Una grande eredità: Piero Angela e il CICAP
Articolo tratto da Query 51.
Questo articolo è scritto a quattro mani: entrambi ci siamo trovati, senza conoscerci prima, a collaborare con Piero alla fondazione del CICAP, e per entrambi si è trattata di un’esperienza fondamentale. In queste pagine proviamo allora a ripercorrere alcuni momenti e alcuni argomenti che per noi testimoniano del valore di quella esperienza e dell’importanza che Piero ha avuto per noi.
Lorenzo Montali, Massimo Polidoro
Da Piero, per Piero
di Lorenzo Montali
«Ora avete una grande eredità. E una grande responsabilità». Con queste parole Alberto Angela mi ha salutato lo scorso 16 agosto nella sala del Campidoglio in cui si è celebrata la cerimonia funebre per suo padre. Quel giorno sono andato a Roma, insieme a tante persone che hanno voluto portargli un ultimo saluto, sia per esprimere la mia personale gratitudine a un uomo a cui devo molto della mia esperienza umana e intellettuale, sia per testimoniare il lutto di una comunità, quella del CICAP, che Piero ha fondato e contribuito in maniera fondamentale a far crescere. E allora possiamo chiederci: qual è questa eredità di cui tutti noi associati al CICAP siamo portatori?
Per capirlo dobbiamo andare alle origini di questa storia, che inizia nel 1976 con una trasmissione tv di Angela intitolata Indagine sulla parapsicologia su cui si basa il fondamentale libro Viaggio nel mondo del paranormale, da lui pubblicato nel 1978. In quei due prodotti editoriali Angela, per la prima volta in Italia, tratta da una prospettiva scientifica alcuni fenomeni straordinari e ben noti al grande pubblico, dallo spiritismo all’astrologia, dalla telepatia alle guarigioni miracolose. La sua mossa di partenza è quella di una persona qualunque, come chiarisce sin dall’introduzione: «Credo che ognuno di noi, scettico o credente, si sia posto almeno una volta questa domanda, cercando di capire se esista qualcosa di paranormale nella natura umana, oppure se si tratti soltanto di illusione, coincidenze, o anche imbrogli». A muoverlo è quindi la curiosità, la stessa che chiunque può legittimamente avere: nessuna critica e nessuna condanna a priori.
Giunto al termine di quel Viaggio, Angela ha compreso, e ha condiviso coi suoi telespettatori e lettori, che la risposta a quella domanda è negativa: allo stato della conoscenza e delle prove esaminate la realtà di quei fenomeni non trova riscontri. Nonostante questo, il giornalista Angela è anche ben consapevole che i mass media danno spazio, e quindi credibilità, a storie che non hanno alcuna reale consistenza e a personaggi le cui affermazioni straordinarie nessuno si premura di verificare. In alcuni casi lo fanno per sfruttare la fascinazione che questi presunti poteri e fenomeni misteriosi esercitano sul pubblico, in altri perché trattano distrattamente questi argomenti, senza un’adeguata consapevolezza delle conseguenze sul piano della formazione dell’opinione pubblica (“Che male può fare parlarne?”).
In effetti, invece, questo comportamento dei mass media genera una conseguenza particolarmente insidiosa. Lo spazio mediatico dato a presunti fenomeni paranormali o a pseudoscienze mediche li trasforma da residuo di culture irrazionali e marginali a oggetti della modernità dotati di una nuova visibilità, capaci di sfidare la scienza contemporanea.
In quegli anni, per fare un esempio, la parapsicologia provava a dotarsi di uno statuto scientifico, promuovendo la necessità di allargare la nostra conoscenza delle capacità della mente umana. E un’ulteriore problema era il fatto che quella sfida non veniva colta: all’epoca, gran parte del mondo scientifico guardava a quei fenomeni e al loro racconto come irrilevanti, coltivando l’idea che non avrebbero avuto alcun impatto sul progredire della scienza proprio perché si trattava di qualcosa che non aveva una reale o plausibile consistenza. Solo molto più tardi si sarebbe diffusa anche nella comunità scientifica la consapevolezza della pericolosità del propagarsi di pseudoscienze, teorie complottiste e movimenti antiscientifici.
