Giandujotto scettico

Le luci fantasma in Piemonte

Giandujotto scettico n° 127 di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo (01/12/2022)

Luci fantasma, fuochi di sant’Elmo, fuochi fatui, fuochi folletti… Una lunga serie di tradizioni differenti, documentabili con chiarezza almeno dalla fine del Quattrocento, ma per cose come i fuochi di sant’Elmo già dall’antichità classica. Un intreccio complicatissimo di cultura, storia della scienza, dell’occultismo e delle pseudoscienze moderne. Nella mitologia ufologica moderna, soprattutto dagli anni ‘70, alcuni appassionati alla ricerca di un’alternativa alla credenza dominante che identifica gli Ufo con velivoli extraterrestri cercarono proprio in queste luci una spiegazione, raccogliendo testimonianze che risultavano spesso legate a luoghi molto precisi e osservate a distanze abbastanza ridotte. 

Per farla breve, anche questo tentativo si dimostrò un vicolo cieco, perché quegli ufologi, che pure ragionavano in modo sofisticato, pretendevano di riuscire a separare folklore, idee protoscientifiche sorpassate e credenze moderne nell’occulto da presunti fenomeni reali e sconosciuti – cioè, quelli che speravano di documentare in modo rigoroso. 

Storie di questo tipo ce ne sono anche in Piemonte. Ne abbiamo ricostruite due.

La luce misteriosa di Quargnento: il “fuoco di San Bernardo”

Negli ultimi anni del Diciannovesimo secolo, la passione per l’occulto era fortissima. In quell’alveo molto vasto, però, i metapsichisti di orientamento più o meno spiritista oppure “psicodinamico” (quello che supponeva che all’origine dei presunti fenomeni non ci fossero per forza entità disincarnate, ma “forze” sconosciute presenti in varia misura negli individui) facevano rientrare un po’ di tutto. Quegli studiosi, sovente persone di cultura e di classe sociale elevata, erano incuriositi da testimonianze di eventi “misteriosi” di ogni genere. 

Per questo, quando dai primi del 1896 cominciò a diffondersi la notizia che in un paese della Valtellina, Berbenno, da anni si vedeva una luce dal comportamento insolito che compiva evoluzioni nei pressi del terreno, molti appassionati di metapsichica e giornalisti che seguivano quel mondo cominciarono a riportare presunti fatti analoghi in altre località italiane. Uno di noi (Giuseppe Stilo) nel 2001 realizzò una monografia in cui ricostruì questa vera e propria ondata di interesse italiano per le supposte “luci misteriose”, che si protrasse per cinque-sei anni (Luci lontane, Documenti UFO, n. 25, giugno 2001, Edizioni UPIAR, Torino).

Uno degli episodi di quel periodo – particolarmente sorprendente, e per il quale non siamo in grado al momento di fornire un’interpretazione – riguardò proprio il Piemonte. Fu reso noto da uno dei maggiori studiosi di spiritismo di quel periodo, il conte Cesare Baudi di Vesme (1862-1938), torinese di madre francese, stretto collaboratore di Cesare Lombroso, coinvolto in parecchie fra le più celebri controversie spiritiche di inizio Ventesimo secolo, a cominciare da quella sulla medium Eusapia Palladino (ma anche quella sulle foto spiritiche della torinese Linda Gazzera, di cui vi abbiamo parlato qui). 

Di Vesme era già a conoscenza della vicenda prima che i fenomeni della Valtellina portassero l’attenzione sulle storie di “luci misteriose”, ma fu soltanto in seguito alla pubblicità che ne era stata fatta che scrisse della vicenda che ci riguarda. Lo fece con un articolo pubblicato nel primo fascicolo del 1897 della rivista che Lombroso dirigeva a Torino, cioè l’Archivio di Psichiatria, Scienze Penali e Antropologia Criminale, che in quegli anni toccava di continuo argomenti controversi. 

Di Vesme raccontava che da anni a Quargnento, un paese poco ad ovest di Alessandria si raccontava di uno strano fenomeno luminoso. La cosa gli era già nota da due anni, perché un dipendente delle ferrovie originario di Quargnento, membro dell’allora neonata associazione spiritistica “Psiche” di Torino, aveva descritto ciò che (a suo dire) accadeva da molto tempo nel suo paese. Malgrado quelle notizie, le indagini stagnarono: fu l’eco dei fatti di Berbenno a riportare l’attenzione sul paese dell’Alessandrino. Per prima cosa, di Vesme raccolse la testimonianza diretta di un tenente di fanteria di stanza nel capoluogo di provincia, poi si rivolse a un noto spiritista e docente di diritto nelle scuole superiori di Alessandria, il professor Marco Tullio Falcomer, che a sua volta inviò a Quargnento l’ufficiale di fanteria. Costui redasse una relazione in undici punti, raccontando di aver ascoltato al riguardo alcune persone del paese.

