Antologia dell'inconsueto

Gabriele D’Annunzio tra superstizioni e pensiero magico

Un temporale che scoppia al sopraggiungere della notte, il vento che ulula attraverso le imposte delle finestre, la pioggia battente che tintinna sonoramente sui vetri. Noi lettori siamo comodamente seduti su una morbida poltrona nel nostro salotto, e una luce calda illumina le pagine de “Il trionfo della morte” di Gabriele D’Annunzio. Ci troviamo a leggere, tra le altre cose, di un bimbo su cui viene praticato un esorcismo per liberarlo dall’influenza maligna di alcune streghe.

Il protagonista maschile della storia, il nobile Giorgio Aurispa, prova sempre più repulsione nei confronti delle superstizioni, del fanatismo religioso e della magia, non sopporta più di vivere immerso in un mondo in cui non si riconosce e non riesce a trovare una propria dimensione. L’idea del suicidio continua a perseguitarlo in modo ossessivo.

In fondo a questo tunnel oscuro vede, tuttavia, un barlume di speranza: trova rifugio nel misticismo religioso, nella spiritualità autentica, lontana dall’isterismo collettivo. Quando però assiste all’arrivo di una comitiva di pellegrini alla basilica di Santa Maria dei Miracoli a Casalbordino, nella provincia di Chieti, si trova davanti uno spettacolo degradante e macabro, come in una bolgia dantesca. Storpi, malati e disperati si prestano a ogni forma di umiliazione per ricevere una grazia o l’elemosina dei fedeli.

Questo episodio segna nell’animo di Giorgio una netta rottura sia con la sua terra d’origine sia con la religione. Si rivolge allora al suo maestro, Fredrich Nietzsche, per disfarsi di tutti i tormenti interiori e dominare le proprie passioni in modo vitale ed eroico, ma anche questo tentativo fallisce. L’aristocratico ripiomba, quindi, nel baratro del suicidio.

La compagna, Ippolita Sanzio, invece, sembra affascinata da questo universo magico e dall’atmosfera irrazionale che lo pervade, ma è come ipnotizzata dal carisma del suo uomo, un’attrazione fatale che la condurrà alla morte insieme a Giorgio (come da tradizione, Eros e Thanatos vanno a braccetto).

Ricordiamo – per inciso – che dal 2011 Casalbordino è capoluogo dell’Unione dei comuni dei miracoli. Si tratta di un ente dotato di personalità giuridica che comprende anche Scerni, Pollutri e Villalfonsina, retto da un presidente, un consiglio e dai sindaci dei centri aderenti.

Due anni prima, D’Annunzio aveva pubblicato dei racconti in sei volumi, dal titolo “Le novelle della Pescara”, in cui parla delle superstizioni e della credulità nella magia e nella stregoneria diffuse nella sua terra, l’Abruzzo. Dobbiamo tener presente che siamo alla fine dell’Ottocento e il livello di analfabetismo generale in Italia è molto alto. Secondo l’Istat “dieci anni dopo l’unificazione nazionale, erano analfabeti sette italiani su dieci”.

Il Vate d’Italia si comporta, in questo frangente, come una sorta di “microbiologo del popolo” (mi si passi l’espressione), o se preferite, si posiziona sulla stessa prospettiva di scrittori come Carlo Porta a Milano o Giuseppe Gioachino Belli a Roma: quest’ultimo descrive la plebe della prima metà dell’Ottocento lasciandole la parola, quasi eclissandosi tra i numerosi personaggi che, attraverso i loro spropositi e assurdità, raccontano quel piccolissimo universo di analfabeti tra complotti, credenze, superstizioni e istinti primordiali. E come tutti gli scrittori-antropologi, anche D’Annunzio attinge a delle fonti etnologiche per documentarsi. 

Sicuramente conosceva Antonio De Nino e le sue opere, come “Usi e costumi abruzzesi”, “Usi e fiabe”, “Sacre leggende”, “Malattie e rimedi”, “Usi, giuochi fanciulleschi”, che sono una serie di saggi pubblicati tra il 1879 e il 1897. Non possiamo non citare Giuseppe Mezzanotte, amico di D’Annunzio, al quale fu commissionato da Edoardo Scarfoglio un romanzo a puntate (andava di moda il “feuilleton” o “Romanzo d’appendice”) sul quotidiano “Il Mattino” dal titolo “La setta degli Spettri” (edito poi da D’Angelilli nel 1893).