Ma torniamo a quegli anni e al lavoro di Angela. Il quale invece aveva sviluppato concretamente una felice intuizione e cioè che fosse possibile trattare quei fenomeni non in una logica sensazionalistica, ma per parlare di scienza e metodo scientifico: di sperimentazione, di statistica, di controllo, di doppio cieco. Quel Viaggio non poteva quindi terminare con un libro, proprio perché aveva reso evidente la necessità di un impegno culturale che affrontava questioni di grande rilevanza sociale. Da qui la decisione di predisporre un appello, che sarebbe stato sottoscritto da diversi scienziati italiani, a costruire un comitato che si occupasse di tali questioni. Un testo che compare nelle prime edizioni del volume e che nelle successive diventa il manifesto fondativo del CICAP. Quell’appello ci indica peraltro la capacità di Angela di mobilitare una parte della comunità scientifica ai suoi livelli più alti, premi Nobel e ricercatori noti a livello internazionale, un indicatore che il valore di quella sfida era stato adeguatamente trasmesso e condiviso.
Quando iniziai a collaborare con Angela alla fondazione del CICAP, (una storia che ho raccontato nell’articolo “Il CICAP… prima del CICAP”, Query n. 39), il lavoro riprese il via proprio da quell’appello e dal fatto che, pur essendo trascorsi dieci anni dalla sua pubblicazione in coda al volume di Angela, la nascita di quell’associazione nel frattempo non si era concretizzata perché, per quanto volenterosi, quegli scienziati non riuscivano a dedicare tempo e risorse a quella attività.
D’altra parte Angela aveva la consapevolezza che solo un’organizzazione stabile avrebbe potuto rappresentare un punto di riferimento e di partenza per lo sviluppo di iniziative culturali significative. E aveva ben chiaro che per quell’organizzazione la comunità scientifica avrebbe dovuto costituire un riferimento fondamentale in ogni attività. Non per piaggeria o in omaggio a un qualche principio di autorità, ma perché una caratteristica fondamentale della scienza è che la costruzione e la validazione della conoscenza scientifica è il risultato dello sforzo congiunto della comunità scientifica, la quale, quindi, nelle sue posizioni condivise, è portatrice dello stato più avanzato della conoscenza in un certo ambito e a un momento dato. Lo scopo del CICAP così come Angela lo aveva immaginato sarebbe quindi stato quello di aiutare la diffusione della voce della comunità scientifica sui temi di cui il Comitato intendeva occuparsi.
Questo resta, secondo me, un punto fondamentale della nostra identità e un criterio che credo dovrebbe sempre orientare la nostra azione in ambiti diversi. E cioè che noi nasciamo per portare la voce della comunità scientifica sui temi di cui ci occupiamo: non la voce del CICAP, che in quanto tale non esiste.
Quando parliamo di cambiamento climatico, di creazionismo, di pseudoscienze sui vaccini, noi non dobbiamo elaborare un punto di vista CICAP, ma favorire la presa di parola pubblica e la diffusione del punto di vista della comunità scientifica su certi temi. Molto concretamente: quando scegliamo un relatore per una conferenza CICAP, il nostro scopo non dovrebbe essere quello di cercarlo all’interno del CICAP tra chi si è informato più di altri soci su un certo argomento, ma tra coloro che ne sono esperti a livello scientifico. E, nel valutare questa expertise, dobbiamo essere consapevoli che deve essere specifica e non generica.
