Medeo ‘l fòl e quelle magie un po’ troppo umane
Giandujotto scettico n° 131 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (26/01/2023)
Una vicenda boccaccesca. Fu così che i giornali definirono la curiosa storia che nel 1913 portò in tribunale il cinquantasettenne Amedeo Olivetti, detto Medeo ‘l fòl, e una coppia di coniugi che non poteva avere figli. Intorno a questa storia di cronaca si coagularono voci, dicerie, canzoni popolari, rappresentazioni teatrali e fogli volanti. Ed è una storia che, pur avendo per protagonisti personaggi un po’ borderline, è anche figlia di forti credenze popolari, della superstizione e del pensiero magico…
I protagonisti della storia
Nel 1913, a Torino fu celebrato un vero e proprio processo mediatico, che vedeva imputato per truffa Amedeo Olivetti: disoccupato, pregiudicato ma anche profeta, mago ed esorcista. Viveva a Traves, in val di Viù, a nord-ovest di Torino. Così lo descrive La Stampa del 20 marzo 1913:
La sua scrittura è chiara, senza filetti: la sua ortografia non scorrettissima. Egli si firma sempre “profeta”, e così si chiama tra i suoi convalligiani, ai quali vorrebbe far credere d’avere frequenti colloqui con Dio. È solito a fare il giuoco delle carte ed i più comuni sortilegi di questi soliti stregoni di campagna. Il limone costituisce la base di tutte le sue cure dietetiche, che in ogni sorta di malanni ed infermità ordina con sfacciata disinvoltura. La scienza profetica e mondana dice d’attingerla dalla Bibbia. Ed infatti egli sempre ne porta una In mano e fa atto di leggerne squarci ai suoi clienti, attoniti ogni qualvolta opera di magia; il vero è che la sua Bibbia, unta e bisunta, è scritta in inglese ed egli non sa un acca di quella lingua.
A questo strano personaggio si era rivolta una coppia di piccoli proprietari terrieri, frustrata dalla mancanza di figli, sperando che lui potesse aiutarli con qualche “magia”. Ma la natura di quei rituali divenne ben presto oggetto di scherno e di derisione per tutta Torino…
Gli sposi si chiamavano Giovanni Battista Borla, 46 anni nel 1913, e sua moglie Metilde, quarantenne. Abitavano nella frazione Piazzette di Usseglio. Gli altri protagonisti di questa storia fanno solo da sfondo: i giudici, la stampa, i Carabinieri e la folla furono soltanto i comprimari di una vicenda la cui logica era tutta interna al rapporto fra i tre. L’abitazione dei Borla fu il teatro principale di questa storia incredibile, poi trasferita di peso nel centro della grande Torino, e nel suo grande Palazzo di giustizia, che a quel tempo si trovava nella centralissima via Corte d’Appello.
La sola pubblicazione che ha raccolto in modo sistematico gran parte delle fonti disponibili su questa incredibile vicenda è un libro piccolo ma prezioso, Medeo ‘l fòl, opera di tre studiosi di storia piemontese: Milo Julini, Donatella Cane e Claudio Santacroce (Editrice Il Punto – Piemonte in bancarella, Torino, 2014).
Gli “esorcismi”
Grazie ai documenti d’archivio reperiti dai tre studiosi conosciamo l’iter giudiziario, per come si svolse prima che giungesse all’attenzione dei giornali. A Viù c’era un pretore, e fu lui a istruire il caso nel mese di gennaio del 1913, a darne comunicazione alla Pretura di Torino e, il 24 gennaio, a interrogare per la prima volta in maniera estesa i coniugi. Non ci sono invece notizie su eventuali convocazioni del “mago” da parte del magistrato. Quel che è certo è che il 5 marzo la fase preparatoria del processo era conclusa, e che sia l’imputato sia la parte lesa erano stati convocati presso una sezione del tribunale che si trovava in via San Domenico 13, ma senza alcuna fretta: l’udienza preliminare era fissata per le 8.30 del 5 maggio 1913.
