La miracolata di Pettinengo
Giandujotto scettico n° 144 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (27/07/2023)
Nella seconda metà dell’Ottocento, l’inizio del processo di modernizzazione in Piemonte portò il Cattolicesimo ad avvertire una crescente minaccia alla propria influenza sulle coscienze e sull’opinione pubblica. A questa perdita di potere reagì costruendo una rete di periodici locali, di solito facenti capo alle diocesi dei capoluoghi di provincia o di altri centri di rilievo.
Una testata che faceva parte di questa fitta rete era il bisettimanale Il Biellese, tuttora in vita (esce ininterrottamente dal 1882). Come molte altre testate affini, ai primi del Novecento una parte considerevole del giornale era dedicato a cronache minute di eventi ecclesiastici, oppure a polemiche sempre più agguerrite contro gli avversari politici, in primo luogo socialisti e anarchici (e contro buona parte del resto del panorama culturale del tempo, accusato di aver ceduto alla modernità e di aver rinnegato la fede tradizionale e il magistero della chiesa di Roma).
Miracolo a Pettinengo
Il 15 settembre del 1908, certo di edificare i suoi lettori, Il Biellese pubblicò in prima pagina un’insolita corrispondenza. Arrivava da Pettinengo, ricco centro dell’industria della lana, nella parte centrale dell’attuale provincia, a quel tempo assai più popoloso di oggi. Si trattava del resoconto di una persona non nominata, ma “di assoluta fiducia”, che descriveva “senza giudicare”, con evidente intento apologetico, quanto sembrava fosse accaduto nel pomeriggio di due giorni prima, una domenica.
Alle 15 dalla chiesa parrocchiale era partita una lunga processione con in testa una statua della Madonna di Lourdes. Tra fiori, drappi ai balconi e tappeti sul selciato, era giunta sino alla borgata Gurgo, sostando davanti a una casa ancora più adorna delle altre. Vi uscì una donna in apparenza sui quarant’anni, certa Claudina Trivero, moglie del contadino Ottavio Mazzia. Era sostenuta ai fianchi da due donne. Cadde prostrata davanti alla statua, chiedendo alla Madonna di Lourdes di guarirla. Non si sarebbe alzata da lì, anzi – così dice il resoconto – finché non le fosse stata fatta la grazia. Stando all’autore della relazione, da sette anni era affetta “da paralisi quasi generale”. Non poteva camminare se non sorretta e, a quanto pare, era quasi del tutto inabilitata nelle mani.
Sentendo i clamori, il prete in testa alla processione, vicario Persia, raggiunse la statua, presso la quale la Trivero invocava a gran voce di poter continuare nelle sue preghiere. Persia acconsentì. Ed ecco il miracolo. La donna di colpo dice di sentirsi meglio, si alza, chiede di poter portare la statua insieme agli altri. Il prete le fa fare posto, fra la commozione generale, finché giunge alla chiesa dalla quale era partito il simulacro, piangendo e pregando insieme ai due figlioletti.
La folla grida al miracolo, la voce si sparge. La Trivero, “un po’ stanca”, rientra a casa, ma il giorno dopo eccola tornare in chiesa, fra le feste generali. Devotissima alla Madonna di Lourdes, avrebbe voluto andare in pellegrinaggio in Francia, ma – concludeva, senza alcun problema chi aveva scritto il pezzo per Il Biellese – la Vergine l’aveva anticipata, andando da lei, per sanarla.
L’entusiasmo della stampa cattolica
Il clamore crebbe rapidamente. Nel suo numero successivo, quello del 18 settembre, Il Biellese dedicò molto più spazio alla vicenda. L’entusiasmo era contenuto a malapena. Giovedì 17 a Pettinengo si era recato un inviato speciale del giornale. Aveva parlato con una zia della “guarita”, con un altro prete del posto, don Geremia Musso, e con altre persone. Inutile dirlo: tutti gli intervistati apparivano impressionati, convinti del grande miglioramento della donna (una delle interpellate era stata anche con lei presso un ospedale di Torino, dove la malata non aveva ottenuto alcun giovamento). Don Musso, che confermava la totale trasformazione della donna, che ora poteva lavorare e muoversi, aveva anche raccontato di una relazione fatta dal medico locale, che aveva attestato le condizioni previe della donna: un documento che sarebbe stato necessario per ottenere un posto su uno dei treni diretti al santuario di Lourdes.
Poi, finalmente, l’inviato era stato in casa della Trivero, l’aveva vista e le aveva parlato.
Trentanove anni, la sua malattia l’aveva colpita sette anni prima. Richiesta di raccontare com’erano andate le cose, all’inviato aveva chiesto di non insistere, perché ogni volta si commuoveva all’eccesso. Ora camminava e attendeva ai lavori di casa, come non riusciva a fare da molto tempo, e si recava a visitare il vecchio padre cieco, un’altra novità, per lei, visto che era bloccata nella sua abitazione, dalla quale al massimo, prima della grazia, riusciva al massimo a scendere in giardino, dove, in una nicchia, troneggiava una statua della Vergine.