Dato il carattere specialistico delle discipline scientifiche, avere una formazione di tipo generale – il fisico, il medico, lo storico – non implica automaticamente avere una competenza specifica in un singolo ambito, che comporta una conoscenza approfondita della letteratura scientifica recente e delle questioni aperte da un punto di vista metodologico o di contenuto. Non si tratta di essere pignoli, ma di applicare alla nostra stessa azione quel rigore che giustamente pretendiamo da altri: i giornalisti che parlano di scienza o pseudoscienza, gli scienziati che intervengono nel dibattito pubblico. Quando scriviamo un articolo specialistico dovremmo, se possibile, orientarci a impostarlo come intervista a chi studia quell’ambito, che ne ha una consapevolezza decisamente maggiore di quanto possiamo avere noi. Ancora una volta, il principio di valorizzazione delle competenze, che è un elemento cardine del funzionamento della scienza a cui ci richiamiamo, dovrebbe essere posto a fondamento dei nostri comportamenti. E questo per me vale per ciascuna delle nostre attività: che sia una conferenza, un corso, un articolo o un intervento sui social media.
Per quanto la comunità scientifica sia il riferimento, Angela era anche ben consapevole che difficilmente si sarebbe auto organizzata e mobilitata in relazione alle questioni di cui si sarebbe occupato il CICAP. E quindi si trattava di costituire un’organizzazione a questo scopo. Nel nostro Paese questa organizzazione ha preso la forma di un’associazione aperta e ampia: mentre scrivo questo articolo abbiamo raggiunto i 2000 soci, probabilmente anche per effetto del rilievo mediatico della scomparsa di Angela, che ha reso nuovamente evidente il suo legame col CICAP. In altri contesti internazionali, penso per esempio alla Francia o alla Germania, le organizzazioni che hanno finalità analoghe a quelle del CICAP hanno invece una consistenza più limitata e più vicina all’idea di un comitato, che è solitamente costituito da un piccolo gruppo di persone.
L’idea di far nascere un’associazione diffusa e strutturata era una scelta strategica quando il CICAP è stato fondato? Per quel che ne ho visto io direi di no; è maturata nel corso del tempo perché evidentemente la nascita di questa organizzazione ha incontrato un desiderio diffuso di attivarsi per sostenere le ragioni della scienza in ambiti nei quali di scienza ce n’era poca. E probabilmente a questo esito ha contribuito in maniera decisiva proprio il fatto che Angela abbia voluto rendere visibile sin dall’inizio il suo ruolo di fondatore e ispiratore del Comitato.
Questo ha dato alla nostra associazione una visibilità mediatica che in altri contesti nazionali non c’è stata. E le ha garantito una notorietà legata al fatto che il suo fondatore era un personaggio tanto popolare quanto credibile, sia nella comunità degli scienziati che in quell’ ampio pubblico che grazie ai suoi programmi ha coltivato l’interesse per la scienza e le sue scoperte.
Oggi possiamo dire che questa caratteristica della nostra organizzazione – essere un’associazione diffusa e ramificata – ne rappresenta un punto di forza. L’interesse per i temi di cui abbiamo iniziato a occuparci più di trent’anni fa è enormemente cresciuto. Termini come fake news, pseudoscienza, complottismo sono entrati nel dibattito pubblico, segno di un interesse sociale rilevante per questi fenomeni. E sono nate figure specializzate – i fact checker, i debunker – che hanno contribuito a rendere evidente il carattere problematico delle notizie che troviamo nei mass media e nei social media.
Noi però restiamo un’organizzazione unica proprio perché siamo un gruppo ampio: uniamo diverse competenze e siamo ramificati a livello nazionale, quindi possiamo intervenire su questioni differenti, attivando esperti competenti in quello specifico ambito. E possiamo lavorare sia con messaggi rivolti a un ampio pubblico nazionale – quello dei mass media e dei social media – sia a un pubblico diffuso, che intercettiamo con le nostre attività locali, nelle quali si realizza l’incontro concreto con le persone e prendono forma rapporti di tipo continuativo.
