Giandujotto scettico

Le tsantsa di Torino

Giandujotto scettico n° 140 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (01/06/2023)

Volete vedere una tsantsa, una di quelle teste umane rimpicciolite provenienti dall’Amazzonia? Potete farlo presso il Museo di Storia Naturale “Don Bosco” di Torino, poco oltre piazza Crimea, un’istituzione fondata da don Giovanni Bosco nel 1879 come ausilio didattico per gli studenti del Liceo Valsalice. Lì, in una teca, potrete ammirare diverse teste, provenienti dalle numerose missioni dell’ordine salesiano sparse per il globo.

Sono autentiche, oppure sono false? Rispondere in modo secco è meno facile di quanto si pensi. L’interessante storia di questo tipo di “preparazioni” di parti umane è stata raccontata dall’antropologa Frances Larson nel suo libro Teste mozze. Storie di decapitazioni, reliquie, trofei, souvenir e crani illustri (UTET, 2016), ma sul tema si può leggere anche questo articolo di Ivan Cenzi.

Sette teste per un museo

Nel museo voluto da don Bosco, riallestito nel 1969 dopo un periodo di inattività, si alternano oggetti esotici e reperti da tutto il mondo: rocce, conchiglie, fossili, apparecchiature scientifiche ormai in disuso del Liceo Valsalice, animali impagliati provenienti da terre lontane e oggetti fabbricati da varie popolazioni.

Nella teca dedicata alle tsantsa, le teste sono sette. Hanno occhi e labbra cucite e piume tra i capelli. Cinque sono sicuramente false, e sono fatte in pelle di capra o di altri animali, ma almeno una dovrebbe essere autentica, cioè esser stata realizzata con l’impiego di una vera testa umana. Su di essa, i curatori del museo hanno apposto questa didascalia:

Ecuador, trofeo dei tagliatori di teste: la “tsantsa”

Gli Shuar od Jivaros sono un popolo tra i più indomiti del Sud America. Abili guerrieri, prima dell’alba, tendevano imboscate ai nemici per vendicare gli antenati. Se prevalevano, mozzata la testa ai capi, estratto il cervello dal foro occipitale, con una tecnica sorprendente sminuzzavano ed estraevano il cranio. Così la testa messa a bagno in sostanze astringenti, prese da vegetali si rimpiccioliva notevolmente, non essendoci più il cranio, e trattata con sabbia infuocata veniva mummificata, mantenendo a perfezione la fisionomia del soggetto. Si cucivano le labbra perché lo spirito del nemico non potesse più nuocere, e si ornava il capo con penne di uccelli rari. Questi trofei erano conservati quali talismani portatori di fortuna e segni di potenza. I figli di Don Bosco, sul finire dello scorso secolo, sono giunti in Ecuador e li hanno civilizzati. Rispettando i loro costumi hanno portato la luce del Vangelo: non odio ma amore. Li hanno aiutati con tutti i mezzi, curato le loro malattie, educato i loro figli con lo stile sempre allegro di don Bosco, insegnato a coltivare la terra, ad allevare il bestiame. I missionari salesiani generosamente hanno sacrificato la loro vita per questi fratelli della foresta. A distanza di un secolo, questa triste costumanza dei tagliatori di teste, è solo più un lontano ricordo. Questo guerriero, che sentiamo fratello, suscita un sentimento profondo di grande pietà.

La storia che racconta la didascalia è lineare: gli indigeni dell’Amazzonia usavano realizzare le tsantsa come feticci, i missionari di don Bosco hanno portato, sia pur in maniera delicata, il Vangelo e la pratica è cessata. Peccato che la vera storia delle teste rimpicciolite sia un po’ diversa – e, francamente, più disturbante. 

Oggetti rituali

Jivaro non è il termine con cui gli abitanti della foresta amazzonica tra l’Ecuador e il Perù chiamavano se stessi. È un termine dispregiativo derivato dallo spagnolo che significa più o meno “selvaggi”. Loro preferiscono Shuar, che significa semplicemente “la gente, il popolo”.

E tra gli usi della “gente” della foresta, quello delle teste rimpicciolite fu quello che più affascinò gli europei venuti in contatto con loro. Gli Shuar le realizzavano svuotando le teste del cranio e del cervello, poi riempiendole con sassi e sabbia riscaldati e infine ricucendole. Alla fine del procedimento la testa poteva raggiungere una dimensione pari a circa un quarto di una testa normale. La pratica doveva servire a imbrigliare la potenza del morto, assicurando prosperità a tutta la tribù. La realizzazione di una testa poteva durare anni, ed era legata a complesse cerimonie; per lo più non si trattava di guerrieri uccisi in battaglia, ma di vittime cacciate apposta per la testa: certo una pratica terribile, ma applicata su scala molto ridotta. Una volta imbrigliato il potere della vittima, l’oggetto in sé aveva poca importanza: il punto importante era il rituale, non il reperto rimasto in mano alla tribù. Alcuni addirittura se ne sbarazzavano, seppellendolo o gettandolo via. Qualcuno lo teneva per ricordo. Non erano dunque “talismani portatori di fortuna”, non più di quanto possa essere per il culto cattolico il vestitino del battesimo o quello della prima comunione. 