In realtà, la vicenda era esplosa con grande evidenza sui quotidiani cittadini già da molto, e cioè il 10 febbraio. Quel giorno, La Stampa, sotto la firma di “Cini”, cioè l’avvocato e cronista torinese Lorenzo Rosano (1876-1920), i piemontesi cominciarono ad apprendere in dettaglio i contorni della vicenda.
I due coniugi erano sposati da una decina d’anni, erano contenti, ma avevano un cruccio: la mancanza di figli. A quanto pare, a soffrirne era soprattutto lui, anche per le battute maliziose degli amici. La moglie, “rosea e paffutella”, più giovane di lui, ne era dispiaciuta. Malgrado “la buona volontà”, la discendenza non arrivava.
Fu a quel punto che, forse perché in qualche modo era in vista una crisi coniugale, alla donna venne in mente un’idea disperata. Rivolgersi a Medeo ‘l fòl – Amedeo il matto, in piemontese – che a quanto pare era un personaggio squattrinato, sporco, piccolo, tozzo e molto robusto, che si dava arie da mago e sopravviveva facendo le carte alle donne – insomma, millantando di conoscere il futuro.
Andarono dunque a trovarlo e, da quel che s’intuisce, lui capì che poteva trarne vantaggio. Disse che la situazione era risolvibile, ma che sarebbero servite cento lire. Poi, consultate le carte, diede le prime disposizioni ai due coniugi: per dieci giorni l’uomo doveva nutrirsi bene, mangiando e bevendo a dismisura. Trascorso il periodo stabilito, Medeo si recò a casa loro, formulando scongiuri e strane preghiere incomprensibili. Poi però i toni cambiarono. Il “profeta” ordinò che si apprestasse la camera da letto e che, in sua presenza, si ripetesse “la scena della tentazione di Eva nel paradiso terrestre, quando si trovò alle prese col serpente”. Era il 1913, e il linguaggio non poteva essere troppo esplicito: ma il giornale, con le sue allusioni, faceva ben capire cosa fosse accaduto. Mentre i due coniugi si “davano da fare”, Medeo, con due candele in mano, stazionava ai piedi del letto ripetendo:
“Gesù, Giuseppe e Maria, fate che nasca il Messia!”
Autenticissimo!!, commentava La Stampa.
Alla fine Medeo rassicurò i due coniugi, non senza lesinare complimenti alla donna: sarebbe nato un bel maschietto. Quelli però trasalirono: volevano una femmina! Non si poteva cambiar sesso al nascituro? E lì il mago sfoderò il colpo da maestro: certo, era difficile, ma si poteva fare… Però sarebbe costato trecento lire, e stavolta i ruoli avrebbero dovuto essere invertiti: il marito a reggere le candele e il mago al suo posto!
Stando alle cronache, i due accondiscesero, e Medeo tornò a casa con la bella somma di quattrocento lire e con i due coniugi lieti e soddisfatti, ammoniti a non raccontare a nessuno del rituale: in caso contrario, la magia non avrebbe funzionato.
Senonché a quanto pare il mago se ne andò all’osteria, carico di soldi come mai nessuno lo aveva visto. Le chiacchiere cominciarono a girare, e giunsero ai Carabinieri della vicina stazione. Un brigadiere interrogò Medeo, quello cadde in contraddizione e alla fine svelò l’origine della somma, ma senza spiegare perché la coppia gli avesse dato così tanto denaro. Davanti ai militari, dapprima gli sposi rimasero ermeticamente muti; ma quando capirono che rischiavano di essere ritenuti coinvolti in qualche traffico losco svuotarono il sacco al cospetto degli allibiti Carabinieri. Non accusarono di nulla il mago Amedeo. Invece, erano di nuovo disperati, perché convinti che, avendo raccontato del rituale, la bambina non sarebbe arrivata.
Alla fine il mago fu denunciato per truffa, e contro di lui si aprì il procedimento giudiziario.