È un livello fondamentale perché la crescita di una cultura scientifica diffusa e il contrasto a idee pseudoscientifiche si fondano sui dati e sulle evidenze, ma si alimentano e si rendono persuasivi prevalentemente nell’incontro concreto e nella relazione con le persone. La consapevolezza di questi due livelli ci deve rendere anche edotti delle loro differenze perché il messaggio nei media non è mai un messaggio locale, ma ha sempre una valenza più ampia. In quei contesti mediatici, quindi, i principi e le pratiche che richiamavo sopra – il rigore e la precisione, la valorizzazione delle competenze, il dare parola alla comunità scientifica – devono essere assunti come criteri fondamentali per decidere e costruire le nostre attività.
Fondare il CICAP voleva dire per Angela essere incisivi, in primo luogo a livello mediatico, su certe questioni. Oggi alcune di esse sono nell’agenda culturale e sociale del Paese, ma talvolta anche in quella economica e politica: basti pensare al tema delle vaccinazioni o al caso della xylella in Puglia. Dobbiamo quindi chiederci come possiamo ulteriormente sviluppare la nostra capacità di avere un impatto rilevante.
Ancora una volta, io penso che l’essere una comunità possa costituire un elemento di forza, se riusciamo a lavorare in maniera sinergica, cioè ad attivare tutta l’associazione verso obiettivi specifici, realizzabili e che si possono raggiungere solo attraverso una mobilitazione diffusa. E quindi ai due livelli, nazionale e locale, sviluppare iniziative convergenti nei contenuti e nelle finalità.
Prima ho scritto che il CICAP non ha contenuti suoi dato che li riprende da quelli della comunità scientifica. Ma questo non significa che non ci sia un orientamento filosofico di fondo che ne ha caratterizzato le origini, anche se in maniera implicita. Quando Angela mi coinvolse nella fondazione del Comitato mi mandò per un periodo a Buffalo, negli USA, dove c’era un’organizzazione chiamata CSICOP (Commitee for the scientific investigation of claims of the paranomal) e che ora si chiama più semplicemente Commitee for the scientific investigation (CSI). In quel momento, era il 1988, la scelta del nome CICAP derivava dal desiderio di Angela di contemperare due esigenze. La prima era quella di identificare un appellativo che potesse richiamare immediatamente le finalità dell’associazione e qualificarle in maniera positiva. Quando lo pronunci, il nome CICAP richiama check-up, diceva spesso Angela, un’attività che rinvia al mondo della scienza e a uno scopo utile, il controllo per prevenire i problemi. La seconda esigenza era quella di collegarsi in maniera evidente, sin dal nome, a quell’esperienza statunitense, e se esaminate i due nomi questo vi risulterà subito chiaro.
A presiedere il comitato americano c’era un filosofo, Paul Kurtz, che insegnava all’università pubblica di Buffalo e che era stato anche il fondatore e l’ispiratore della casa editrice Prometheus, che affiancava alla rivista dello CSICOP un’intensa produzione di libri. Kurtz, la cui complessità di pensiero non può essere riassunta nelle poche righe che l’economia di questo articolo consente, può essere definito, un neo illuminista, per usare una categoria comprensibile in Italia, come indica il titolo di uno dei libri che presenta una summa del suo orientamento: Toward a new Enlightment. Philosophy of Paul Kurtz.
Questo non significa che per aderire o sostenere il CICAP sia richiesto di assumere un orientamento filosofico o ideologico specifico, o che un generico riferimento all’illuminismo risolva questioni di ordine generale relative al valore e ai limiti della conoscenza umana. Più semplicemente, se si vuol comprendere l’origine di alcuni dei valori originari che sono a fondamento dell’azione del Comitato, la possiamo ritrovare in quella cultura filosofica e negli orientamenti successivi che le si sono richiamati: la valorizzazione della ragione umana, l’idea che tutte le persone nascono dotate di un intelletto che consente loro di agire e decidere liberamente per sé, il rifiuto di verità stabilite sulla base di principi di autorità o di riferimenti soprannaturali, la centralità del metodo scientifico quale strumento di analisi e risoluzione dei problemi, il valore dei fatti e cioè la capacità di costruire discorsi di verità che si basino su evidenze disponibili a supporto, l’importanza attribuita all’impegno per la diffusione della conoscenza e per contribuire ad arricchire la cultura delle persone e a liberarle da false credenze.