Per corroborare il racconto, la donna si era recata allo stabilimento laniero Bellia, dove lavorava il marito Ottavio, trentottenne, che le aveva confermato i nomi dei due medici che l’avevano curata: i dottori Corrado Achille, che però era stato trasferito a Bra, nel Cuneese, e Luigi Savio, che lavorava nella vicina Bioglio. Il guaio è che pure lui, come la moglie, non era più in possesso dei certificati di malattia che avevano rilasciato, visto che avevano mandato il tutto al comitato che gestiva i treni gratuiti per Lourdes, per ottenere un posto su uno dei convogli. Anche lui, comunque, era speranzoso che la guarigione fosse definitiva e che, aumentando un po’ le forze, presto la moglie sarebbe tornata alla normalità. Ad ogni modo, sino a quel momento e sia pur nei limiti enormi della medicina del tempo, non risultava chiaro di quale tipo di patologia soffrisse la Trivero.
Presso la fabbrica Bellia, comunque, lavorava pure il sindaco di Pettinengo, il signor Piana. Fu il solo a tenersi più sobrio, dicendo che queste cose non riguardavano il sindaco, che lui non aveva visto la donna e che della questione dovevano occuparsi i medici.
A parte questa minima presa di distanza, in nessuno dei due articoli c’erano elementi che potessero indurre a ragionamenti critici. Tutto si risolveva in una cronaca trionfale da parte di cronisti già convinti o ben disposti verso storie di quel genere. Nient’altro.
Un’ondata di critiche
La mancanza di dichiarazioni da parte di medici, la scarsa chiarezza sui modi in cui il miglioramento della donna era avvenuto, la totale adesione di lei e della famiglia alle manifestazioni più classiche della religiosità popolare cattolica italiana era quanto di meglio poteva desiderare la stampa anticlericale e razionalista, a quel tempo assai agguerrita.
Il 19 settembre del 1908, sulla Gazzetta del Popolo di Torino comparve una corrispondenza non firmata ma dal titolo che era tutto un programma: In pieno Secolo Ventesimo. Nel tempo del progresso, della luce elettrica e della scienza – questo era il sotteso – circolavano ancora fantasie religiose come quelle sulle guarigioni miracolose.
Il giornalista del quotidiano torinese aveva parlato anch’egli con la Trivero. Meno propenso all’ossequio verso la religione dominante, il corrispondente ne rimarcava l’estrema emotività e il desiderio di esser creduta, ma questo – purtroppo – insieme a una totale mancanza documentale e di chiarimenti su caratteristiche, natura e andamento del disturbo di cui da anni soffriva. Disse che tutto era cominciato dopo un aborto:
Una paralisi parziale m’aveva colpita alla schiena ed alle braccia, di modo che non potevo più lavorare; non potevo neppur più accendere un zolfanello… Il medico curante – il dott. Caranda prima poi il dott. Savio – mi fece molte cure, dai bagni alle scosse elettriche; ma tutto inutilmente. Ultimamente dovevo andare a Lourdes col treno bianco; il dott. Savio mi fece una lunga dichiarazione medica, attestante la paralisi, che mandai a Torino, al canonico Ronco, per essere ammessa gratuitamente al pellegrinaggio. Disgraziatamente non fui ammessa, ma la grazia venne egualmente.
Le cure erano state abbandonate da un anno, e l’irrigidimento delle braccia, e, più di recente, delle gambe, era cresciuto.
Il cronista della Gazzetta incontrò ancora il vice-parroco, convintissimo, e il marito della donna, che confermava il netto miglioramento improvviso ma senza il trasporto religioso della Trivero. Niente di più, anche stavolta, se non qualche indicazione un po’ più utile per inquadrare meglio ciò da cui la “miracolata” era affetta da lungo tempo.
I toni usati in quell’occasione dalla Gazzetta del Popolo, comunque, erano ben poco rispetto a quelli del settimanale socialista di Biella, La Tribuna Biellese. Il giorno dopo, sotto il titolo Buffonate clericali, la credulità verso racconti di quel tipo era irrisa senza giri di parole, non senza trascurare, però, che gli stessi preti cattolici della zona avevano atteggiamenti riservati, se non apertamente infastiditi dal clamore per vicende come quelle della Trivero. Fra questi, monsignor Serra, parroco di Zumaglia, vicino a Pettinengo. Il guaio è che La Tribuna, invettive a parte, per classificare la protagonista (e vittima, in fondo) della storia ricorreva alla categoria pseudoscientifica più diffusa al tempo: quello dell’isteria, uno stereotipo maschilista molto in voga nella medicina di inizio Novecento:
Non vogliamo negare il miglioramento istantaneo della donna, dietro una spinta nervosa straordinaria. Abbiamo interrogato medici che la curarono e ci risposero: è un’isterica: il caso è non solo possibile, ma non esce dalla sfera della normalità: questi casi nelle cliniche dove si curano le malattie nervose si verificano tutti i giorni.
