Atanasio Cavalli e gli spiriti prima dello spiritismo
Giandujotto scettico n° 133, di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo (23/02/2023)
Atanasio Cavalli fu una figura poliedrica. Come tanti intellettuali italiani del periodo compreso tra la Controriforma e l’Ottocento, fu prima di tutto un religioso cattolico. Nato ad Asti intorno al 1717, diventò ben presto un frate dell’ordine dei Carmelitani calzati e docente presso il grande convento carmelitano di Torino, allora all’apice della sua fama e potenza.
Come intellettuale, tuttavia, era interessatissimo alle scienze del suo tempo, soprattutto all’elettrologia e alla meteorologia. Una vita tutto sommato normale, a metà fra orazioni e studio dei parafulmini, come allora accadeva spesso in Italia. Ma i suoi trattati non si limitarono alle nuove frontiere della fisica: Cavalli scrisse anche di quelli che oggi chiameremmo poltergeist. Il motivo del suo interesse risiede, secondo il suo racconto, in un’esperienza diretta…
Mistero in un convento
Nella notte del 25 giugno 1764, il frate stava dormendo nella cella, quando percepì lampi, rumori, spostamenti di oggetti, senza che egli fosse in grado sul momento di spiegare scientificamente tali fatti, né di farlo il giorno seguente, quando mostrò i segni di quanto era avvenuto ai confratelli. Fu così indotto a studiare e a raccogliere fatti analoghi, cosa che, considerati i risultati, fece in maniera piuttosto frenetica.
Gli esiti delle sue ricerche e le sue interpretazioni furono infatti presentati nel trattato in sei capitoli Delle apparizioni ed operazioni de’ Spiriti, pubblicato a Milano nel 1765, cioè mentre era da tutti conosciuto come docente di teologia presso il suo convento.
Così esordiva nella prefazione:
Noi adunque non abbiamo certamente altro mezzo per assicurarci de’ fatti, che non veggiamo cogli occhi propri, che arrenderci a tali testimonianze, o il negare tutto quello di cui non siamo testimoni di vista (p. IX)
Cose portentose, sostenute dalla tradizione e “da autori degni di fede”. Non tutto ciò che ci è giunto riguardo ad eventi straordinari, spiegava Cavalli, andava rigettato per timore della falsità, anche quando si volessero tenere in debita attenzione le invenzioni fatte nel nome della fede. Ma il nostro frate neppure si appellava alla sola fede, oppure al fatto di dover essere ascoltato perché si riteneva dotato di una speciale autorità, quella dell’essere un membro del clero cattolico. No. Come uno spiritista del Diciannovesimo secolo, Cavalli chiedeva che fossero ascoltate soprattutto le testimonianze e che – non ultimo – si prestasse attenzione al fatto che, in molte parti del mondo, in ogni cultura, anche fra i “pagani”, esistevano lunghe tradizioni al riguardo delle manifestazioni degli spiriti.
Eccolo dunque presentare un vero e proprio programma nel quale si proponeva di dimostrare le ragioni dell’esistenza degli spiriti buoni e meno buoni, presentare le “prove” della loro azione nel mondo, e classificarli secondo la loro natura. Sembra di leggere le alchimie classificatorie di un ufologo moderno!
Una teoria degli spiriti
Ecco il modello messo insieme da Cavalli: gli spiriti esistono, perché in principio esiste il puro spirito, che è Dio; soltanto, scendendo la scala, gli spiriti diventano progressivamente più materiali. Del resto, la Scrittura e la tradizione classica mostrano con chiarezza la natura buona di alcuni fra questi spiriti, e cattiva di altri: in questo modo, la letteratura, la mitologia, il folklore, diventano piedistalli e presupposti per la casistica spiritica. Invocando questi contributi, Cavalli spera di prevenire le critiche a queste idee ormai imperanti nella cultura del suo tempo – siamo in pieno Illuminismo. Il nostro frate ce l’ha a morte in particolare col razionalista Pierre Bayle (1647-1706), peraltro uno dei padri dell’idea di tolleranza religiosa, francese fuggito nella libera Olanda.
