La morta nella stanza d’albergo: il caso di Jennifer Fergate
I didn’t mean to drown myself. I meant to swim till I sank,
but that’s not the same thing.
(Joseph Conrad) [1]
La storia della morte di Jennifer Fergate la vedi scorrere davanti agli occhi come se fosse un film: il banco del check-in in hotel, il corridoio lussuoso, le cameriere al piano indaffarate intorno ai loro carrelli, gli occhi blu di Jennifer, unica nota di colore in un look total black, la tv sempre accesa, il cartello appeso fuori dalla porta, il colpo di pistola, nessuna verità da cui iniziare le indagini. Un mistero della camera chiusa in cui tutto avviene nell’arco di nemmeno 72 ore, tanto sincopate quanto, in realtà, immobili e silenziose.
Vent’anni dopo i fatti, a Lars Christian Wegner viene chiesto dal Verdens Gang (lo stesso giornale per cui aveva scritto un pezzo all’epoca) di occuparsi di nuovo di quel caso. Insieme a Benjamin Ree, ha allora ripreso in mano le carte delle indagini, ha parlato con i testimoni, è andato nei luoghi che potrebbero aver avuto un collegamento con la ragazza, cercando di capire cosa sia davvero successo in quella stanza. Il suo reportage, diventato anche un mini-documentario, è a oggi il testo più esauriente sul caso Fergate, punto di riferimento e di partenza per tutta la comunità che cerca ancora la soluzione del mistero.
Mercoledì 31 maggio 1995, ore 22.44
All’aeroporto di Oslo sono atterrati da poco gli ultimi voli di numerose compagnie aeree e, come capita spesso a quell’ora, la fila per l’accettazione in hotel è lunga. L’Oslo Plaza aveva aperto da cinque anni ed era uno degli alberghi più lussuosi e prestigiosi della capitale norvegese. Molti incontri segreti tra alti funzionari si sono svolti nelle sue stanze, non ultimi quelli del processo di pace fra Israele e l’OLP, a inizio anni ’90. Gli ultimi sei piani sono chiamati “La Torre”: da lì, in particolare dal ristorante del 34mo piano, lo Sky Bar, si gode una vista mozzafiato della città. Non a caso, quelle sono le camere più lussuose e costose, circa 2.900 corone svedesi a notte, 275 euro di oggi.
Al check-in sono di turno Evy Tudem Gjertsen e Sascha René Anonsen. Quest’ultimo ricorda bene come tutti gli impiegati cercassero di fare il più in fretta possibile, per non lasciare in attesa gli ospiti. È lui a effettuare la pratica di accettazione per la giovane donna con i capelli neri corti e gli occhi azzurri. Aveva prenotato il soggiorno il 22 maggio, ma proprio quella mattina aveva telefonato chiedendo di anticipare l’arrivo [2] a quella stessa sera e preparare la stanza per due persone, perché sarebbe venuta con un amico.
In camera vengono quindi aggiunti una coperta, un cuscino e un accappatoio. L’impiegata che ha risposto a entrambe le telefonate riferirà che la persona dall’altra parte ha parlato la prima volta in inglese, la seconda in un tedesco privo di accento, e nell’insieme le aveva fatto una cattiva impressione.
Ascoltati dagli investigatori all’epoca, Anonsen (che ha materialmente effettuato la pratica di accettazione) si dirà abbastanza sicuro che Jennifer fosse da sola. Gjertsen, invece, dirà di essere certa che fosse in compagnia di un uomo. Ha qualche incertezza solo riguardo i tempi, perché le è rimasto il dubbio di aver visto l’uomo in un secondo momento, un’ora dopo, forse quando è sceso a cambiare del denaro. Ma è sicura che ci fosse, leggermente più vecchio, sui 35-40.
Sul modulo, in effetti, nella camera 2805 vengono registrate due persone, Jennifer e Lois Fairgate. [3] Nazionalità belga, residenti a Verlaine in Rue de la Stehde 148; forniscono anche un numero di telefono e il nome dell’azienda presso la quale lavora almeno uno di loro, nonostante non fossero state esplicitamente indicate fra le sezioni da compilare.
