Le aquile rapiscono i bimbi piemontesi!
Giandujotto scettico n° 125 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (03/11/2022)
I miti relativi ai bimbi portati via ai loro genitori dagli animali sono ben noti, e antichissimi. Uno di quelli che si sono prolungati sino alla modernità è quello del bambino selvaggio, allevato dai lupi e cresciuto con loro, sino ad assumerne le caratteristiche. Si tratta di mitologie complesse, ramificate in varianti e diffuse in aree culturali del mondo assai diverse.
Fra tutte queste, una leggenda di questa categoria che ci ha particolarmente colpiti anche perché continua a vivere in falsi recenti che circolano su YouTube e sui social è quella dei bambini rapiti dalle aquile. Si tratta di solito neonati, ma si va sino ad età di almeno dieci anni; secondo i racconti, ambientati soprattutto in aree di alta montagna, verrebbero letteralmente portati via in volo da rapaci di grandi dimensioni; andrebbero incontro a una sorte tremenda oppure, in un buon numero di casi, verrebbero salvati da genitori o altri parenti quando tutto sembrava ormai perduto.
Abbiamo cominciato a cercare questi racconti e, visto che il loro numero si moltiplicava rapidamente, ci siamo inventati un repertorio dei casi reperiti. Un po’ scherzosamente, lo abbiamo denominato con la sigla inglese ”BSE”, ossia Babies Stolen By Eagles – Bambini Rubati dalle Aquile, e dunque così ci riferiremo da ora in poi parlando del nostro campione. Per ora abbiamo raccolto una novantina di casi; i più antichi risalgono al XVIII secolo, e, fra questi, sedici sono italiani.
Oggi vi presentiamo il piccolo ma interessante panorama piemontese di questi racconti. Come vedremo, hanno caratteristiche abbastanza precise. Probabilmente qualcuno di voi avrà sentito narrare episodi del genere; in questo caso, vi saremmo grati se ce li faceste conoscere, scrivendoci.
Una mitologia articolata: i duelli con le aquile
Come per altre vicende di nostro interesse, un grave limite alla raccolta di fonti è costituito dal fatto che la digitalizzazione dei periodici italiani da parte del sistema bibliotecario nostrano è limitatissima. Per questo, in alcuni casi possiamo menzionare soltanto fonti secondarie straniere, che comunque provano che la storia ebbe ampia diffusione internazionale.
La mitologia sui rapimenti delle aquile si articola in diversi filoni; il primo è quello in cui il bimbo, effettivamente rapito, è salvato da morte certa grazie a un duello con l’animale rapitore che, di solito, soccombe. Ne abbiamo un esempio piemontese, dalla stampa internazionale.
Il 25 aprile del 1901, il quotidiano australiano Evening Star scrisse che “in una paesino nei pressi di Susa” si era verificata un’avventura emozionante. Un’aquila aveva portato via in volo un bambino di cinque anni. Era figlio di un contadino di nome Ghezzi, che, però, essendo un buon tiratore, aveva preso il fucile e si era messo alla ricerca del nido del rapace, individuandolo in un anfratto posto su un’alta rupe.
La breve storia è fra quella dai toni più epici del nostro repertorio: non senza difficoltà, il padre viene calato con una fune sino all’anfratto, dove si accorge con orrore che il bambino sta per essere aggredito dall’aquila. Il salvataggio, dunque, avviene in extremis. Il padre ingaggia un terribile combattimento con il rapace – non si spiega se a mani nude – lo uccide e salva il figlio, seppur ferito in modo serio (il testo, identico, si trova su giornali neozelandesi come lo Star del 25 maggio e il Manawatu Standard del 15 giugno 1901).
Una spiegazione per le sparizioni di bambini
La seconda categoria di BSE è rappresentata da eventi – probabilmente in larga misura reali – di sparizioni di bambini difficili da spiegare e, per questo, attribuite a una causa eccezionale come l’intervento di un animale fuori dal comune.