Conteneva diverse cose strane. Il fenomeno luminoso veniva osservato da molto tempo, quasi ogni sera, di solito verso le 20.30 e in ogni stagione. Era grande come “una grossa lampada”, ma fissandolo s’ingrandiva sino a diventare qualche volta una luce di 60-70 centimetri. Di norma si spostava dalla piccola chiesetta di San Bernardo, allora come oggi in campagna, a sud rispetto all’abitato, verso il cimitero, quasi saltellando, poi, verso mezzanotte, dal cimitero tornava indietro, verso il tempio, che fino a qualche tempo prima era stato luogo di sepoltura dei membri di una famiglia patrizia della zona, i Guasta. 

Già così il connotato folklorico della vicenda era evidente (uscita dalla chiesa, movimento verso il cimitero, ritorno a mezzanotte verso la chiesa), ma il punto più ambiguo era un altro. Alcuni lo vedevano, altri, contemporaneamente, no. Nel fissarla con insistenza, chi la vedeva aveva la sensazione che s’ingrandisse e si avvicinasse, mai tanto da poterla vedere davvero da breve distanza. Insomma: un fenomeno che dava l’idea di collocarsi a metà fra quello naturale (i fuochi fatui erano una delle grandi passioni e paure dell’epoca) e quello soprannaturale, spiritico, per l’impossibilità di approssimarsi e di esser constatata da tutti, e per il fatto che s’ingrandisse guardandola a lungo… Non a caso, il segretario comunale di Quargnento, Emanuelli, confermò a di Vesme che il fenomeno aveva il suo nome, come ogni buon motivo folklorico: fuoco di San Bernardo.

Prima che di Vesme, in realtà, si era mosso per indagare sul “fuoco” anche un altro personaggio di spicco, il dottor Luigi Garzino (?-1913), che dal 1892 ebbe una libera docenza di Chimica Farmacologica e Tossicologia presso l’Università e che nel 1908, fra l’altro, pubblicò a Saluzzo un curioso trattatello di mnemotecnica destinato in particolare agli studenti di chimica (L’arte di studiare. Studeotecnia o mnemodidattica, Tipografia Lobetti-Bodoni). Nell’estate del 1895, Garzino chiese notizie direttamente al sindaco di Quargnento, l’ingegner G. B. Capello, che gli rispose inviando diverse testimonianze: aveva visto il “fuoco fatuo” sua madre, che se l’era visto passare davanti, il maestro del paese, Erasmo Clerici, e anche un geometra che, con sua moglie, l’aveva scorto più volte da casa sua nelle campagne dove di solito era segnalato. Le guardie campestri comunali, peraltro, pur compiendo perlustrazioni notturne frequenti erano scettici, né avevano mai notato niente di quel genere; lo stesso accadeva per altri residenti da molto tempo nell’area del presunto “fuoco”. In seguito Clerici scrisse di persone a Garzino, confermando di aver visto una sera del maggio 1893 “una fiammella grossa come quella di una candela, che all’altezza di un uomo dal suolo, pecorreva lo spazio nella direzione del cimitero”, distante da dove abitava lui, vicino alla chiesetta, circa seicento metri. 

Non sappiamo altro. Si direbbe che né di Vesme, né Falcomer, né Garzino si siano recati direttamente a Quargnento per indagare. Tutto sembra derivare dalla corrispondenza con testimoni e con persone notevoli della zona, che fecero quel che potevano per raccogliere informazioni.

Che il contesto nel quale furono inquadrati i racconti sul fuoco di San Bernardo di Quargnento fosse quello spiritico lo conferma la considerazione finale di Baudi di Vesme nel suo articolo per l’Archivio di Psichiatria. Perché non tutti vedevano il misterioso fenomeno? Beh, poteva essere che alcuni soffrissero di daltonismo, e dunque che non lo vedessero anche se c’era, ma, soprattuto, era possibile che i “sensitivi” avessero la possibilità di “distinguere luci che altri non percepiscono”. Per inciso, si tratta di un’idea che, con l’era ufologica, una parte degli ufologi applicherà ai dischi volanti e ad altri presunti eventi ad essi collegati in quella pseudoscienza. Mettendo in primo piano la soggettività come valore centrale di questi eventi, si elude qualsiasi vera possibilità di controllo, perché il significato di questi episodi viene riposto nel rapporto speciale tra il protagonista e la causa dell’evento. In questo modo, mistero e sbalordimento vengono salvati, e, anzi, per così dire, promossi di grado.

