Giandujotto scettico

La corsa all’oro di Bruggi

Giandujotto scettico 128 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (15/12/2022)

Il paesino di Bruggi non è certo il Klondike. Eppure per qualche anno, a partire dal 1925, una strana “febbre dell’oro” si diffuse in questo angolo della val Curone, alle estreme propaggini sud-orientali della provincia di Alessandria. Peccato che la convinzione che lì sotto potessero esserci ricchezze oltre ogni immaginazione poggiasse su basi tutt’altro che solide: lo strano comportamento di una bussola, il responso di un rabdomante, la voglia di credere di un parroco del posto…

Già, il parroco. Fu lui il motore di tutta la vicenda. Don Natale Goglino era nato il 25 dicembre 1872 a Torre Garofoli, una frazione di Tortona (Alessandria). A Bruggi ci arrivò un po’ per caso, nel 1897. Era di salute cagionevole, gli avevano asportato un polmone in seguito a una grave malattia, e il vescovo pensò bene di mandarlo in val Curone sperando che il clima di montagna gli giovasse. I medici, per la verità, non gli avevano dato molte speranze. Eppure lui a Bruggi rimase 55 anni, fino alla sua morte, nel 1952. I siti locali lo ricordano come 

un po’ guida carismatica, un po’ prete, un po’ santone. Arciprete, ma anche medico, orologiaio, maestro, consulente, notaio e soprattutto amico e confidente di ogni abitante. 

Un prete tuttofare che cercò di badare alle anime dei suoi parrocchiani ma anche alle loro esigenze terrene: in quegli anni di povertà, un tesoro nascosto a Bruggi sarebbe stata davvero la proverbiale manna dal cielo. Fu proprio don Goglino, nel 1925, a richiamare in val Curone un personaggio peculiare: il frate cappuccino padre Innocenzo da Piovera.

Padre Innocenzo, originario anche lui della provincia di Alessandria, in quegli anni era una specie di star della rabdomanzia. Quando giunse a Bruggi, la sua fama era già notevole. Alla sua morte, avvenuta ad Alessandria nel 1957 all’età di 66 anni, i giornali raccontarono che aveva effettuato “oltre diecimila ricerche” in Italia, soprattutto in Sardegna; ma lo avevano chiamato a “operare” anche in Eritrea, Libia, Somalia, Svizzera e Francia – a quanto pare, anche dietro richiesta del Ministero dell’Economia nazionale (Il Piccolo, Alessandria, 8 giugno 1957). Nel 1930, al culmine della fama, era stato chiamato a Brest, dove una nave italiana per recuperi di relitti, il piroscafo Artiglio, cercava i resti sommersi del transatlantico americano Egypt, che, fra le altre cose, trasportava un carico importante di materiali preziosi. Perché – questa era la convinzione – padre Innocenzo trovava l’acqua ma anche il petrolio, l’oro e l’argento. Di questo, all’epoca, erano tutti convinti. E così, quando la sua bacchetta indicò che sotto alla val Curone c’erano ricchezze ineguagliabili, nessuno mise in dubbio la sua parola. Men che meno don Goglino, che a quell’oro voleva fermamente credere.

La vicenda esplose pubblicamente nell’ultima decade di agosto di quell’anno. Stando ai periodici locali, padre Innocenzo aveva inviato una certa quantità di terreno in un non meglio precisato laboratorio di Torino, per avere una conferma delle sue scoperte. E quella era arrivata: nelle pietre di Bruggi c’erano 4 grammi di oro e 56 di argento per tonnellata. In realtà, anche a considerare accertata la presenza dei materiali, come terreni auriferi non sembravano essere eccezionali, ma l’entusiasmo fu da subito incontenibile (La Stampa, 23 agosto; La Fedeltà, Cuneo, 26 agosto 1925). 