Cinque anni dopo la storia esemplare della val Susa, il 4 settembre 1906 il Corriere della Sera riferiva da Vercelli che a Rassa, un minuscolo paesino dell’alta Valsesia, un bambino di tre anni, Umberto Guglielmina, era scomparso nel nulla, mentre giocava all’aperto. La cosa appariva strana, giacché per lungo tratto mancano burroni e anfratti in cui potesse esser finito. Con lui c’era un altro bimbo ma, essendo ancora più piccolo, non era in grado di dire alcunché al riguardo. Per questo, scriveva il giornale, “ si teme fortemente che un’aquila lo abbia rapito”.
La cronaca è scarna, ma dà da pensare: la sparizione è inspiegabile. Si poteva pensare a circostanze di ogni genere – persino a un malintenzionato – e invece si ricorre un’ipotesi eccezionale, quasi “soprannaturale”: il bambino scomparso potrebbe essere finito in cielo, nel senso letterale del termine, portatovi da un animale tremendo e feroce. Per questo, non si riesce a reperirne nessuna traccia.
Bambini salvati in extremis
Un terzo genere di storie è quello in cui lo scudo posto a difesa del bambino – di norma da parte dei genitori – riesce a sventare il rapimento che, dunque (al contrario che nel primo genere di storie) non è portato a termine con successo. Il bimbo, quindi, in questi casi non sparisce, non viene portato via, non va a finire su una roccia, in un nido, in un anfratto
Seppur non come nei racconti in cui i padri liberano i figli dalle grinfie dei rapaci che li hanno tolti sul serio alla loro custodia, anche in questo caso l’epica è assicurata.
Stavolta siamo nel 1931, all’Alpe Colma, fra le valli Anzasca e Antrona. È da Stampa Sera del 4 maggio che ci giunge una storia letterariamente articolata, la cui qualità narrativa e drammatica si stacca nettamente dal resto.
Qualche giorno prima Battista Rhon, suo fratello e la sua figlioletta decenne si erano incamminati per una lunga gita lungo il versante nord del monte. A un certo punto, stanchi, si erano sdraiati sull’erba.
Ad un tratto, prima che alcuno di essi potesse rendersi conto di quanto stava per accadere, udirono al di sopra delle loro teste un stridulo gridìo e un furioso sbattere d’ali; subito dopo una meravigliosa aquila reale si era abbattuta sulla bimba, per ghermirla.
In altri termini, un’aquila stava per portarsi via in volo una giovinetta che, in media, avrebbe potuto pesare 35 chili! Secondo Stampa Sera la piccola si era salvata dal sollevamento soltanto perché si era mossa un poco, impedendo che la bestia la prendesse nel punto in cui era distesa.
I due uomini intanto si erano alzati brandendo dei bastoni, tanto più che l’aquila non desisteva. Alla fine le spezzarono un’ala e la ferirono in più punti. La bestia stramazzò al suolo.
Già così il racconto era oltre l’incredibile: l’idea che un rapace possa in qualche modo sollevare una ragazzina di dieci anni è al di là di ogni possibile considerazione; ma il racconto – da qualsiasi parte arrivasse – non terminava così. Due altre aquile di dimensioni paragonabili alla prima si erano gettate al soccorso della prima che, intanto, al richiamo di quelle, cercava di nuovo di spiccare il volo.
Così la battaglia era ripresa ma, alla fine, le due aquile intervenute avevano dovuto battere in ritirata. Quella del primo attacco, ferita più gravemente, era stata legata zampe ed ali, per portarla in paese a spalle, mentre l’altro uomo si teneva pronto a colpirla sul capo, se avesse dato cenno di volersi liberare. L’aquila però gridava, e le altre due, al sentirla, avevano ripreso a volteggiare a bassa quota, ma inutilmente, tanto più che uno dei due uomini brandiva il randello.
Giunti alle prime case, andarono loro incontro alcuni pastori ai quali – a quanto pare – raccontarono l’avventura, mostrando l’aquila catturata. I paesani diffusero rapidamente la voce del tentativo di rapimento della bimba, consegnando alla nostra gioia di appassionati di storia delle idee e delle credenze uno dei racconti più esagerati della nostra raccolta.