La ricostruzione del processo
Le norme sulla privacy e sulla segretezza degli atti non erano un granché, nel 1913. Il 20 marzo, su La Stampa, un lunghissimo articolo riportava ampi stralci del fascicolo giudiziario. Era piuttosto smilzo, in realtà: un rapporto della stazione dei Carabinieri di Viù, quelli che avevano scoperto la vicenda ai primi di gennaio del 1913 (il documento si trova in forma integrale nel libro di Julini, Cane e Santacroce alle pp. 5-8, insieme agli estremi della collocazione dell’originale presso l’Archivio di Stato di Torino). Nel fascicolo figurava pure un documento del sindaco di Traves, che forniva una descrizione “morale” dell’imputato. Per lui il “mago” era un tipo bizzarro, ma innocuo; le sue “stramberie” sembra fossero aumentate dopo il 1908, quando era caduto da un ponteggio dove aiutava dei muratori. Il suo certificato penale era comunque privo di annotazioni.
Nella versione integrale del rapporto dei Carabinieri c’erano alcuni particolari che non si trovano su La Stampa. Sembra che Amedeo Olivetti, nullafacente, frequentasse la casa dei coniugi da circa un anno e che avesse convinto la donna, partendo da giochi di carte e di prestigio, di essere posseduta dagli spiriti. Era per questo, diceva, che a quarant’anni non era ancora riuscita ad avere figli.
Costruì dunque due croci di legno da portare al collo, con appese delle monete francesi da dieci centesimi, e fece mangiare ai due sposi mezzo limone, promettendogli che il rituale avrebbe ben presto risolto i loro problemi. Visto che non accadeva nulla, nel dicembre del 1912 gli fece cambiare la disposizione del letto e li fece sdraiare sopra mentre lui li benediva tenendo in mano le croci. Al contempo, proseguiva il rapporto, Olivetti pronunciava parole incomprensibili. A quanto pare, Medeo era già riuscito a spillare 538 lire alla coppia, tratte dal libretto di risparmio di Metilde, oltre ad abiti e vestiario di vario genere.
Ciò detto, dei fatti piccanti cui alludeva La Stampa – in particolare, la richiesta di presenziare alle pratiche sessuali – nel rapporto dei Carabinieri non c’è nulla. Non solo: i coniugi fin dall’inizio avevano dichiarato di non avere alcuna intenzione di presentare querela contro Medeo; non avevano testimoni e, pur confermando lo svolgimento degli strani rituali, non si lamentavano di nulla, e non incolpavano in alcun modo Medeo. Anche le due croci in legno erano state distrutte su consiglio del mago, prima che i Carabinieri intervenissero.
Quanto al santone di paese, non negava di aver svolto i riti: si diceva anzi pienamente convinto della loro efficacia, dovuta alla sua “scienza divina”. Si era scelto due avvocati importanti, Gian Giorgio Garizio e Carlo Maria Roggieri (plausibile che lo assistessero pro bono, vista la risonanza del caso). La loro linea difensiva era già chiara a sufficienza: Olivetti era in buona fede (era anche stata chiesta una perizia di parte ad opera del professor Emilio Bellini, psichiatra della clinica Villa Cristina, che si trovava in borgata Lucento di Torino, allora in campagna), e al massimo i coniugi Borla, del tutto consenzienti, potevano dolersi della loro dabbenaggine e della loro credulità.
Medeo star a Torino
Difficile dire quanto Olivetti credesse alle sue elucubrazioni. Sempre il 20 marzo La Stampa scrisse che
non rimane più d’interessante nel processo che lo studio antropologico e psicologico di questo singolare tipo, dall’aspetto deforme e ributtante e conosciuto in tutte le valli di Lanzo, con fama di stregone, e contro il quale si potrebbe elevare, piuttosto che quella di truffa, l’accusa di esercizio abusivo dell’arte medica.
“Medeo ‘l fol” si è compiaciuto di farsi fotografare dal pretore in varie pose. Egli tiene però sempre in mano una pigna, perché, egli dice, vi è un dio d’una religione indiana (?) che è rappresentato con quel frutto di conifera in mano.