Tuttavia, la strada e il numero di telefono non esistono, e nemmeno l’azienda Cerbis. Quelle informazioni non sono però del tutto false, quanto assai imprecise: il numero è sbagliato, ma il prefisso è della zona corretta; esiste un’azienda di nome Cerberus, e al posto di Rue de la Stehde c’è una Rue de la Station (che però non arriva al numero 148).
Durante la permanenza all’Oslo Plaza, [4] dalla stanza 2805 sono partite due telefonate verso il Belgio. I numeri digitati sono identici, tranne che per una cifra (un 8 e uno 0), ma risultano entrambi inesistenti. Il Kripos, il National Criminal Investigation Service norvegese, già nel 1995 aveva chiesto supporto alle autorità belghe per cercare di ricostruire a chi fossero dirette quelle telefonate, e aveva ottenuto un elenco di sette numeri simili a quelli composti da Jennifer. Nessuno si era preso la briga di contattare gli intestatari, però, così ci ha provato Wegner, che è andato a Verlaine per verificare se potesse emergere qualche elemento nuovo.
Un altro vicolo cieco: chi fra gli intestatari viveva già lì all’epoca dei fatti non ricorda di aver mai incontrato Jennifer. Tuttavia, fa notare Wegner, quei 7 numeri sono tutti in un raggio di 10-12 minuti di auto da Verlaine. Nell’insieme, tutto sembra puntare verso l’ipotesi che Jennifer provenisse da quelle zone o comunque le conoscesse abbastanza. Il punto è: abbastanza bene da poterle camuffare agevolmente, introducendo qua e là delle informazioni sbagliate? Oppure non abbastanza bene da ricordare dettagli precisi quali una cifra del numero di telefono o il nome esatto dell’azienda? È uno dei molti misteri che sono rimasti senza risposta.
Forse per l’affollamento al banco, o una certa abilità di Jennifer (e Lois?) nell’aggirare il problema, il modulo di check-in rimane incompleto: a nessuno dei due viene richiesto il passaporto.
Ricevono comunque la chiave e salgono al 28mo piano, nella Torre.
Le chiavi elettroniche usate all’Oslo Plaza registrano l’entrata nelle stanze, ma non le uscite: tuttavia sappiamo che qualcuno è uscito dalla 2805 non molto tempo dopo, perché il sistema registra un ultimo ingresso a mezzanotte e 21. Dovrebbe essere il momento in cui sono tornati alla concierge a cambiare il denaro (quindi, quando Evy Tudem Gjertsen potrebbe aver visto Lois).
Giovedì 1 giugno, ore 8.34.
Il mattino dopo probabilmente gli ospiti sono scesi a fare colazione, e sono rientrati in camera alle 8.34, per uscirne di nuovo prima delle 12.44, quando arrivano le cameriere per le pulizie giornaliere.
Quel giorno è di turno come governante Vigdis Valø. Nell’armadio, qualcosa attira la sua attenzione. È un paio di scarpe, che descrive di un bel colore brillante, un modello insolito: le piacciono così tanto che decide di prendere nota mentale della marca, che non conosce. A distanza di anni, quando ha parlato con Wegner, Valø non la ricordava più, ma non ha dubbi che le scarpe fossero lì. [5]
Dal momento in cui escono Valø e la sua aiutante, la porta della camera 2805 non si apre più fino al giorno dopo. Jennifer Fergate è arrivata dodici ore prima a Oslo, forse in compagnia di un uomo, ha preso alloggio nell’area più costosa di uno degli alberghi più lussuosi della città, presumibilmente ha fatto colazione, dopodiché è rimasta fuori per ventiquattro ore. Nessuno ha mai scoperto dove sia andata, cosa abbia fatto e soprattutto chi abbia visto tra giovedì e venerdì.
Venerdì 2 giugno, ore 8.50.
Dopo essere mancata per l’intera giornata, Jennifer torna in hotel e chiede di prolungare il soggiorno fino al sabato (nella prenotazione originale, la partenza era prevista proprio per il venerdì). Come prassi in queste circostanze, viene generata una nuova chiave, il cui ingresso è registrato dal sistema alle 8.50, e poi di nuovo verso le 11.