Fin qui quindi l’eredità che Piero Angela ci ha lasciato e a cui si riferiva suo figlio nelle parole che ho citato all’inizio di questo articolo. E per quanto riguarda la responsabilità cui pure Alberto Angela faceva riferimento? Quella spetta a ciascuno di noi e a noi come comunità. Dipende dalla capacità che avremo di portare avanti e sviluppare quell’idea originaria di Angela, di continuare a incarnarla nelle nostre attività. Si tratta infatti di fare la nostra parte per il nostro Paese, anche come CICAP.
Ecco allora che il titolo che ho scelto riassume il percorso di questo pezzo: tutto è partito da Piero, ora sta a noi andare avanti anche in nome suo, per Piero.
La lezione di Piero
di Massimo Polidoro
«Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire». È una frase di Leonardo da Vinci appuntata nel Codice Trivulziano. Una frase che Piero Angela amava e che ogni tanto ripeteva, come ha ricordato anche suo figlio Alberto nel suo ultimo saluto al padre in Campidoglio, lo scorso 16 agosto.
Piero guardava alla morte così come guardava alla vita, in modo razionale e scientifico. Dopo tutto è un fenomeno naturale, come ha scritto lui stesso nel suo ultimo messaggio al pubblico: «la natura ha i suoi ritmi». Naturalmente gli sarebbe piaciuto molto vivere ancora e, scherzando, diceva che avrebbe chiesto a Margherita, sua moglie, di scrivere sulla sua lapide: «Con tutto quello che avevo da fare!» Ma sapeva che quel giorno sarebbe arrivato e, così come ha fatto per tutta la vita, per ogni attività a cui si è dedicato, anche in questo caso si è preparato con cura, senza lasciare nulla di incompiuto. Con i suoi collaboratori e la sua redazione ha terminato le riprese per tutte le puntate di Superquark e per l’autunno ha registrato una serie di 16 episodi per i ragazzi su come “Prepararsi al futuro”; e poi ha inciso quel disco di pianoforte jazz che da tanto tempo voleva realizzare… «Lo faccio per i miei nipoti», mi disse un giorno, «perché sappiano che il loro nonno sapeva anche un po’ suonare».
Giusto un po’, eh! Lui che aveva iniziato la sua carriera come pianista jazz professionista e solo in seguito, quasi per gioco, accompagnando un amico a un provino alla RAI, si era ritrovato a diventare giornalista.
Ma Piero era sempre così. L’umiltà e la modestia erano un suo tratto caratteristico, che forse gli derivava dal fatto di avere assorbito fino in fondo la lezione della scienza. La scienza richiede umiltà: chi presenta con legittimo orgoglio i suoi risultati alla comunità scientifica sa che non potrà offendersi di fronte alle critiche motivate, che mettono in evidenza errori o mancanze. Perché è proprio da questo confronto che nasce la capacità di sviluppare ipotesi più precise e spiegazioni più adeguate.
La curiosità di Piero era quella di uno scienziato e Alberto ha detto bene quando ha spiegato che vivere accanto a lui è stato come avere in casa Leonardo da Vinci. «L’ho vissuto come figlio, come collega, come persona normale che si è trovata davanti una mente eclettica, ma soprattutto qualcuno capace di dare la risposta giusta sempre, in qualunque settore, dagli industriali ai ricercatori… Aveva una capacità di sintesi, di analisi e di trovare la risposta giusta in modo pacato che metteva poi tutti d’accordo».