Il clamore attrasse sul posto un deputato al parlamento già interamente controllato dal fascismo, il monferratese Edoardo Torre (1882-1962) – fra le altre cose, massone, appassionato di occultismo e studioso di crittografia. In buona parte, l’articolo con il quale Torre riferì della sua spedizione, apparso su La Stampa il 28 agosto, è una delle consuete alluvioni di parole tipiche della stampa italiana del tempo, dedicate più che altro a descrivere nel dettaglio l’amenità dei posti. Però, dal viaggio di Torre a Bruggi si apprendono anche particolari preziosi sul modo in cui la corsa all’oro prese avvio. L’esperimento cruciale di padre Innocenzo era avvenuto poche settimane prima, ma Torre aveva scoperto che già in precedenza un altro rabdomante, giunto da Varzi per cercare l’acqua nei terreni di un possidente, aveva notato un particolare sorprendente. Si era infatti accorto – cosa per lui curiosa – che la bacchetta che teneva in mano non vibrava; sospettò dunque che nel terreno ci fosse un altro minerale che impediva alla bacchetta di muoversi e di rilevare l’acqua. 

Secondo Torre:

La cosa stupì, essendo il sottosuolo di questa regione ricchissimo di acqua. Allora il rabdomante, supponendo che qualche strato minerale gli impedisse di sentire la presenza del liquido, chiuse nella mano, a contatto della bacchetta, una chiave: il risultato fu, come la prima volta, negativo. Rinnovò l’esperimento sostituendo alla chiave delle monete di rame, poi d’argento: nulla di nuovo. – Che sia oro? – chiese celiando uno del presenti. – E perché no? – rispose il rabdomante. Il proprietario del luogo allora corse in casa e ne tornò con una sterlina che diede al rabdomante il quale ripeté la prova, tenendo la moneta a stretto contatto della bacchetta. Questa cominciò a girare con forza irresistibile.

E poi, proseguiva Torre, due mesi prima un geometra, incaricato dalla provincia di Alessandria di tracciare il progetto per la nuova strada fra Bruggi e il capoluogo, si era accorto che la sua bussola si comportava in maniera anomala, puntando verso il basso: lì sotto doveva esserci un minerale insolito!

Era stato a quel punto che don Goglino, conoscendo la fama del religioso di Alessandria, lo aveva convocato.

Tali prove compiute il 4 agosto u. s. […] diedero risultati semplicemente sbalorditivi. Padre Innocenzo (quarantenne, occhi celesti quasi infantili, barba rada castana, aspetto caratteristico d’asceta), “lavora” gratuitamente, perché la regola dell’Ordine al quale appartiene gli vieta, comunque, di trar mercede o guadagno dal suo stesso lavoro. La bacchetta, un giunco tagliato di fresco, stretta fortemente nella mani del sensibilissimo frate, prese a girare nervosamente e continuò a descrivere dei cerchi fino a spezzarsi quando due robusti giovani presenti ne vollero tener ferme le estremità.

Otto giorni dopo, da una pietra ritenuta “strana”, rinvenuta sul monte da un pastore e inviata a “un noto chimico torinese”, giungeva il responso atteso: tracce d’oro e d’argento!

Era fatta. Don Goglino cominciò a raccogliere fondi per gli scavi e, secondo Torre, a sognare una chiesa più grande e addobbata da ornamenti magnifici. I proprietari dei terreni intanto si impegnavano a non vendere a terzi i terreni potenzialmente apportatori di ricchezza, e una non meglio precisata “commissione” avviava le pratiche per poter andare avanti con le prospezioni.

La stampa locale ci ha consegnato il seguito della vicenda. Il 6 settembre 1925, il settimanale cattolico tortonese Il Popolo, avvisava che don Goglino aveva preso l’iniziativa di formare un piccolo capitale “onde iniziare i lavori di assaggio” che sarebbero stati avviati di lì a poco. Raccolse una somma di circa 20.000 lire tra i suoi parrocchiani e, con l’aiuto della rabdomanzia, individuò diversi nuovi, potenziali filoni, tra cui alcuni in una ex-miniera (Settegiorni a Tortona, 6 novembre 2010). Il 4 ottobre, Il Popolo accennava a “giacimenti d’oro più o meno veri e rimunerativi”, ma ricordava pure che già in passato alcuni “pesca-oro” avevano cercato le loro fortune nelle sabbie aurifere del Curone. 