Sappiamo per certo che in questa occasione è sicuramente Jennifer ad aprire la porta, la ricorda nitidamente la cameriera al piano, Karin Løvbrøtte; la ragazza è arrivata dal corridoio alle sue spalle, l’ha salutata dandole il buongiorno e poi è entrata nella 2805. Qualche istante dopo si incrociano di nuovo brevemente: Løvbrøtte deve prendere qualcosa nel carrello e la vede appendere alla maniglia della stanza il cartello Do not disturb. Dopo aver passato ventiquattro ore altrove, Jennifer Fergate rimane chiusa in camera per le successive trentasei. Sta aspettando qualcuno? Riceve qualche visita? Verso le 20 Jennifer ordina un pasto in camera, brat-wurst con insalata di patate. Lascia una mancia molto significativa alla cameriera, 50 corone, unica circostanza tracciata in cui viene vista maneggiare del denaro.
Anche per questo Kristin Andersen la ricorda bene. Ha raccontato a Wegner che l’ordine che regnava nella camera, gli abiti della ragazza, il trolley, le avevano dato l’impressione che fosse una hostess: ne soggiornavano parecchie, in hotel, e tutte avevano queste caratteristiche in comune, soprattutto la valigetta con le rotelle, che ai tempi non era diffusa come oggi. Tuttavia, Andersen non ha riferito alla polizia questa informazione su cui invece è tornata ripetutamente con Wegner:
“Mi sono sentita sotto pressione durante la deposizione. […] Loro non mi hanno chiesto della valigia a rotelle, e io non ne ho parlato”.
E sicuramente la polizia deve averla tenuta sotto torchio per un po’: alle 20.23 di venerdì 2 giugno, Kristin Andersen è l’ultima persona a vedere viva Jennifer Fergate.
Sabato 3 giugno.
Nel corso dei due giorni precedenti, l’amministrazione dell’hotel ha notato che i Fergate non hanno pagato ancora nessuno dei servizi di cui stanno usufruendo, e ha inviato due messaggi sul televisore della stanza, chiedendo agli ospiti di contattare la concierge. In entrambe le occasioni, qualcuno ha segnalato di aver preso visione del messaggio cliccando il tasto OK, ma nessuno ha mai dato seguito alla richiesta.
Il primo messaggio è stato inviato alle 14.19 di giovedì, e dalla stanza hanno risposto alle 8.55 del venerdì, cinque minuti dopo l’ingresso registrato dalla chiave. A ulteriore conferma che in quell’intervallo di tempo nella stanza non c’era nessuno. Il secondo, invece, è stato inviato il venerdì sera, alle 20.57, non molto dopo la consegna della cena in camera. Il messaggio viene visualizzato alle 21.05.
Alle 19.36 di sabato, quindi, viene inviato un ultimo messaggio, cui qualcuno risponde di nuovo con un semplice OK. A inviarlo è Evy Tudem Gjertsen, che comincia a trovare anomala l’intera situazione, specie quando scopre che le cameriere non sono più entrate nella stanza dal giovedì, e che dal venerdì è appeso il cartello Do not disturb. Decide quindi di prendere la situazione in mano e chiede a Espen Næss, la giovane guardia giurata che lavora lì ogni terzo weekend del mese per arrotondare durante gli studi, di andare a controllare.
Sabato 3 giugno, ore 19.50.
Espen Næss bussa alla porta della 2805. Dall’interno arriva un colpo di pistola. Convinto che nella stanza ci siano due persone, e non volendo usare la ricetrasmittente in dotazione a tutto il personale, rimane qualche momento in attesa in una rientranza del corridoio, dopodiché prende l’ascensore e torna al pianterreno, ad avvertire il suo superiore. [6] Sono le 19.53. Appena allertata la polizia, il responsabile della security [7] torna al 28mo piano e arriva davanti alla camera alle 20.04.
Sono passati quindici minuti dallo sparo. Bussa tre volte. La porta è chiusa dall’interno, significa che solo la sicurezza può entrare, non il resto dello staff.
Non risponde nessuno. La guardia giurata apre con il proprio passepartout. La camera è buia e nell’aria c’è un odore acre, nonostante la finestra aperta. Si intravede qualcuno sdraiato sul letto. Il responsabile non vuole rischiare di inquinare la scena, per cui si fa indietro e attende la polizia. Che arriva mezz’ora dopo.
Quando finalmente entrano nella stanza, non sembra esserci molto margine di dubbio su cosa sia avvenuto. Suicidio. È in quest’ottica che la polizia apre l’indagine. Ed è forse questo bias iniziale che la porta a trascurare alcune possibili piste e informazioni.