Proprio come Lorenzo, posso dire di avere avuto la fortuna di conoscerlo per tutta la mia vita adulta, visto che gli scrissi una lettera, non ancora diciottenne, ed ebbi la meravigliosa sorpresa di ricevere una risposta piena di interesse e incoraggiamento. Sin da bambino ero appassionato di misteri e fenomeni paranormali, ma tutto quello che leggevo mi lasciava sempre molto perplesso. Finché non mi capitò di leggere il suo Viaggio nel mondo del paranormale; quel libro mi aprì la mente, mi fece capire come ragionare di fronte a fenomeni insoliti e, soprattutto, mi fece scoprire l’importanza del più straordinario strumento mai inventato dagli esseri umani per risolvere misteri: il metodo scientifico.
Ci conoscemmo e, forse colpito dal mio precoce interesse per la scienza e la razionalità, decise di investire su di me, proprio come aveva fatto con Lorenzo: mi diede una borsa di studio e mi mandò negli Stati Uniti a studiare con il grande James Randi, il più importante indagatore di misteri al mondo.
«Non pensare che sia un regalo», mi disse. «Sai, Massimo, io ho la fortuna di guadagnare bene, ma più che investire in banca preferisco farlo su progetti e persone che credo se lo meritino e possano raggiungere buoni risultati. Tu mi sembri una di queste persone».
Era la fine degli anni ’80. Quella straordinaria esperienza americana con Randi mi diede moltissimo, sia sul piano professionale che soprattutto umano, come ho avuto modo di raccontare nel mio libro Geniale, ma fu anche essenziale per la nascita del CICAP. Trascorrere un anno a osservare da vicino una personalità straordinaria come quella di Randi, aiutarlo nel suo lavoro e nelle sue ricerche, accompagnarlo durante le sue indagini, capire in che modo, come un abile scienziato, costruiva i suoi protocolli sperimentali (non a caso università, centri di ricerca e riviste scientifiche come Nature ne chiedevano la consulenza), mi aiutò a sviluppare una serie di competenze che si rivelarono preziose non appena il CICAP si ritrovò ad affrontare le tante persone che pensavano di possedere facoltà paranormali e magari si stavano solo illudendo… o cercavano di illudere gli altri.
Questo, tra l’altro, fu uno dei motivi per cui Piero volle mandarmi proprio da un prestigiatore per capire come si indaga nel mondo dell’occulto. A differenza di tanti scienziati, infatti, Piero aveva capito subito quanto fosse prezioso l’aiuto di chi, come prestigiatori e illusionisti, pur non avendo una formazione scientifica, può trasformarsi in un investigatore capace. Il prestigiatore è un esperto nell’arte dell’inganno, nel senso che durante i suoi spettacoli deve sapere creare l’illusione che qualcosa di magico sta avvenendo davanti ai nostri occhi, e deve saperlo fare non solo nascondendo il trucco, ma insinuando il dubbio in chi osserva che nessun trucco sia possibile.
Una competenza come questa non ha mai fatto parte del curriculum di studio di fisici, chimici o filosofi e per questo gli annali della ricerca psichica sono pieni di casi in cui celebri scienziati, persino alcuni premi Nobel, si sono lasciati mettere nel sacco da abili ingannatrici e ingannatori, il cui unico talento era quello di creare l’illusione di possedere poteri paranormali. Ecco dunque a che cosa servivano i prestigiatori: a osservare certe esibizioni, capire se poteva trattarsi di trucchi e, in tal caso, suggerire agli scienziati gli accorgimenti più utili per individuare e smascherare eventuali inganni.