Nella stessa categoria (bimbi salvati in extremis prima di esser portati via, con le mostruose aquile malconce o che si danno alla fuga) rientra anche l’ultimo caso piemontese da noi conosciuto. Ne abbiamo soltanto una brevissima cronaca, apparsa su Stampa Sera il 18 maggio del 1937 (“Spara contro l’aquila che sta per rapirle il bimbo”).
In una cascina poco distante da Orta San Giulio, dunque non certo in alta montagna, “una colossale aquila affamata” (l’aquila è sempre “colossale” o “meravigliosa”) era stata vista abbassarsi sull’aia di un contadino, Salvatore Gattoni: secondo il testo, era chiaro che il rapace intendeva “rapire qualche gallina”. Non trovando la cosa sufficiente, ecco che “siccome nel cortile si trovava un bambino di pochi anni del Gattoni stesso”, la moglie, “allarmata”, saliva nella stanze superiori, prendeva un fucile e sparava un colpo in direzione dell’uccello, senza colpirlo, ma mettendolo in fuga. Morale della brevissima cronaca: in questo modo aveva “salvato il suo piccino”.
Di norma, e non solo in Piemonte, sono gli uomini a togliere i piccoli dalle grinfie della bestia: in questo caso, tuttavia, abbiamo l’azione decisa della madre che però – si noti il particolare, non combatte a mani nude o con bastoni contro il rapace, ma media la violenza attraverso la distanza, usando un’arma a canna lunga. Si tratta di una caratteristica antropologica da non trascurare: di norma, il corpo a corpo diretto è inscenato dagli uomini. Le donne o si tengono a distanza, urlando e agitandosi, oppure agiscono usando mezzi d’offesa in grado di essere scagliati contro l’animale che intende privarla della prole.
Un’ultima considerazione: tutte le cinque storie piemontesi di BSE di cui disponiamo sono ambientate lungo l’arco alpino o prealpino centro-settentrionale: per le Alpi marittime o per l’Appennino ligure al momento non ci è nota alcuna fonte.
Un motivo folklorico diffuso in Alto Piemonte?
Le quattro storie qui sopra sono basate su fonti giornalistiche, ma è probabile che in alcune aree del Piemonte sia esistita a lungo una tradizione folklorica sui BSE. Ne troviamo traccia in una storia curiosa, la cui antichità non siamo in grado di documentare al meglio, ma che pare esistere almeno dai primi del Ventesimo secolo, come documenta la cartolina che potete vedere in testa a questo articolo.
In località Erfo, in Val Grande, nel comune di San Bernardino Verbano, esiste un modesta cappella cattolica dedicata – appunto – alla Madonna di Erfo. Stando a questo volantino, il narciso sarebbe nato per formare una coltre destinata a coprire il punto in cui, in zona, giacevano i resti di un bimbo del paesino di Quarna Sopra, portato via dalla culla da un’enorme aquila calata dai monti vicini.
In questa tipologia di storia, dunque, il bimbo è rapito, ucciso e i suoi resti sono recuperati e oggetto della pietà familiare, della comunità e delle stesse potenze divine.
Il racconto assume tratti eziologici: la cappella sarebbe stata edificata in quel punto perché sulle cime dei monti, mentre di notte si cercava il piccolo, era comparsa una lunga serie di punti luminosi, poi scesi proprio dove si trovava il cadaverino, a formare la scritta luminosa “E nel ricordo un fior offrite”. L’etimologia fantasiosa serve a spiegare il nome della località – Erfo, appunto – come sigla delle quattro parole che compongono quella frase.
A quanto si sa da fonti precarie (le migliori sembrano essere “Erfo e il Narciso”, di Rosanna Delmonaco, in Il Verbano, 14 maggio 1971, e il libro di un appassionato di storia locale, Val Grande, di Luciano Rainoldi, Libreria Giovannacci, Domodossola, 1979), la leggenda sarebbe stata viva a sufficienza da giustificare nel corso del secolo scorso le classiche ricerche degli ecclesiastici appassionati di storia locale (si veda ad esempio qui e qui).
Insomma, come in molte altre occasioni, è probabile che anche la credenza che ha dato origine al nostro repertorio Babies Stolen by Eagles fosse assai più diffusa di quanto sappiamo, e che proprio la parte settentrionale del Piemonte potesse esserne uno dei teatri privilegiati.