Sul sito di Wegner è possibile visitare una ricostruzione in 3D della camera 2805. È un’esperienza interessante da provare, giunti a questo punto della vicenda. Perché è qui che la storia diventa indecifrabile: quella camera è piena di elementi completamente privi di senso.
Jennifer è sdraiata supina sul letto, la fronte squarciata da un proiettile, schizzi di sangue sulla parete, la pistola ancora stretta fra le mani, il pollice sul grilletto, i piedi che sfiorano terra con ancora indosso le scarpe di vernice nere. Indossa delle autoreggenti, una culotte e un abito di lunghezza media, tutti in nero. Una fascetta d’oro molto semplice al dito medio della mano destra, senza iscrizioni. Un Citizen Aqualand subacqueo al polso. È un orologio da uomo, piuttosto massiccio, tanto che ha dovuto far aggiungere un foro al cinturino per poterlo indossare. La polizia non è mai riuscita a risalire al luogo in cui era stato venduto, e nemmeno all’orologiaio che aveva cambiato le tre batterie incidendovi sul retro W 395 (o W 39 -, da leggersi come un prezzo?).
Le analisi post-mortem confermano quanto già evidente a occhio nudo: le mani sono pulitissime, nessun residuo di polvere da sparo, né segni provocati a volte dal rinculo di quel tipo di arma.
La pistola è una 9mm di fabbricazione belga, fra le preferite di forze di polizia, agenti segreti, mafiosi.
Il numero di serie è stato cancellato in maniera estremamente professionale e accurata, con l’acido. Era composto da due righe alfanumeriche; all’epoca il KRIPOS era riuscito a ricavarne dodici totali, ma ne mancavano tre per ogni riga. Lo Stato belga aveva tre diversi archivi per le armi: quello del produttore, quello centrale, e quello delle armi rubate. Ovviamente non erano digitali, quindi non fu nemmeno pensabile provare a incrociare le informazioni disponibili per cercare almeno di restringere il campo di ricerca. Al termine delle indagini, è stato dato ordine di gettare via tutte le evidenze fisiche del caso Jennifer Fergate. Per pura fortuna la pistola si è salvata, e Wegner è riuscito a farla sottoporre alle più avanzate tecniche moderne di rilevazione del numero di serie, ma ancora una volta senza successo.
La 9mm ha sparato due colpi: uno, che la polizia ritiene di prova, è passato attraverso il cuscino e il materasso per poi finire a terra, e quello mortale, verso il centro della fronte, fra gli occhi. Il punto in cui è stato sparato il colpo spiega le foto post-mortem disponibili su Internet, dove si vede abbastanza chiaramente il fotoritocco per coprire la ferita e rendere comunque riconoscibile il volto, ma soprattutto l’anomala impugnatura con cui Jennifer tiene la pistola: il pollice è ancora saldamente stretto al grilletto, che scatta in avanti per tornare in posizione “di riposo” solo quando le viene tolta di mano la pistola, con tanto di udibile click.
Nel caricatore rimangono sette proiettili.
Accanto al letto, c’è una costosa valigetta di pelle nera, di fattura tedesca, da uomo, completamente vuota eccetto che per delle munizioni di scorta: 25. Perché Jennifer si è procurata un numero di proiettili così sproporzionato? A meno che non volesse commettere un omicidio multiplo, perché portarsi dietro 34 proiettili? E dove si è procurata un’arma chiaramente illegale?
Nel resto della camera non c’è molto altro.
Il cadavere di Jennifer sul letto è pressoché la sola traccia di vita nella stanza, per paradossale che possa sembrare. La definizione che ne aveva dato Kristin Andersen calzava a pennello, è una camera completamente asettica. Il letto è sfatto, a differenza del venerdì sera quando l’aveva visto Andersen, e secondo Wegner sul letto erano presenti entrambe le coperte: il giovedì, quando Vigdis Valø aveva rassettato la camera, invece, ce n’era una sola e l’altra era stata messa da parte.
Fra le due poltrone, sotto la finestra socchiusa c’è un tavolino, dove è poggiato il resto del bratwurst ordinato la sera prima. Jennifer ne ha mangiato pochissimo, poco più di un boccone del wurstel e nulla del contorno. Ha però condito i pochi morsi con senape e ketchup, per poi riporre il piatto con le posate e le bustine di salse allineate.