Il 6 maggio le cronache dei giornali torinesi traboccavano di cronache sull’apertura del processo, iniziato il giorno prima. In termini giudiziari la vicenda era modestissima – è chiaro che si trattava di un episodio fra i mille che passavano ogni anno davanti ai giudici di una grande città – ma le caratteristiche della vicenda inducevano i redattori dei giornali a occuparsene con un’attenzione quasi morbosa. Non era l’unico: il processo a Medeo era il caso del giorno, quello di cui tutti parlavano a Torino. Ogni volta che questo si muoveva per la città era preso d’assalto da uno stuolo di curiosi e di giornalisti, che gli rivolgevano domande e facevano battute…
La Stampa aveva seguito l’uomo persino quando era andato allo studio di uno dei suoi avvocati; riportava le sue bizzarrie, le ironie degli altri avvocati, le risate e le espressioni di disgusto della folla per l’aspetto e l’abbigliamento dell’uomo, e per la sua abitudine di sputarsi in una manica (per rispetto delle aule del tribunale, diceva, non voleva farlo in terra)… Al contrasto, in attesa che il dibattimento si aprisse, i coniugi Borla apparivano spauriti e imbarazzati, anche se rivestiti con il loro abito migliore. Buona parte del pubblico, fra le proteste, fu costretto a rimanere fuori dall’aula, mentre Olivetti ostentava sfiducia nella giustizia umana, e diceva di dover stare a piedi scalzi anche in tribunale, perché pure i profeti, nel Tempio di Gerusalemme, deambulavano così.
L’interrogatorio, almeno stando alle cronache, dettagliatissime, era descritto come quello fatto a un individuo bizzarro, a un marginale non privo d’ironia e di senso dell’umorismo – comunque in grado di schivare le domande più insidiose, quelle cioè sul fatto se denaro e altri beni gli fossero stati liberamente donati dai Borla. L’interrogatorio dei difensori era volto a far capire meglio al giudice la personalità abnorme dell’uomo, e il contesto in cui si era svolta la vicenda: siccome la volontà della donna è sempre ondivaga, aveva spiegato il profeta, aveva posto una carta da gioco (un asso di fiori) sul suo seno, così finalmente tutto sarebbe andato bene…
Dopo qualche altra schermaglia, il buffo processo fu rinviato a nuovo ruolo, e Medeo – scortato in piazza Castello dalla folla – si rifugiò nella birreria Urquel Pilsner, in via Genova, sempre più assediato dai curiosi e circondato da lazzi e risate. Già due giorni dopo, il 7 maggio, La Stampa avanzava l’ipotesi che il pubblico ministero, dottor Cavallerone, trasformando il processo da diretto a causa formale, intendesse chiudere la pratica in fase istruttoria, per inesistenza del reato, e liberarsi così di quella storia tanto irrilevante quanto ingombrante. La diatriba però andò avanti per tutta l’estate, e alla fine la pubblica accusa riuscì a far avanzare il procedimento.
Peraltro, la Gazzetta del Popolo del 6 maggio aveva riferito pure che il dottor Bellini aveva visitato Medeo in una stanzetta appartata del tribunale, asserendo poi che l’uomo era affetto da “demenza paranoica”, che era in preda a delirio di persecuzione e che l’attenzione di cui era oggetto lo inorgogliva, perché gli faceva pensare di essere un personaggio importante.
Eppure Medeo conservava una sua intelligenza pratica e un senso dell’ironia acuito dalle circostanze estreme in cui viveva. Nelle sue cronache per La Stampa del 28 dicembre 1913, fu ancora Rosano a riferire un episodio che gli aveva dato lustro in val di Viù:
[ …] dimostra talvolta anche della malizia raffinata e della cattiveria come quando, stato còlto a rubare delle ciliegie, predice al padrone che la sua pianta seccherà e di notte, nascostamente trivella con un succhiello il tronco della pianta stessa e così avvedutamente, che nessuno se ne accorgo. L’albero intisichisce e muore e Medeo ‘l Fol acquista fama paurosa di potere sull’umanità e sui nemici e persecutori specialmente, attirare i fulmini del cielo.