Tra gli antropologi e gli storici del folclore degni di nota c’è anche Giovanni Pansa che i suoi “Saggio sul dialetto abruzzese” e, soprattutto, “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo”, pubblicato da Ubaldo Caroselli nel 1923. Quest’ultimo libro è quindi molto tardo rispetto alle principali opere dannunziane dedicate al mondo della magia e delle credenze popolari. 

Molto importante è, in particolare, la visione “scientifica” di Pansa (almeno per un uomo nato nel 1865) nell’analizzare il mito, le tradizioni divise per provincia e paese, da cui affiorano le leggende del mare e delle montagne, di streghe e malocchi, di mostri e santi patroni. Le sue ricerche sono corredate da un adeguato apparato bibliografico e note con una metodologia in linea con studiosi come l’etnologo Giuseppe Pitrè o l’antropologo e glottologo Gennaro Finamore.

Nelle “Novelle della Pescara”, D’Annunzio disegna un affresco popolare di un Abruzzo remoto con le sue tradizioni, superstizioni, credenze, modi di pensare e di agire, tipici di un piccolo universo arcaico. L’edizione di riferimento è quella curata da Annamaria Andreoli e Marina De Marco per “I Meridiani” di Mondadori.

Nella storia “La fattura”, inclusa nella sezione “Le novelle della Pescara 1884-1886”, viene presentato un personaggio conosciuto dall’intero contado come fosse un proverbio popolare, una figura della mitologia paesana di difficile collocazione temporale; una sorta di Padron ‘Ntoni dei Malavoglia di Verga. Si tratta di Mastro Peppe La Bravetta, proprietario di un podere sulla riva destra del fiume Pescara. Si racconta che, in occasione dell’uccisione di un maiale per una festa invernale, il protagonista incontra due “amici” che gli propongono un affare: invece di salare il maiale per conservarlo lo dovrà vendere (anche per andare contro la volontà della moglie che lo ha sempre tenuto sotto scacco). Peppe la Bravetta si rifiuta e i due furbastri pensano, quindi, di ingannarlo facendolo ubriacare, per poi fargli vendere il porco e prendersi i soldi. Il giorno successivo Peppe La Bravetta dà in escandescenze perché pensa che il maiale sia stato rubato e gli viene consigliato, dietro pagamento, di rivolgersi a una fattucchiera per scoprire il colpevole. Viene dileggiato ulteriormente da altri popolani della zona, che gli fanno ingerire dei falsi confetti preparati con il letame suscitando l’ilarità generale all’interno di un’osteria. Insomma, una cattiveria dietro l’altra trasforma il povero Peppe nello scemo del villaggio. La novella è una sorta di riscrittura del noto personaggio Calandrino di Giovanni Boccaccio nella novella “Calandrino e il porco” (sesto racconto dell’ottava giornata de «Il Decameron»).

Restando nella medesima sezione della raccolta, ci imbattiamo in due racconti collegati tra loro in cui il fanatismo religioso che sfocia nella violenza: “Gli idolatri” e “L’eroe”. Il primo è ambientato nel paese di Miglianico, in provincia di Chieti, e racconta della processione dei patroni di due confraternite: San Pantaleone e San Gonselvo. Come  in una sorta di palio tra santi, i due gruppi sono addirittura rivali. La processione, infatti, si trasforma in una vera e propria battaglia dove rimane gravemente ferito un certo Pallura della “squadra” di San Pantaleone. La confraternita colpita ordisce un complotto contro i nemici e organizza una spedizione punitiva, col santo in spalla, verso la chiesa di San Gonselvo ma i rivali, tra roncole e coltelli, vincono la battaglia. Nella novella “L’eroe”, invece, si celebra una festa in onore del santo vincitore con offerte votive e sacrifici da parte dei fedeli. 

Un personaggio chiamato “Ummalidò”, rimasto gravemente ferito a una mano negli scontri di alcuni giorni prima, compie l’estremo sacrificio in onore del proprio santo e con un coltellaccio si recide completamente la mano. Fanatismo, aberrazione umana e macabro si fondono per dare vita a queste scene che D’Annunzio (facendo parlare i personaggi in dialetto) scrive proprio per raccontare – facendo un po’ il verso a Verga – il lato primitivo e incolto del suo Abruzzo. Lo scrittore, tuttavia, non racconta soltanto del mondo povero e arcaico.