L’autopsia troverà 50 ml di cibo non digerito nello stomaco, a riprova che è stato mangiato poco prima della morte, nonostante fosse stato ricevuto quasi 24 ore prima. Sulla scrivania sopra il minibar c’è un tovagliolo ripiegato: forse Jennifer ha conservato il cibo in frigo in quell’arco di tempo, anche se vengono in mente pochi cibi meno allettanti dell’insalata di patate del giorno prima.
Dal minibar ha preso inoltre un sacchetto di patatine, anche quello apparentemente lasciato a metà, e tre bibite: una Coca Cola, una Coca light, e una bottiglietta d’acqua o di succo di frutta. Ha usato un bicchiere. La polizia non ha rilevato alcun campione di DNA o altre tracce biologiche. [8] È stato prelevato e conservato solo un campione di sangue. Il DNA di Jennifer è stato estratto nel 2016, a seguito della richiesta di Wegner. Nella tomba anonima in cui è stata seppellita un anno dopo la morte, i resti del cadavere si erano conservati abbastanza bene, sono stati trovati anche numerosi denti intatti.
La ricerca del DNA nelle banche date internazionali non ha dato risultati, ma grazie ai denti è stato possibile effettuare l’analisi degli isotopi, [9] stabilendo che probabilmente la ragazza era cresciuta in un’area compresa fra il nord della Germania, le coste della Norvegia o la Danimarca. Dei pochi oggetti in suo possesso, molti erano di produzione tedesca.
Accanto al piatto c’è anche una boccetta di profumo, quasi completamente vuota. Ungaro Pour L’homme. Jennifer appare come una donna curata, con un gusto per il total black e gli accessori da uomo, una tendenza che andava di moda negli anni ’90. [10] Sulla poltrona dove, presumibilmente, ha mangiato il wurstel c’è una borsa da viaggio di tela verde acqua della Travelite, unica nota di colore nella stanza. Dentro, poche cose: un paio di collant, un top di seta e un bustier neri, e un secondo bustier e un reggiseno bianchi.
Gli altri vestiti sono appesi nell’armadio: uno smanicato, un camicione e una giacca, tutti e tre in colori neutri. Sulla panca accanto ci sono invece una giacca di pelle nera e un maglioncino ecru.
A tutti i vestiti è stata staccata l’etichetta, tranne alla giacca, dove è cucita in un modo che rende impossibile rimuoverla. È di una casa di moda tedesca. Anche il marchio all’interno delle scarpe nere è stato scucito, rimane solo la scritta Made in Italy. E basta. Non ci sono mutande, pantaloni, o gonne, compresa quella con cui crede di averla vista Kristin Andersen. Non ci sono nemmeno le scarpe di colore vivace che avevano attratto l’attenzione di Vigdis Valø. E non c’è neanche il trolley.
In compenso, tra l’armadio e la consolle ci sono una tavola e un ferro da stiro. Non fanno parte della fornitura standard delle camere del Plaza, ma nei rapporti d’indagine non è tracciato se e quando siano stati richiesti dalla camera 2805. Tutti i vestiti rimasti sono piuttosto gualciti (perché compressi nella piccola Travelite verde?), avrebbe avuto senso dare loro una rinfrescata se li si fosse indossati per incontrare qualcuno, ma Jennifer ha deciso diversamente.
Di fronte all’armadio si apre la porta del bagno. Sembrerebbe che Jennifer si sia fatta una doccia, uno dei due accappatoi è sul letto, e a terra c’è un asciugamano. Una saponetta usata sul lavabo e una bottiglietta di shampoo sulla vasca, entrambi forniti dall’hotel. Nessun effetto personale: trucco, spazzola, pettine, spazzolino e dentifricio, niente. Nonostante il look studiato e i denti sottoposti a costose cure odontoiatriche, Jennifer non ha con sé nulla per la cura personale.
Sul tavolo c’è una copia di USA Today ancora avvolta nel cellophane, e indirizzata alla stanza 2816, dall’altra parte del corridoio. Sul modulo di check-in, in effetti, era espressa la richiesta di un quotidiano internazionale (omaggio gratuito disponibile per tutti i clienti che lo desiderassero).