Per Cavalli, è fondamentale l’accumulo: accumulo di racconti provenienti da luoghi, ere e pensatori diversi. È quello che lui chiama l’universale consenso di tutte le nazioni circa la presenza di entità soprannaturali che sostengono o tormentano gli uomini per permesso divino, cioè, per provarne ragione e fede. Per questo, si dilunga nel presentare racconti biblici ed extrabiblici, anche non cristiani, che “provano” la lunga consuetudine dell’umanità con questi esseri.
Cavalli non prende alla lettera soltanto i racconti del testo sacro ebraico-cristiano, ma anche tutto il resto delle tradizioni umane. Che inquadrasse quanto presentava in un contesto cristiano cattolico era inevitabile, visto che era pur sempre un religioso italiano di metà Settecento. Ma in fondo non è questo che viene più in luce nelle sue pagine. Nel terzo dei suoi sei capitoli, infatti, Cavalli s’impegna in ciò che lo interessava di più: dimostrare per via deduttiva che le cause dei fenomeni spiritici – al netto degli errori, degli inganni e di ciò che non si sa della realtà delle cose – sono di tipo fisico, ma comunque di origine soprannaturale.
Acquisire conoscenze migliori e riconoscere la realtà degli spiriti, per lui, significa avanzare nella scienza, non nelle credenze e nelle superstizioni: significa fare un favore alla ragione settecentesca, non tradirla. E gli spiriti sono in grado di provocare i fenomeni imputatigli perché agiscono per forze fisiche a noi sconosciute, o pochissimo note, come “la magnetica virtù”, ossia l’elettricità naturale, passione dei tempi di Cavalli, invocata spesso in quei decenni come causa del mesmerismo e di ogni fenomeno in apparenza insolito.
Solo ai due terzi dell’opera si apre la discussione di eventi spiritici contemporanei all’autore, o comunque recenti, ma è qui che si va al senso vero del lavoro.
Casi, casi, casi
Ecco quindi che Cavalli mette insieme un lungo elenco di episodi che, a suo dire, dovrebbero confermare l’esistenza degli spiriti. C’è, ad esempio, un caso francese di patto oltre la morte fra due nobili risalente al Seicento (un topos della letteratura metapsichica classica: due amici intimi si promettono che il primo dei due a morire si manifesterà all’altro per confermargli che esiste l’aldilà); un episodio del 1757, nel quale una suora cattolica in Belgio ha fenomeni di chiaroveggenza circa battaglie in corso in Europa centrale tra prussiani e austriaci. Cavalli non riteneva plausibile che quelli che chiamava possibili “riscaldamenti di testa” invocati dai negatori, potessero spiegare quei resoconti fatti da persone così eminenti, e corroborati da così tanti!
Forse che alla corte prussiana e fra i ranghi austriaci la suora che viveva in Belgio aveva suoi informatori? Impossibile! Quelli della suora erano tutti doni degli spiriti, ma – in ultima analisi – doni preternaturali fatti da Dio all’umanità, a sua gloria, confermabili dall’indagine, dalla logica e dall’analisi razionale di ciò che muove tutte le cose – sia gli atti umani, sia la grandine, sia una pietra che sembra piovere dal cielo. Perché, nella visione di Cavalli, questi eventi non erano fine a se stessi: erano la prova dell’azione, permessa dalla divina maestà, dell’attività degli spiriti, che ne erano, per così dire, una causa mediana rispetto a quanto stabilito per decreto divino.