Nella sezione “Novelle e scritti narrativi sparsi (1884-1888)” è incluso un racconto intitolato “La profezia”, che si apre con la scena di un bambino allattato dalla nutrice. Siamo in un ambiente totalmente differente fatto di velluti, arredi eleganti e lussuosi. Ciononostante, l’irrazionale e le credenze magiche permangono ancora in taluni scritti, anche se adattate a un clima alto borghese o nobiliare. Mentre il neonato sugge il latte, la nonna lo osserva, senza proferire parola, e in chiusura di racconto “la nutrice s’è assopita su la sedia, respirando placida ed eguale. Il bambino è ancora estatico, con occhi dalla meraviglia resi maggiori. Ma la nonna scuote il capo e mormora: ‘I figlioli biondetti ed esangui, con gli occhi azzurri e smisurati, che vedono i dominii del Signore e odono le musiche degli Eletti, non vivranno, non vivranno!’”.

Il 27 luglio 1888 D’Annunzio pubblica sul giornale romano “La Tribuna” un articolo in sull’inaugurazione del Palazzo Sirena di Francavilla, accompagnandolo con una breve novella dal titolo “La sirena” (da non confondere con il più noto scritto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Riprendendo una leggenda popolare (che in una lettera indirizzata alla sua amante Barbara Leoni diceva di aver appreso dalla gente), lo scrittore pescarese racconta del monaco anacoreta Franco che viveva sul colle prospiciente il mare su cui fu poi fondata Francavilla. L’uomo conduceva un’esistenza spirituale, mortificando con dure prove il proprio corpo (ecco ancora il tema del fanatismo religioso). Nella sua vita piomba, ad un certo punto, una sirena (notare come gli elementi classici e mitologici di fondono con quelli cristiani) che nel corso di diverse visite notturne cerca di indurlo in tentazione. 

Dopo vari rifiuti da parte di Franco, in soccorso del monaco arriva Santa Liberata insieme a otto angeli, che incatenano la sirena alla galea con la quale sono giunti dal mare (la fede cristiana batte il mito classico). La storia prosegue con l’arrivo dell’imbarcazione sul lido brullo e aspro, che si trasforma, subito, in un luogo rigoglioso ricco di vegetazione e ruscelli. Da quel momento il borgo fu chiamato “Francavilla” in onore di Franco (“la città di Franco”), e alla leggenda deve il suo nome Palazzo Sirena, ricostruito quasi interamente dopo i bombardamenti nella Seconda Guerra mondiale.

Da menzionare è anche la novella “Sancta Kabbala”, un’insalata di poteri paranormali, cultura classica, cabala ebraica e credenze astrologiche e magiche. Su miracoli e superstizioni popolari si possono leggere, invece, le novelle “La vergine Anna” e “La vergine Orsola”.

3 pensieri riguardo “Gabriele D’Annunzio tra superstizioni e pensiero magico

  • Beh, coi Tuoi stimoli, verrebbe voglia di leggerli tutti. Grazie per l’ articolo.

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      • So che non c’entra nulla con l’articolo ma come mai voi del Cicap non avete mai approfondito i Miracoli eucaristici? Non parlo solo del Miracolo Eucaristico di Lanciano studiato dal prof Edoardo Linoli ma dei miracoli eucaristici di Buenos Aires del 1992-96, Tixtla in Messico nel 2006, Sokolka e Legnica in Polonia nel 2008 e nel 2013 dove è stato provato scientificamente la trasformazione parziale dell’ostia in un tessuto miocardio di tipo umano con gruppo sanguigno AB in alcuni casi. A Legnica gli scienziati delle università di Breslavia e dall’università di Stettino che hanno studiato il fenomeno scientificamente in maniera indipendente hanno trovato Dna nella parte rossastra dell’ostia. Muffa e batteri possono verificarsi ma non in questi casi. Inviterei il Cicap ad andare in Polonia a Legnica a parlare con gli scienziati che hanno esaminato il miracolo eucaristico di Legnica e a studiarlo

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