Un “cuore nucleare”: il segreto della longevità delle sonde Voyager
Le sonde Voyager 1 e 2, lanciate nel 1977, sono arrivate a oltre venti miliardi di km dal Sole, tanto che i segnali che emettono impiegano quasi un giorno per arrivare fino a noi, ma continuano a funzionare e a trasmettere dati ai centri di controllo. Qual è il segreto della loro longevità?
La risposta è nella parola RTG, un acronimo che sta per “generatore termoelettrico a radioisotopi”, cioè un generatore di energia elettrica basato sul decadimento di un isotopo radioattivo che emette calore, per poi trasformare il calore in elettricità.
Ci sono vari elementi che si possono usare come “combustibile” per gli RTG, ma diverse ragioni fanno sì che quello ideale sia il plutonio-238, che decade in uranio-234 (e successivamente in altri elementi fino al piombo). Durante il decadimento esso emette soprattutto particelle alfa (facili da schermare perfino con un foglio di carta) e piccole quantità di altri tipi di radiazioni ben più difficili da schermare. Il suo tempo di dimezzamento di 88 anni significa che, dopo quasi un secolo, conserva ancora metà del suo “potenziale energetico” da decadimento radioattivo. In altre parole esso può continuare a fornire energia per decenni, come nel caso di Voyager. Ha un’ottima densità di energia (1 grammo di plutonio-238 produce più di mezzo Watt). Per evitare di disperdere materia radioattiva in caso di incidenti, di solito è usato nella forma di ossido di plutonio-238, un materiale ceramico molto resistente alla rottura, praticamente privo di tossicità chimica e stabile nel tempo. Viene poi ricoperto da un robustissimo schermo esterno in grafite e isolamento multistrato. Quando la missione Apollo 13 fu abortita nel 1970, la capsula di un RTG resistette intatta al rientro in atmosfera e all’impatto con l’Oceano Pacifico.
L’altra parte fondamentale degli RTG sono le termocoppie, che sfruttano un fenomeno noto come effetto Seebeck: una differenza di temperatura tra due conduttori elettrici diversi genera una differenza di potenziale. Normalmente le termocoppie servono per misurare la temperatura ma in questo caso vengono invece usate per generare corrente elettrica. Le termocoppie sono costituite da due fili di materiali conduttivi diversi, saldati alle estremità. Un’estremità delle termocoppie si trova nel contenitore e quindi si scalda, l’altro si trova all’esterno e rimane più fredda. La differenza di temperatura fa sì che attraverso il circuito passi una corrente elettrica. In questo modo il calore dissipato dal decadimento del plutonio-238 viene convertito in elettricità. Il rendimento è basso ma la sorgente è continua, ed è quanto serve per le missioni nello spazio profondo.
Man mano che il plutonio-238 si “consuma” e che le termocoppie si degradano, la potenza elettrica generata diminuisce, ma il calo è lentissimo: oggi gli RTG delle sonde Voyager producono circa la metà della loro potenza elettrica iniziale e potranno tenerle in vita ancora per diversi anni, grazie anche all’ingegnosità con cui la NASA è riuscita a ottimizzare le operazioni delle sonde. La loro elevata affidabilità è garantita anche dalla mancanza di parti in movimento.
Gli RTG sono sostanzialmente diversi dai reattori nucleari, all’interno dei quali avvengono in maniera controllata reazioni a catena di fissione nucleare, cioè reazioni in cui il nucleo di un atomo si divide in nuclei di atomi più piccoli, liberando nel processo un’enorme quantità di energia.
Nella storia delle missioni spaziali gli RTG sono stati usati da USA e URSS, non dall’Europa. Questo rende molto più complessa la gestione dell’energia per le missioni europee di esplorazione dello spazio profondo. Fin dal 2009 si parla dello sviluppo di RTG europei: vedremo se diventeranno disponibili nei prossimi anni.
Una curiosità: nel 1966 negli Stati Uniti furono impiantati 139 pacemaker alimentati con minuscoli RTG, molto più durevoli delle batterie usate all’epoca. Prima che le batterie al litio rendessero superflua tale tecnologia, il programma fu cancellato nel 1972, non tanto perché fosse pericoloso per i pazienti ma perché non si poteva escludere che qualcuno di loro venisse cremato dopo la morte, disperdendo così il plutonio nell’ambiente. Ma alcuni di questi pazienti continuarono a usare tranquillamente i propri pacemaker per più di quarant’anni.