Per il CICAP questa esigenza ha significato coinvolgere da subito i più importanti nomi dell’arte magica del nostro Paese, a partire da Silvan, poi diventato socio emerito del Comitato. Una collaborazione che continua tutt’ora, con gli interventi al CICAP Fest, le occasionali “consulenze” in occasione delle ormai sempre più rare dimostrazioni di pseudo sensitivi e medium, e la rivista Magia, che ho avuto il piacere di far nascere tanti anni fa e che oggi è diretta proprio da un preparatissimo prestigiatore come Alex Rusconi.
La straordinaria capacità che aveva Piero di parlare e raggiungere un pubblico vastissimo, il suo modo di rendere comprensibile la complessità del mondo senza mai banalizzare nulla, si sono poi rivelate importanti fonti di ispirazione anche per la comunicazione del CICAP. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di parlare a più persone possibile per condividere non solo informazioni, ma anche strumenti di ragionamento. E, in quest’ottica, una manifestazione come il CICAP Fest è riuscita nell’obiettivo di realizzare un evento che non si rivolgesse solo al pubblico degli affezionati, di chi già insomma la pensa come noi, ma al più grande pubblico dei curiosi. Anche per questo motivo Piero non ha mai fatto mancare il suo contributo e la sua presenza, anche nell’edizione dello scorso giugno. Pur molto affaticato, ha voluto intervenire in collegamento per ringraziare tutti i presenti e sottolineare che chi partecipa a questo tipo di iniziative dimostra una grande moralità: «Voi cercate un’informazione onesta e corretta e sentite il dovere di partecipare per cercare di correggere la disinformazione che dilaga sul web, in tv e nelle nostre case».
E poi ha spiegato quale, secondo lui, dovrebbe essere la prossima e più importante battaglia per il CICAP. Piero era consapevole del fatto che, oltre allo smascheramento di bufale e fandonie, la cosa più importante che facciamo è fornire alle persone quegli strumenti di ragionamento fondamentali per imparare a pensare in maniera critica. Anzi, sottolineava, il progetto su cui dovremmo concentrare un impegno ancora maggiore dovrebbe essere proprio quello di contribuire a fornire tali strumenti alle studentesse e agli studenti, durante il loro percorso scolastico. «A scuola», spiegava spesso, «si insegnano le scienze: matematica, chimica, biologia eccetera, ma non si insegna “la scienza”. Non si insegna il metodo, l’etica, la cultura scientifica. Ne consegue purtroppo un disinteresse e anche una difficoltà a capire la scienza che apre la porta alle fake news e alla disinformazione».
Un’ora alla settimana dedicata esclusivamente al metodo scientifico, al ragionamento logico, all’argomentazione, insomma, potrebbe diventare uno dei momenti più rilevanti di tutto il percorso scolastico. Le nozioni scientifiche, per quanto importanti, con il passare del tempo finiscono per essere dimenticate, se non si intraprende un percorso di tipo scientifico. Ma chi impara a ragionare, a fare domande, a chiedere e a valutare le prove, diventa una persona matura e consapevole, che è in grado di valutare il lavoro di chi governa e amministra, di chi fa informazione, di chi fa politica; chiederà conto a chi esagera con le promesse e non si farà ingannare da chi vorrebbe approfittarsene. È un’idea troppo importante per essere lasciata cadere e un obiettivo verso il raggiungimento del quale il CICAP sicuramente aumenterà i suoi sforzi, anche nei confronti del Parlamento.
Piero non faceva mai mancare il suo sostegno al CICAP, chiedeva sempre come andavano le adesioni, voleva tenersi informato e dava sempre suggerimenti e consigli utili. C’erano tante cose che avremmo voluto ancora fare insieme. Quando capitava di trascorrere qualche mattinata a parlare o anche a scrivere, seduti al tavolo del suo soggiorno, lo ascoltavo e mi faceva davvero pensare a Leonardo.