Oltre agli spiriti buoni c’erano però anche spiriti cattivi, gli “spiriti folletti”, stavolta ammessi ad agire da Dio per provare e rafforzare fede e capacità volitive dei suoi. Anche in questa seconda parte dell’opera, Cavalli riprendeva il procedimento precedente: usava l’autorità della Scrittura, quella degli antichi, le testimonianze remote e la saggezza dei popoli, ma in modo più rapido di quanto fatto nella prima parte, “per non sfiancare più il mio leggitore con antiche autorità”. Così, riferiva che il religioso bergamasco Candido Brugnoli (1607-?), noto esorcista, nel suo maggior trattato di demonologia, l’Alexicacon (1668), descriveva numerosi episodi di quelli che poi saranno chiamati poltergeist, accaduti a sacerdoti o a donne per bene. Considerazioni analoghe valevano per il giureconsulto napoletano Alessandro d’Alessandro (1461 ca-1523) – compresa la lotta con un fantasma, svoltasi a Roma. Ma Cavalli si atteneva anche alle cronache del suo tempo, e si dilungava su un poltergeist constatato pubblicamente in una bottega di Salisburgo, in Austria, nel 1749, con oggetti che colpivano e ferivano gli astanti. Una donna, Anna Maria Baverin, fantesca del proprietario della bottega, interrogata, aveva confessato di essere posseduta da uno spirito maligno, e che quella era la causa dei fenomeni.
Un caso da Lanzo Torinese
Dall’Antico Testamento Cavalli giungeva dunque alle gazzette settecentesche che ormai cominciavano a recare da ogni parte i faits divers. All’episodio di Salisburgo dedicò parecchie pagine, a indice di quanto considerasse la prossimità temporale e la grande pubblicità del fatto come un carattere determinante per la presa in considerazione degli eventi.
Ma, dopo quanto aveva vissuto di persona nel giugno del 1764, lo studioso non si era limitato a radunare la letteratura che gli sembrava facesse al caso suo. Aveva condotto accertamenti di persona su quanto accadeva non lontano da lui, a Lanzo, nel Torinese.
Un dodicenne nativo di Cuneo, Francesco Andrea Mucesi, che abitava con lo zio Francesco Antonio Olivaris, era oggetto di eventi che nel settembre del 1764 spinsero Cavalli a recarsi sul posto per capire che cosa stava succedendo.
Dal dicembre di due anni prima, il ragazzino era “grandemente molestato nella propria persona senza sapere da chi”. Nella sua stanza volavano coperte, libri, quaderni… I vestiti erano tagliati a fettucce, rumori forti erano uditi anche da altri. Lo zio voleva mandarlo per qualche giorno in convento, dai cappuccini di Lanzo, per gli esercizi spirituali, ma – racconta Cavalli – prima ancora che l’uomo potesse spedire la lettera con la richiesta, Francesco gli si era accostato dicendogli che lo spirito gli aveva rivelato quello che voleva fare, ma che quello non voleva lasciarlo, “ancorché fossi in braccio del Papa”.
A quel punto, visto che i cappuccini di Lanzo erano forse un po’ insufficienti alla bisogna rispetto alla più potente “burocrazia del sacro” presente nella capitale piemontese, lo zio pensò di mandare il ragazzo a Torino, per ricevere una benedizione dal cardinale di Santa Romana Chiesa in persona, Giambattista Praero di Pralormo. Il ragazzo stava per partire, ma, ecco, di colpo gli caddero i capelli e, di seguito, anche i peli di una parrucca che gli era stata posta in capo per rimediare! Partì lo stesso e, al ritorno, il suo arrivo a Lanzo fu annunciato da una fitta e misteriosa sassaiola contro la casa del zio.
A Natale, mentre stava per dare gli auguri al convento dei cappuccini di Lanzo e portava il cappello nuovo regalatogli dal parente, si ritrovò l’indumento tagliuzzato completamente. E questo, secondo Cavalli, sarebbe accaduto in presenza di diverse persone, fra le quali il professor Giovanni Antonio Chionìo, docente di retorica all’Università di Torino.
L’elenco degli “scherzi” degli spiriti sarebbe lungo: piatti di stagno spariti e ritrovati sotto le ceneri del focolare, penne strappate dalle mani dei suoi compagni di scuola, sparizione della penna del maestro dalla mano del ragazzo, sotto lo sguardo dell’insegnante (si trattava del parroco don Magnetto, al quale il ragazzo era stato affidato per una notte, e che aveva constatato anche lui il poltergeist nella sua abitazione).
