argomento, in questo articolo di Stefano Bagnasco, con un approfondimento del 2016 sull’operazione Glauco 3 e in un’indagine su una leggenda di alcuni secoli fa.
Mi ha detto mio cuggino che sa un colpo segreto che se te lo dà
dopo tre giorni muori,
mio cuggino, mio cuggino.
Ecco un’altra grande leggenda metropolitana che ha infiammato la fantasia degli adolescenti degli anni ’80 e ’90. C’era chi affermava di conoscere un colpo, tramandato in discipline di combattimento orientali, che avrebbe provocato la morte in chi lo riceveva ma… a scoppio ritardato! Probabilmente l’origine è da attribuirsi al mondo dei film di arti marziali, ma anche e soprattutto alla serie animata che aveva per protagonista Ken Shiro. Eroe in un mondo postatomico, sempre in lotta coi malvagi per far trionfare il bene, conosceva le mosse tramandate dalla Divina Scuola di Hokuto, capaci di far letteralmente esplodere i nemici. Alcune di queste mosse prevedevano la pressione di punti specifici del corpo, attivando una sorta di “autodistruzione” che poteva avvenire nel giro di qualche secondo o di giorni.
C’è qualcosa di vero in tutto ciò? Soprattutto negli anni ’70, periodo d’oro per i film dedicati alle arti del combattimento, circolava una diceria sul “colpo mortale ritardato”, un colpo particolare che veniva insegnato a pochi iniziati: all’apparenza innocuo perché non causava conseguenze immediate, ma provocava la morte a distanza di giorni. Tra le vittime ci sarebbe stato Bruce Lee: il suo decesso, avvenuto durante le riprese di un film, sarebbe in realtà una punizione ordita dai monaci tibetani per aver fatto trapelare i segreti dell’arte del kung-fu. Un accenno a questa credenza è contenuto in un’intervista alla figlia di Bruce Lee apparsa su La lettura (supplemento de Il Corriere della sera) del 4 settembre 2022: anche lei ne conferma la totale infondatezza.
Mi ha detto mio cuggino che da bambino una volta è morto.
Altra leggenda metropolitana inquietante: a seguito di un malore o incidente, il malcapitato in questione viene considerato morto, ma a distanza di qualche minuto o addirittura giorni… Ritorna tra noi! La cronaca ogni tanto ci presenta casi del genere. Un esempio è quello del cantante dei Depeche Mode, Dave Gahan, che in seguito a un’overdose venne ricoverato d’urgenza: durante le operazioni di rianimazione il suo cuore si fermò per due minuti, tanto che successivamente un infermiere gli disse: “Eri morto”. In più di un’intervista dichiarò di avere avuto un’esperienza di pre-morte, vedendo se stesso dal di fuori e l’equipe medica al lavoro per salvargli la vita.
Questo tipo di fenomeni sono stati spesso indagati per capire se possano essere spiegati: le teorie più accreditate sostengono che visioni, sensazioni di benessere e serenità, suoni paradisiaci (ma quello di segno opposto, che lasciano un ricordo pauroso nei sopravvissuti) siano dovuti a una serie di processi biochimici che avvengono nel cervello quando questo è in grande sofferenza per traumi, mancanza di ossigeno e condizioni di lavoro estreme.
Le similitudini nelle descrizioni di queste esperienze, oltre a cause “fisiche”, possono anche essere ricondotte al fenomeno dei falsi ricordi che nascono nella mente di un soggetto a partire da racconti altrui ascoltati nel corso della vita. È indubbio che di queste tematiche si parli in toni molto sensazionalistici, per cui non è difficile che si possa essere inconsciamente condizionati. Per chi volesse approfondire, il CICAP ha dedicato diversi articoli al tema.
Ci sono casi in cui addirittura il protagonista viene dichiarato morto, salvo risvegliarsi nel mezzo del funerale o poco prima dell’autopsia. L’ultimo esempio in tal senso di cui si ha notizia è quello di una bambina messicana che, dichiarata morta, ha dato segni di vita durante il funerale, salvo poi morire durante il trasporto in ospedale. Come è possibile tutto ciò? Stati di catalessi profonda dovuti a sostanze inalate o ingerite, malattie, superficialità nei controlli e nell’applicazione delle procedure per la dichiarazione del decesso fanno sì che non solo in passato, ma anche oggi si verifichino rarissimi casi del genere. Nell’Ottocento non doveva essere così infrequente, se vi fu chi progettò la propria tomba con dei meccanismi per poter dare l’allarme in caso di risveglio tardivo.
La canzone si chiude con altre pennellate che delineano meglio la figura dell’improbabile cugino, sempre pronto a difendere i più deboli e regalare chicche di costume.
Mio cuggino mio cuggino, mio cuggino è ricercato, amico di tutti.
Mio cuggino ha fatto questo e quello.
Mio cuggino mi protegge quando vengono a picchiammi perché chiamo mio cuggino.
Anzi, sapete cosa vi dico: io chiamo a mio cuggino.
Mio cuggino, mio cuggino, mio cuggino è preoccupante e parla coi rutti: ‘Ciao, come va?’.
Mio cuggino ha fatto questo e quello, l’autoscontro e il calcinculo,
mio cuggino ‘o malamente: ma è un prodotto della mente.
Anzi: ha prodotto della menta, ma non era autorizzato, per cui l’hanno imprigionato. Ue’.
Sì d’accordo ‘free Mandela’, ‘free Valpreda’ e tutti gli altri, ma free anche mio cuggino.
Anzi: free anche a mio cuggino.
Na na nai, mio cuggino na na nai,
na na nai, mio cuggino na na nai.
Così si chiude questa canzone, piccolo ritmato bignami delle leggende metropolitane targato Elio e Le Storie Tese: leggendolo avete fatto il conto di quante ne conoscete, e quali invece mancano nella vostra “collezione personale”?
PS: Il divertente video che accompagnò l’uscita del pezzo vede la partecipazione di Aldo Baglio del trio “Aldo Giovanni e Giacomo”. Girato in bianco e nero, richiama il film di David Lynch Eraserhead. Alla fine della canzone Aldo chiude con un monologo nel quale racconta una storia assurda, con personaggi apparsi in altre leggende metropolitane: da vedere!
Ringrazio caldamente Sofia Lincos, Antonio Crisafulli e Giuseppe Stilo per la revisione e le indicazioni utili a completare la stesura dell’articolo. Immagine di copertina: Urban legends di Nick Youngson, licenza CC BY-SA 3.0, Pix4free.