Il folklore “luminoso” delle valli di Lanzo

C’è un’altra vicenda piemontese di “luci misteriose” di cui conosciamo un po’ di particolari. SI tratta delle tradizioni delle luci fantasma della val di Lanzo: i dettagli a noi noti li dobbiamo a un dirigente d’impresa, giornalista e scrittore torinese, Luigi Collino (1890-1938), che fu anche vice-direttore de La Stampa e studioso di tradizioni popolari piemontesi. Non sorprende, dunque, che abbia inquadrato le “luci misteriose” proprio secondo quel tipo di prospettiva.

I “corsi dei morti”

Proprio su La Stampa, il 29 agosto del 1933 Collino descrisse alcune leggende relative a fenomeni luminosi che secondo il folklore locale interessavano alcune località. Il primo gruppo è quello dei “corsi dei morti”: gruppi di fiammelle che procedevano di notte, e che di norma erano interpretate nel quadro della confessione cristiana dominante in Italia, cioè di quella cattolica, come anime penitenti del Purgatorio. Un primo luogo indicato da Collino come quello in cui, al buio, era possibile ogni tanto vedere i corsi dei morti era il santuario Madonna degli Olmetti, presso Lemie, in valle di Viù (Torino). Lì, si diceva che la chiesa si illuminasse e che si mettessero a suonare una campana e un organo invisibile, mentre le fiammelle riprendevano la via del Purgatorio. Per Collino le luci non erano ritenute pericolose per chi le vedeva: bastava farsi il segno della croce.

Il “fuoco fasciato” della Stura di Lanzo

Una fama assai più sinistra e una tradizione narrativa più articolata è quella del fuoco fasciato, o “fuoco dell’inverso”. Ogni sera, alle nove, e, di nuovo prima dell’alba, una fiamma percorreva una strada sassosa lungo la Stura di Lanzo, fra Ala e Mezzenile (siamo sempre nel Torinese). Era un fuoco fatuo terribile, scriveva Collino, perché preannunciava in specie ai genitori la perdita dei figli, e anche se uno serrava le palpebre era impossibile non vederlo. Le ipotesi si erano sprecate, narra Collino: diavolo che portava i malefizi nelle varie borgate, anime in pena perché non trovavano posto in nessuno dei tre regni del Cristianesimo medievale – Inferno, Purgatorio e Paradiso – uno stregone che sorvegliava il suo tesoro, l’anima di un esattore delle imposte che cercava ancora di spillare soldi nelle borgate (!). Questo finché un vecchio valligiano senza famiglia poté vederlo da vicino, e affermò che aveva l’aspetto di un bimbo in fasce. Il vecchio aveva aggiunto che il fuoco fasciato non voleva lo si guardasse: quella notte, infatti, si era diviso in sette o otto fiammelle che sibilavano “Fa la tua via!”. L’uomo si era salvato dalla luce malvagia soltanto perché stava sorgendo l’alba, e la campana della chiesa di Mezzanile aveva cominciato a suonare. 

Sembra che questo ciclo di racconti in zona fosse ben documentato. Collino spiegava di aver appreso da due studiosi locali attivi ai primi del Ventesimo secolo, Giovanni e Pasquale Milone, che una testimonianza dell’apparizione era presente anche in un manoscritto di memorie locali (nessuna data è indicata per questo scritto). Lì un uomo affermava di averlo visto, e – secondo la tradizione più tipica del mito del fuoco fatuo – di essere stato inseguito da “un plotone di fiammelle” dalla borgata di Vana sino a quella dove aveva casa, cioè Procaria, nel comune di Ceres. Sempre lo stesso manoscritto, peraltro, spiegava in un altro modo l’origine del “fuoco”: si trattava di una strega di Ala che era stata convinta da un frate a confessarsi e, dopo essersi liberata dei suoi peccati, promise che sarebbe tornata dal religioso dopo la morte per riferirgli in quali dei tre regni dell’oltretomba della chiesa cattolica romana si trovava.

Pensare di riuscire ad estrarre da racconti di questo genere dei “dati” da usare per dare la caccia a ipotetici fenomeni naturali finora misconosciuti dalla scienza probabilmente sarebbe illusorio. La cosa di gran lunga più probabile è che si tratti di costruzioni culturali più o meno antiche. Riuscire a capire in quali casi vi fosse una base fisica per le osservazioni descritte, ormai ci è precluso.

Foto di Yuri da Pixabay