Di tutto questo Cavalli nel settembre 1764 raccolse testimonianza dalle voci dei protagonisti, fiducioso e lontano da qualsiasi retropensiero sulle dinamiche familiari, sui ruoli dei vari attori, sull’efficacia della sorveglianza e dei mezzi messi in atto per capire che cosa, in realtà, accadesse. Quando andò a Lanzo i fenomeni erano cessati da qualche mese, tanto da fargli dire che avrebbe dato molto perché anche “i filosofi” avessero potuto osservarli. A quel punto, per lui, non credere a quanto gli spiriti folletti potevano fare, non poteva che
provenire altrimenti che da pedanteria pretta, e genuina, o da ignoranza, o da impegno, o da pregiudicio.
Gli spiriti voluti dalla Provvidenza
Questa, in realtà, è la parte più viva e più “scientifica” del trattato. Al caso di Lanzo, infatti, Cavalli faceva seguire, quasi a corona dell’intera opera, il racconto di quanto capitato a lui a Torino la notte del 25 giugno 1764, nel prestigioso convento in cui viveva, nel centro della città, nell’attuale via Santa Teresa. Eravamo nel cuore del potere del cattolicesimo della capitale sabauda, cioè, in un luogo fondamentale per la confessione religiosa che a quei tempi aveva il monopolio pressoché totale della spiritualità dei piemontesi (con l’eccezione della minoranza protestante valdese, limitata però al ghetto in cui era confinata in tre valli alpine, e dei ghetti equivalenti per gli ebrei).
Era stato per metterlo alla prova, che la divina Provvidenza aveva permesso che le manifestazioni riguardassero anche lui e che avvenissero proprio in quel luogo augusto, con la facciata in splendidi marmi appena voluta dal cardinal Roero di Pralormo, rampollo di conti ricchi e devotissimi.
Quanto Cavalli descrive è paradossale. La sua camera in realtà è piena di macchine per esperimenti sull’elettricità, costruite da lui stesso – che in realtà è un naturalista – sulla base di conversazioni con il grande fisico Giovan Battista Beccaria (1716-1781), allora al massimo del suo fulgore di ricercatore presso l’università di Torino e lui stesso religioso cattolico. Il frate dispone di una macchina elettrica, in quel momento smontata, e di una “spranga di Franklin” (cioè, un predecessore del parafulmine promosso da Beccaria) sopra il tetto della sua camera.
Mentre è già a letto, la ruota della macchina, una di quelle ideate da Beccaria, prende a girare da sola, produce scintille e “un fiocco elettrico” che arriva sino al muro, mentre il manubrio si agita e gli sbatte sulla mano. Sconvolto, Cavalli asperge la macchina d’acqua santa e allora il moto cessa (magari perché una macchina elettrostatica come quella, in contatto con un conduttore ottimo come l’acqua, aveva fatto disperdere la scarica…).
Al mattino, altra sorpresa. Il frate si sveglia come sempre prima dell’alba, perché uno studente apre la porta, e scopre che i suoi libri sono finiti per terra e che formano “un bellissimo, vago disegno pentagono”. Abiti e oggetti sono spariti, altri sono in disordine, alcuni sono finiti in punti improbabili…
Cavalli racconta tutto a un confratello matematico e naturalista, padre Panfoia, quasi ridendo; poi la voce si sparge. Quanto accaduto, per lo studioso, non poteva esser dovuto né a suo “commovimento” e, in specie per quanto riguarda la macchina, a cause fisiche naturali. Ne concludeva di aver vissuto, di persona, l’azione di uno spirito cattivo, il “folletto”. Una sua eventuale “riscaldata fantasia” che gli avesse fatto fare cose di quel tipo non poteva essere certo “opera di un momento”. Stava benissimo ed era lucido e ragionevole, non era mai stato sonnambulo, una manifestazione le cui possibili cause discuteva a lungo nel libro, sulla base delle idee del filosofo tedesco Christian Wolff (1679-1754): che non gli si dicesse che tutto era stato causato da quello che noi chiameremmo uno stato di coscienza alterato.