È l’unico oggetto dove sia stata trovata un’impronta digitale non appartenente a Jennifer. La rilevò la polizia nel 1995, ma non è mai stato trovato un riscontro, nemmeno quando venne inviata all’Interpol nel 2017. Probabilmente, la polizia ha pensato che si sia trattato semplicemente di un errore nella distribuzione dei quotidiani al piano e non ha ritenuto necessario contattare l’ospite della camera 2816. [11]
In realtà, forse perché sempre guidati dall’idea che si sia trattato di suicidio, gli investigatori norvegesi non hanno interrogato praticamente nessuno degli ospiti che hanno soggiornato al 28mo piano in quei quattro giorni, a parte i neo-sposi che avevano occupato la stanza 2801 la notte del 3 giugno, e che hanno dichiarato di aver solo visto la polizia quando erano tornati dalla cena al ristorante dell’hotel. È una scelta un po’ sorprendente, poiché la 2801 era separata dalla camera di Jennifer da una stanza rimasta vuota, e invece la polizia non ha ascoltato la coppia svizzera che si era trovata nella 2807, ovvero in quella che condivideva una parete con la 2805. Contattati da Wegner, comunque, anche questi ultimi, gli Zobrist, hanno raccontato di non aver mai incrociato Jennifer o visto nulla.
A notare qualcosa di anomalo è stata invece Borghild Strandenes, che alloggiava nella camera 2818. La polizia aveva comunque chiesto a ospiti e personale dell’hotel di segnalare qualsiasi cosa degna d’attenzione avessero notato, per questo il 9 giugno Strandenes si era fatta avanti per raccontare due dettagli che l’avevano colpita: una coppia straniera che aveva visto in albergo, e il fatto che il personale non le avesse nemmeno chiesto di compilare il modulo di check-in. Una tale mancanza di professionalità le era rimasta molto impressa. La polizia, tuttavia, non la ricontattò più.
Nel documentario di Wegner, Strandenes racconta anche di essere rimasta sveglia, una notte, a causa dei rumori provenienti da un’altra camera. Non era qualcuno che faceva baldoria, e non si sentiva nemmeno gridare: stava per chiamare la concierge quando all’improvviso calò il silenzio.
Wegner e i suoi collaboratori le hanno chiesto di ascoltare alcuni suoni e di scegliere quello che più somigliava a quanto aveva sentito quella notte: difficile da decifrare, sembra simile al rumore attutito di una porta che sbatte, ma potrebbe anche essere qualcuno dal passo molto pesante o che sta spostando un oggetto inerte sul pavimento coperto di moquette. Strandenes comunque occupava la stanza 2818, piuttosto lontana dalla 2805.
La polizia non ha interrogato nemmeno l’ospite che soggiornava nella 2804, la camera di fronte a quella di Jennifer, un uomo di origine belga. Anche Wegner ha avuto qualche difficoltà a rintracciarlo e, anche quando finalmente ci è riuscito, l’uomo si è rifiutato a lungo di parlare col giornalista. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, comunque, è stato l’uomo stesso – di cui Wegner non rivela l’identità, limitandosi a chiamarlo Mr. F [12] – a contattarlo e a confermare che si era trovato lì in quei giorni.
“È morta una donna lì, vero? Un suicidio, giusto? Quando ho fatto check-out mi hanno chiesto se avessi sentito o visto qualcosa, ma no, avevo dormito sodo e non mi ero accorto di niente”.
Il problema è che Mr. F ha lasciato il Plaza la mattina di sabato 3. Wegner sostiene di aver verificato il modulo di check-out e ha chiesto conferma al diretto interessato, ma la risposta è rimasta invariata: Mr. F ha trascorso una sola notte in hotel, quella fra il 2 e il 3 giugno. Espen Næss ha udito lo sparo la sera del 3. Nel 1996, Jennifer è stata seppellita in una tomba senza nome nel cimitero Vestre Gravlund, a Oslo, e il caso è stato chiuso come suicidio.
Wegner cerca ancora informazioni da chiunque possa fornirgliene, ma nemmeno nell’epoca di internet si è riusciti ad appurare qualcosa in più sulla vicenda. Naturalmente, nei forum e sui siti di appassionati le ipotesi e le analisi ossessive degli stessi indizi abbondano. La grande divisione è fra chi sostiene la teoria del suicidio e chi invece è convinto che si tratti di un omicidio. Entrambe le categorie ipotizzano piste sentimentali o spionistiche, ma nessuna delle due riesce a prevalere completamente sull’altra, perché rimane sempre qualche elemento fuori posto.