Poi, arrivò l’uomo bianco. Per i conquistadores giunti in America del Sud, le teste rimpicciolite erano l’emblema del “selvaggio”, la dimostrazione che quelle tribù erano ancora primitive, quasi animalesche, pronte a uccidere per ricavarne feticci magici. Si arrivò a dire che le gli Shuar le ottenevano con complessi rituali di magia nera, che erano capaci addirittura di rimpicciolire persone viventi. 

Ma, a fianco dell’orrore, c’era il fascino per un’usanza così macabra e misteriosa. I coloni che si erano stanziati nella regione erano disposti a qualsiasi cosa per procurarsi le teste rimpicciolite e per poterle mandare in patria. Ben presto sorse un fiorente commercio: le tsantsa venivano barattate in cambio di stoffe, di machete e armi da fuoco, per poi essere esposte in Europa in musei, case d’aste, collezioni private.

L’ossessione dell’uomo bianco

Ben presto la domanda superò l’offerta. A cominciare dal 1880, gli europei stanziati nella regione aumentarono, attirati dal commercio della gomma e della corteccia di china. Gli Shuar inizialmente fornivano loro carne di cervo e maiali, oltre alle teste, ma con l’instaurarsi di centri abitati stabili, in grado di provvedere da soli all’allevamento e alla macellazione degli animali, le tsantsa rimasero l’unica merce di scambio delle popolazioni native. Per fortuna, la richiesta non accennava a fermarsi. Gli Shuar smisero definitivamente di compiere i complessi rituali che accompagnavano un tempo la realizzazione delle teste, e le trasformarono in un prodotto di consumo, di un qualcosa di moderno. Cacciavano le teste dei membri di tribù avversarie solo per procurarsi oggetti da commerciare, al prezzo di una pistola contro una tsantsa. L’aspetto spirituale non era più rilevante. Come scrive Larson:

Le teste rimpicciolite giunte nei nostri musei non sono i resti di uno stile di vita puro e primordiale, ma piuttosto una conseguenza dei rapporti economici sorti durante l’espansione coloniale e dell’influenza di una certa fantasiosa idea di che cosa fossero le “culture selvagge”. Le più celebri tribù di cacciatori di teste erano tutt’altro che “ferme nel tempo”: reagivano agli stimoli e ai gusti dello straniero.

Le armi da fuoco, oltretutto, davano agli Shuar la possibilità di cacciare ancora più teste, che a loro volta permettevano di acquistare più armi. Se le teste usate un tempo erano solo quelle degli uomini, gli Shuar cominciarono a ricavarne da donne e bambini, oppure dai coloni stessi, magari prese senza troppa fatica dai corpi non reclamati negli obitori delle città. In un certo senso furono proprio i bianchi, con la loro richiesta continua di tsantsa, a produrre sul serio quei “cacciatori di teste senza scrupoli” che avevano immaginato.

La pratica durò fino al Ventesimo secolo inoltrato, nonostante i divieti da parte delle autorità.

Com’era da prevedere, la richiesta portò anche alla nascita di falsi: teste di bradipo e di scimmia finivano senza troppi problemi sui banconi dei mercati, tassidermizzate e rimodellate in forma umana, mentre altre venivano ricavate da sculture in legno e da pelli di capra. A fianco degli Shuar, altre popolazioni che in precedenza non si erano sognate di produrre teste rimpicciolite, si lanciarono nell’affare. L’antropologa Frances Larson non ha dubbi: la maggior parte delle tsantsa che si trova attualmente nei musei europei è falsa:

I visitatori vedono questi reperti e li scambiano per i trofei raccapriccianti di un popolo selvaggio e ancora vergine, quando in realtà si tratta dei trofei raccapriccianti prodotti dalla fascinazione europea e americana per il concetto di popolo selvaggio e ancora vergine. […] I falsi parlano di morti senza nome, di poveri ed emarginati caduti vittima del commercio internazionale di pezzi da collezione esotici, che ben poco aveva a che fare con le credenze indigene della giungla amazzonica.

Per questo è così difficile rispondere alla domanda che ci eravamo posti: anche una tsantsa autentica – realizzata, cioè, con la testa di un vero essere umano – potrebbe essere un falso, cioè un oggetto creato per ragioni commerciali, per far contenti coloro che le chiedevano, ormai staccate dalla cultura che le aveva concepite e che stava soccombendo.

La storia dell’uomo bianco che civilizza il feroce tagliatore di teste è una storia semplice, lineare, in fondo ingenua, e, sotto molti aspetti, rassicurante. E, come accade spesso, è anche sbagliata.

Immagine di apertura: Teste rimpicciolite al Musée Testut Latarjet des Sciences Médicales (Rillieux-la-Pape, Francia), da Wikimedia Commons, pubblico dominio