Un enorme impatto pubblico
La reazione popolare alla storia – esplosa senza ritegno su tutti i giornali – fu incredibilmente rapida e sguaiata. Sul Bollettino della proprietà intellettuale del Ministero del Commercio per il 1914, già il 28 febbraio del 1913 era segnalata la registrazione dei diritti su Medeo ‘l fol, “commedia popolare in un atto” in dialetto piemontese. Era stata scritta da Carlo Borelli, e rappresentata per la prima volta il 15 di quel mese al nuovissimo Teatro Trianon Kursaal di Torino, in via Viotti. L’8 marzo una farsa dallo stesso titolo era già in uno dei maggiori teatri di Torino, il Carignano, ma non è certo che si trattasse di quella di Borelli. Il giorno 13, infatti, nel dar notizia del rinvio a giudizio per truffa di Medeo, La Stampa riferiva anche di una querela per plagio: sembra esistessero due versioni, di due autori diversi, di Medeo ‘l fol.
Nel loro libro, Julini, Cane e Santacroce dedicano particolare attenzione alle reazioni popolari al dipanarsi della vicenda. Già qui sopra abbiamo visto quanto siano state rapide: una “commedia popolare” meno di venti giorni dopo il primo reportage noto, quello del 10 febbraio 1913. …Più veloce di un instant book! Ma importanza probabilmente maggiore – e decisiva, per la lunga memoria che si conservò dell’intera questione – ebbero i fogli volanti, quei volantini stampati con canzoni e poesie che venivano declamati nelle piazze dai cantastorie ambulanti e venduti a poco prezzo. Spesso, questa diffusissima forma di letteratura popolare riportava in rima notizie di cronaca o fatti eclatanti legati all’attualità, come nei testi ingenui e ridanciani di Amedeo ‘l fol.
Il foglio volante che vedete qui uscì probabilmente ai primi di marzo del 1913; non è l’unico esempio riportato dal libro di Julini e compagni. E’ proprio grazie a queste forme di letteratura che si scopre che la memoria di Medeo durò a lungo: ancora nel 1922, a Torino fu rappresentata con successo la commedia Medeo ‘l… furb, su testo di Lionello Fiorini e musica di Carlo Croce.
La condanna
Alla fine, il 27 dicembre 1913, quando per Medeo sembrava fatta, il processo ebbe una svolta. Nonostante la reticenza del marito, la donna sulla quale era stata operata la “magia” del santone, Metilde Borla, confermò i fatti, sia pur fra mille giri di parole. Ammise che la promessa di Amedeo Olivetti di farle ottenere un figlio era legata alla consegna del denaro. Che la cosa avesse sul serio comportato i rapporti sessuali di cui i giornali e le voci popolari parlavano da tempo (anche se La Stampa del 28 dicembre 1913 ne accenna, riferendo le dichiarazioni della donna rese il giorno prima davanti al giudice), la sentenza non l’afferma con chiarezza; nessuna delle parti in causa aveva interesse a chiarir troppo la faccenda e, tutto sommato, per il procedimento giudiziario non era fondamentale: bastavano le promesse a vuoto e il corrispettivo pagato.
Per questo, Olivetti fu condannato dal presidente della corte, il giudice Sancipriano, a un mese di reclusione e a cinquanta lire di multa, col beneficio della seminfermità mentale.
Non è chiara la sorte dei coniugi Borla. Le cronache del tempo parlarono di una partenza della coppia per l’America del Nord: un’emigrazione “forzata” dalle chiacchiere di paese; ma non si sa se fossero solo dicerie. Certo non doveva essere facile, nel 1913, reggere il peso di una storia del genere, e dei “crudeli e continuati motteggi” che la folla rivolgeva ai due coniugi; e dire che, in realtà, erano loro le vittime del raggiro.
Di Amedeo Olivetti, invece, sappiamo che sopravvisse per quattordici anni alla storia che lo rese celebre. Morì a Germagnano il 17 gennaio 1927, a settantun’anni, un’età tutto sommato avanzata, considerati i tempi e le sue condizioni.
Il 28 dicembre del 1913 La Stampa aveva raccontato nei dettagli il procedimento contro il santone di Traves, diventato quasi una leggenda nei ricordi della Val di Viù. Lapidarie le sue parole a commento della vicenda, pronunciate dopo che il giudice aveva letto la sentenza:
Con permesso, non ho capito niente.
Foto di No-longer-here da Pixabay