Una teoria molto in voga è quella che sostiene che Mr. F e Jennifer si conoscessero, forse per lavoro nei servizi segreti o perché amanti, e Jennifer abbia trascorso le 24 ore mancanti proprio nella 2804, dove potrebbe aver lasciato tutto ciò che non è stato trovato nella sua stanza: gli effetti personali, i prodotti da bagno, i pantaloni o le gonne. Questo spiegherebbe anche perché nessuno abbia mai dichiarato di averla vista da qualche parte, né nelle sale comuni dell’albergo né fuori, in un ristorante o in un negozio.
La morte sarebbe avvenuta – per mano di Mr. F o di Jennifer stessa – la sera del venerdì, e l’uomo avrebbe avuto tutto il tempo per cancellare ogni traccia del proprio passaggio nella vita della ragazza, per poi andarsene sabato mattina. Ma allora chi ha risposto al messaggio della concierge alle 19.30 di sabato? E cosa ha sentito Espen Næss quando ha bussato alla porta? Come avrebbe potuto il medico legale sbagliare di un giorno l’ora della morte e la scientifica non notare che il sangue che inzuppava il letto era secco?
Il colpo sparato proprio in presenza di un testimone è uno degli elementi a maggior sostegno del suicidio. Perché mai un assassino avrebbe aspettato di essere in presenza di un testimone, senza avere la certezza di poter fuggire dalla stanza? Tuttavia ci si chiede come mai nessuno nell’hotel sembri aver sentito il primo colpo, che non può essere stato così silenzioso, nemmeno attraverso il cuscino. E quindi qualcuno ipotizza che la versione di Næss non sia proprio esatta, e che abbia scoperto il cadavere in qualche altro modo.
Un’altra teoria narra invece di una donna ormai sola, originaria o legata per ragioni affettive a quella zona del Belgio, che sapeva di star andando a morire a Oslo, e per questo si è lasciata dietro piccole briciole di identità, magari nascoste dietro un codice noto solo a lei: Fergate è un cognome estremamente raro, e quasi del tutto inesistente in Europa; un po’ più diffuso è Fairgate, ma sempre nell’ordine delle poche decine. Verlaine è una cittadina sconosciuta, che non citi a caso sperando nella buona sorte di nominare un villaggio che esiste davvero. Le analisi forensi le hanno dato fra i 25 e i 35 anni d’età, ma si è registrata come ventunenne. Lois è un nome sia maschile sia femminile. Le poche etichette rimaste sugli abiti sono tedesche. Jennifer sembra cercare di lasciare una qualche traccia di sé prima di quel colpo che sapeva avrebbe concluso la sua vita.
Un po’ ovunque, quando si parla di lei, si tende a criticare l’operato della polizia norvegese che non ha raccolto campioni organici, non ha interrogato i testimoni, ha ignorato le numerose incongruenze, probabilmente attribuendole all’erraticità del comportamento di un aspirante suicida.
Qualcuno si è spinto oltre, e ha insinuato la possibilità che Jennifer non sia mai esistita. Che questa storia alla Agatha Christie sia una bella invenzione di Wegner, e tutte le foto facciano parte di una sua messinscena. Non è – per ovvie ragioni – una teoria diffusa. Tuttavia, è vero che Wegner è l’unico narratore di questa storia e, per quanto appassionato e coinvolgente sia il suo reportage, è altrettanto vero che qualcosa non torna: se gli archivi del Plaza sono stati eliminati nel 2010 e Mr. F non è stato interrogato dalla Polizia, come sono riusciti Wegner e Ree a scoprire che aveva occupato la camera 2804? È vero che l’attuale direzione del Plaza ha impedito loro di contattare le persone che lavoravano lì? In che misura? Perché hanno potuto intervistare Evy Tudem Gjertsen, Sascha René Anonsen, Kristin Andersen e Vigdis Valø, ma non Espen Næss, che con ogni probabilità ora fa tutt’altro mestiere, visto che ai tempi era uno studente universitario? Come mai del responsabile della sicurezza non si sa nemmeno il nome?