Di uno scherzo o azione di suoi confratelli, poi, nemmeno a parlarne. Se ne sarebbe accorto. Alla fine di un lungo ragionamento, Cavalli concludeva, come qualsiasi sostenitore moderno delle “anomalie”, UFO, paranormale e qualsiasi altra cosa venga in mente:
mi resta a concludere che solo un maligno Spirito fu di tutto l’operatore […] la presunzione sembra, che debba stare in favor mio, come praticasi in tutti i Tribunali in tali casi.
Cavalli è abituato alla retorica tradizionale, e conclude facendo vanto di coraggio. Che cosa avrei guadagnato, nel raccontare una cosa del genere? Rischierei soltanto di esser preso in giro. Insomma, un accumulo di pseudoargomenti, o di argomentazioni deboli a sostegno di un’evidenza fragilissima, legata a presupposti culturali molto dettagliati, quelli di una specifica variante del Cristianesimo, così come si presentava a metà del XVIII secolo in Italia.
Il fenomeno dello spirito
In realtà, malgrado ostentasse l’autorità tradizionale della diade Scrittura-antichi, a conti fatti, si aggirava sulle soglie della modernità, interpretando la casistica raccontata nelle gazzette e indagando di persona sugli eventi con uno sguardo che per lui era il migliore fra quelli possibili; ma esitava a trarne le conseguenze in termini di metodi, di economia delle cause e di irrilevanza di ogni metafisica come fondamento delle conoscenze.
Significativo l’ampio uso che fece nel suo trattato dell’Apologia del congresso notturno delle Lammie, pubblicato nel 1751 dall’abate Girolamo Tartarotti (1706-1761), che in sostanza combatteva i processi contro le streghe, ma al contempo sosteneva che la magia esisteva (cosa per la quale aveva ricevuto lo scherno dell’illuminista Scipione Maffei).
Cavalli cercava di salvare i “fenomeni”: in un certo senso annunciava lo spiritismo ottocentesco, ma non si rendeva conto che non aveva senso separare i racconti di fantasmi, infestazioni, apparizioni, dalle culture, dal folklore (che pur invocava più volte) e dalle idee di coloro che li avevano prodotti. Avrebbe significato relativizzare anche il Cattolicesimo, cosa che, almeno per il momento, non se la sentiva di fare.
Nel 1770 Anastasio Cavalli ottenne di lasciare il saio e di trasferirsi a Roma, dove fece quel che più lo interessava già da molto: studiare la natura. Diventò professore di fisica all’Università Gregoriana. Lavorò con il conte Francesco Caetani al nuovo osservatorio astronomico installato sulla sommità del palazzo che il nobile possedeva in via delle Botteghe Oscure, pubblicando le sue osservazioni sul bollettino di Caetani, le Effemeridi romane. Capacissimo nel costruire strumenti scientifici, perfezionò l’anemometro e tentò la misurazione dell’intensità delle scosse sismiche.
Morì a Roma il 10 ottobre 1797. Erano passati trentatré anni dalla notte in cui in camera sua la macchina elettrica aveva scintillato, gli indumenti erano finiti altrove e i libri erano stati ritrovati a terra, disposti a pentagono. In un certo senso, Cavalli si può considerare uno dei padri della metapsichica italiana. Non che il Dio della chiesa cattolica fosse scomparso dal suo orizzonte – tutt’altro – ma, di fatto, la sua esperienza nel “supernormale” non fu fatta di visioni mistiche o di rivelazioni celesti o di locuzioni interiori con le figure del pantheon cattolico, ma di fenomeni.
In questo modo aveva già fatto moltissimo. Chiedersi se sia stato pavido nel fare ulteriori passi intellettuali in senso razionalista, oppure perché attribuisse così tanto valore alle “testimonianze autorevoli”, o perché non avesse cambiato del tutto la sua concezione del mondo sarebbe antistorico, oltre che poco onesto verso ciò in cui credeva.