Due anni dopo, il 16 marzo 1927, ecco la notizia tanto attesa, in un trafiletto de La Stampa: dopo diversi saggi “non conclusivi”, finalmente era arrivato il decreto prefettizio che autorizzava la ricerca di oro e argento a Bruggi anche con la trivellazione meccanica. 

Ma – ahinoi – la caccia all’oro si rivelò un fallimento. Un sito di storia locale ricorda così la triste conclusione della vicenda:

Il sogno dei Bruggesi si consumava mentre, immersi nella melma e nell’acqua, cercavano nella terra quella ricchezza che non si accorgevano di avere intorno. Non pochi furono i morti di tisi e, ancora più numerosi, furono coloro che, di fronte all’evidenza di tanto lavoro sprecato, rimasero delusi. L’oro non si trovò mai e don Goglino, che durante la “febbre” tanto si era adoperato, ristorando i cercatori col suo vino, organizzando turni e dando speranza e fiducia, morì col desiderio di possedere uno strumento di rilevazione più preciso.

Sul perché non venne trovato nulla, le interpretazioni variano. Qualcuno sostenne che la scoperta era stata in realtà uno “scherzo di cattivo gusto” giocato al parroco. Qualcun altro argomentò che l’oro era in realtà ottone, che un tempo veniva usato per riparare e saldare le lame: con la pulitura i piccoli frammenti di metallo dorato finivano gettati in giro, ed erano facilmente confondibili con l’oro. Don Goglino, da parte sua, parlò di un’impresa fallita

per l’imperizia di chi dirigeva i lavori ed anche per le difficoltà incontrate. (Settegiorni a Tortona, 6 novembre 2010)

Molti siti che ricostruiscono la vicenda si limitano a dire che la vera ricchezza di Bruggi era un’altra – quella del clima salubre, dei paesaggi ameni e delle acque del Curone. Più verosimilmente, si può ipotizzare che in quei terreni forse un po’ d’oro ci fosse, ma non abbastanza da rendere l’estrazione remunerativa. È quanto accade, ad esempio, in altre zone dell’Alessandrino, dove il metallo prezioso è sfruttato a fini turistici (a Casal Cermelli, ad esempio, è possibile seguire gli antichi sentieri dei cercatori d’oro, tramite trekking e un museo dedicato). 

Il ritrovamento di alcune pagliuzze d’oro a Bruggi nel 1981, o addirittura le ipotesi sulla presenza di petrolio nella zona di Fabbrica Curone non hanno mai riacceso la “febbre” – almeno, non in misura paragonabile a quella degli anni Venti. Alla morte di don Goglino, nel 1952, l’entusiasmo era ormai scomparso, e all’immensa ricchezza mineraria nessuno credeva più.

Bruggi non è il Klondike, ma per un po’, negli anni Venti del secolo scorso, visse quella stessa illusione. Probabilmente il desiderio di un parroco di dare fama e gloria al paese che considerava un po’ il suo piccolo regno si saldò a quella del frate-rabdomante che, quando la storia di Bruggi esplose, era davvero un personaggio pubblico di una certa popolarità: doveva godere di entrature presso ambienti ufficiali, come mostrano le “consulenze” che svolse nelle colonie italiane del tempo, oppure su incarico della società navale italiana proprietaria del piroscafo Artiglio.

Né quella fama, però, né l’entusiasmo di don Goglino, alla lunga furono sufficienti. A Bruggi l’oro non c’era, e non erano certo le fantasie dei rabdomanti a poter trasformare quelle pietre in metalli lucenti.

Immagine: Minatori della Sierra, di Charles Christian Nahl  (1818–1878) e Frederick August Wenderoth  (1819–1884), da Wikimedia Commons, pubblico dominio