Gran parte della narrazione su Jennifer Fergate si basa su testimonianze e ricordi di persone che hanno avuto 22 anni per convincersi di aver visto qualcosa o qualcuno che non c’era, come accade sempre. Ma anche alcune delle informazioni più lineari non sembrano adeguatamente inquadrate nel contesto: perché un hotel lussuoso come il Plaza chiedeva ai propri clienti di contattare il “cassiere” mentre erano ancora ospiti dell’hotel? E come ha fatto Jennifer a prolungare il proprio soggiorno, il venerdì mattina, se non risolvendo quale che fosse la questione per cui doveva contattare il cassiere? E come mai quest’ultimo non è mai stato individuato?
I sistemi dell’albergo, compresi quelli di registrazione delle chiavi, funzionavano bene? Gli ingressi in camera potrebbero essere stati registrati male, oppure la camera non era chiusa dall’interno.
Possibile che nessuno l’abbia vista arrivare, in aeroporto, stazione, al molo? Possibile che nessuno l’abbia notata muoversi in città o in albergo? Interrogativi che restano, almeno per ora, avvolti nel mistero.
Per approfondire
La storia di Jennifer, come abbiamo già detto, è tutta nell’articolo di Wegner (aggiornato alla data 20/04/2019). All’interno della pagina c’è anche il link per la sezione dove è possibile esplorare la stanza in 3D.
Su Reddit, il thread più ampio e interessante dedicato al caso è qui.
Al momento in cui scrivo, non risultano libri dedicati a Jennifer Fergate.
Note
- [1] Non volevo annegare. Avevo intenzione di nuotare finché non fossi affondato, e non è la stessa cosa. – da Il compagno segreto e altri racconti, Marsilio 2007
- [2] Dalle fonti non è chiaro quale fosse la data prenotata originariamente.
- [3] Wegner e la maggior parte degli analisti sostengono che, nonostante il cognome sia scritto così sul modulo di check-in, Jennifer abbia invece firmato Fergate, sia sul modulo sia almeno in un’altra circostanza. Non sono riuscita a trovare questa presunta seconda firma e, onestamente, a me sembra che la firma si possa leggere anche Fairgate, ma la chiameremo comunque Fergate perché così è conosciuta.
- [4] Wegner non dice quando sono state effettuate le telefonate, e non è chiaro se l’informazione mancasse già nel rapporto della polizia oppure no.
- [5] Non è noto se Valø ne abbia parlato con la polizia ai tempi.
- [6] Come abbiamo già sottolineato, Wegner ha svolto un appassionato lavoro di ricostruzione e approfondimento, ma a volte molto lacunoso (ci torneremo più avanti): ad esempio, di Espen Næss non ci dice molto più di quanto riportato (e altro non si trova). Non è nemmeno chiaro se il frastornamento di quei primi istanti e la decisione di allontanarsi qualche minuto dopo siano stati raccontati alla polizia, o in che modo sia stata ricostruita la linea temporale di quei primi, frenetici momenti; è il momento della vicenda meno puntuale e affidabile, ed è riportato ovunque allo stesso modo, sempre a partire dalla descrizione di Wegner.
- [7] Anche su di lui nessuna ulteriore informazione.
- [8] Eppure, in quegli anni, in Norvegia già si faceva uso delle tecniche di DNA profiling: il primo omicidio risolto grazie al DNA risale addirittura al 1989, mentre nello stesso anno della morte di Jennifer, 1995, si svolse una famosa indagine in cui l’assassino di un’insegnante venne scoperto grazie ai resti di gomma da masticare trovati sulla giacca della vittima.
- [9] L’analisi isotopica esamina gli elementi chimici stabili che sono passati ai denti attraverso l’acqua bevuta dal soggetto, delimitandone le possibili aree di provenienza.
- [10] L’Aqualand della Citizen era un modello molto in voga, ma in generale gli orologi scuba erano una delle manie giovanili dell’epoca, tanto che li produsse (e vendette a vagonate) anche la Swatch. Anche indossare profumi da uomo era molto frequente, in Italia per un lungo periodo impazzò Fahrenheit di Dior.
- [11] Wegner non è riuscito a sapere nulla sulla persona che ha soggiornato in quella camera: tutta la documentazione d’archivio del Plaza è stata gettata via nel 2010.
- [12] La motivazione addotta per il soprannome è che l’uomo è originario della regione francofona del Belgio.
Foto di Alexandra von Gutthenbach-Lindau da Pixabay