Proprio come è successo al genio rinascimentale, che in tarda età, pur malandato, non smetteva mai di interrogare la natura, anche la mente di Piero è rimasta sempre brillante, sempre piena di domande e di curiosità. Proprio come il suo umore, che era sempre allegro e positivo. Aveva la capacità di non prendersi troppo sul serio e di non prendere sul serio neanche i momenti più difficili. «Sai», mi diceva quando gli acciacchi si facevano sentire di più, «la vita è un po’ come un’avanzata verso le pallottole e le mitragliatrici: quando sei lontano le senti fischiare, poi, man mano che ti avvicini, diventa sempre più difficile cavarsela, prima o poi ti beccano. Dobbiamo rassegnarci, ma anche vivere al meglio, perché non saremo mai più giovani come in questo momento». Ma quando il discorso si faceva troppo serio, subito sdrammatizzava: «In fondo sono pur sempre un novantenne con un piede nella fossa e l’altro su una saponetta!»
Anche quando Randi ci ha lasciato, nel 2020, ci siamo subito sentiti al telefono per parlarne e ci siamo raccontati a vicenda diversi episodi da cui emergeva la sua genialità, il suo spirito indomito, il coraggio, ma anche la generosità, la bontà d’animo, il senso dell’umorismo… E ci siamo trovati continuamente a ridere. Alla fine, dopo un’ora al telefono, Piero mi ha detto: «È stato bello parlare di Randi ridendo. Lui, in fondo, ha avuto una vita piena, si è divertito, ha vissuto per 92 anni… sarebbe stato felice di essere ricordato così. Sai, mi è capitato spesso di andare ai funerali di amici ed erano sempre occasioni in cui si rideva dall’inizio alla fine. Io raccontavo degli aneddoti e nel ricordo erano persone vive, che amavano scherzare, ridere… Perché dovremmo metterci in lutto e piangere? È meglio celebrarli per come erano e per quello che ci hanno lasciato».
Ripensare a quella conversazione mi ha reso un po’ più facile accettare che Piero non c’è più, mi ha fatto sorridere e mi ha fatto ricordare tutte le cose belle che Piero è stato per tante persone, per il CICAP e per me. Piero ci ha istruiti e ci ha resi più ricchi, non solo con i suoi libri e i suoi programmi televisivi, ma anche con il suo esempio. E lo ha fatto fino in fondo, regalandoci una grandissima lezione su quella che George Harrison chiamava in una sua canzone The Art of Dying, cioè l’arte di morire. «La morte non piace a nessuno», diceva Piero. «Nel momento in cui succede, di solito le persone entrano in un piccolo letargo e non si rendono conto del momento del trapasso».
Lui però ha prima voluto concludere tutto ciò che restava ancora aperto. Poi ha salutato la famiglia, ha lasciato disposizioni precise su come voleva fosse gestita in tv la sua dipartita (e cioè nel modo più sobrio possibile) e ha anche voluto scrivere un ultimo messaggio al suo pubblico, quello in cui ha detto: «Penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese».
Ventiquattro ore dopo se n’è andato. «Io non ho mai visto una cosa così», ha commentato commosso Alberto, «ve lo dico come figlio, ma anche come quasi collega giornalista. Ed è stato possibile perché lui aveva un approccio alla vita razionale, scientifico, ma anche pieno di vita, d’amore, di come la vita dovrebbe essere riempita e vissuta».
E, dunque, impariamo da lui ancora una volta. Non rimandiamo nulla, non saremo più giovani come siamo ora, e riempiamo la nostra vita di cose belle, di studio, di curiosità, di affetti, di impegno e la fine, quando arriverà, sarà più facile da affrontare. Sarà proprio come ha detto Alberto, quando dopo una bella cena tra amici, ci si alza da tavola, soddisfatti, e con un sorriso si dice: «Be’, io adesso vado…», senza tristezza, ma proprio come Piero Angela: con la piena consapevolezza di una vita bene usata.
Grazie anche per questo, Piero.
Immagine di copertina: Piero Angela e i volontari del CICAP Fest 2019 © Roberta Baria