Se è plausibile che la patologia della Trivero avesse natura funzionale, e che fosse almeno in parte sostenuta da cause di tipo psicosomatico, il punto è un altro. O inserendola in un quadro specificamente confessionale (il culto mariano cattolico) o in una supposta categoria “scientifica”, quella del disturbo nervoso femminile, la si rendeva oggetto di un giudizio nel quale la sua vita, la sua esperienza – per non dire delle reali cause mediche dell’evoluzione della sua malattia – erano messe ai margini.
E che la stampa anticlericale quanto a capacità di analisi non stesse meglio di quella cattolica è confermato da un altro dettaglio. Per sostenere la natura isterica dell’episodio, La Tribuna Biellese faceva ricorso a questo aneddoto.
Ricordiamo il caso recente di una donna paralitica che attraversava un binario. Il treno stava per sopraggiungere e la povera donna, che si muoveva a passi di lumaca, non aveva più il tempo per fuggire. Improvvisamente le gambe si snodarono, e la donna saltò via a passo svelto e continuò a camminare. La paura aveva fatto il miracolo, agendo sulla psiche della malata. Così è del caso di Pettinengo. La Madonna ha merito nel miracolo quanto può averne il buon macchinista che guidava la macchina che spaventò e guarì la donna.
Il guaio è che questo aneddoto, come noi stessi abbiamo ricostruito per Query Online, è una leggenda, frequente nella polemica antireligiosa a cavallo fra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo. Per quanto ne sappiamo, comparve in Francia almeno dal 1892, per poi passare in Italia. Ne esistono analoghi già nel IV sec. a.C, nella Grecia antica, e poi nel Medioevo. È il tema stereotipo del malato immaginario che guarisce di colpo, fatto per divertire, per stupire o, in casi come il nostro, per irridere le convinzioni religiose. Nel caso di Pettinengo, dunque, diventò esso stesso parte della controversia, complicandola ancora di più.
Polemiche a non finire
La controreplica del cattolico Biellese, il 22 settembre, fu quasi inevitabile. Il giornale accusava i colleghi di aver riassunto male la vicenda, di voler dividere il clero locale in due partiti, quello dei “convinti” e dei “rammaricati”, mentre non c’era traccia di una cosa del genere. E criticava “i socialisti” della Tribuna Biellese per il ragionamento scorretto:
[…] quel famoso articolista si asside giudice del fatto e sentenzia ancora una volta: mentre nessun prete, che noi sappiamo, ha mai proclamato l’esistenza del miracolo, egli proclama che assolutamente non esiste. Fategli largo! Fategli tanto di cappello!
In realtà, questa era un’equivalenza sbagliata – una fallacia argomentativa che si risolveva in un artificio retorico che si può articolare in questo modo: “Tu neghi una cosa, dunque sei imprudente ed eccessivo; io, invece, quella stessa cosa non l’affermo, dunque sono cauto e misurato – perciò, sono più affidabile di te”.
Nuovi dettagli
Il 23 settembre, con una corrispondenza da Zumaglia per la Gazzetta del Popolo emersero elementi di contorno che dipingevano per la protagonista del fatto una situazione familiare complicata sotto il profilo della salute psichica. I toni erano quelli classici del tempo – quelli della maledizione e del peso delle tare ereditarie. Un peso fatto gravare sulla “miracolata” del quale, probabilmente, avrebbe fatto volentieri a meno, con o senza grazia divina. Una “egregia persona” di Zumaglia, che asseriva di conoscere bene la Trivero, spiegava:
Innanzi tutto bisogna non dimenticare che nella famiglia della Trivero Claudina non è nuova la malattia dalla quale lei era affetta; già una sua sorella, di nome Celerina, che si suicidò, sofferse di una malattia, del medesimo genere e fu anche nevrastenica. Un nipote della Claudina ha il ballo di S. Vito, ed il padre, vecchio ormai di 89 anni, è un alcoolista impenitente e fu, per qualche tempo, fuori senno. “Come vede lei, tutto ciò può indurre a credere che la Claudina, nevrastenica come la sorella, sia guarita per autosuggestione”.
Finalmente, tre giorni dopo, il 26 settembre, sulla Gazzetta del Popolo giunse anche la voce di uno dei medici curanti della protagonista. Si trattava del dottor Luigi Savio, che aveva la sua condotta nel paesino di Bioglio, a soli tre chilometri da Pettinengo.
Savio aveva letto cose imprecise su di sé – anche sulla Gazzetta del Popolo – e per questo voleva chiarire i termini della questione. Tanto per cominciare, non aveva tentato cure, né a base di bagni né di elettricità, e il motivo era che, col suo eloquio precario, la donna aveva rifiutato ogni tentativo. Voleva solo che le fosse riconosciuta la sua condizione. Si trattava di una persona affetta “da isterismo classico” e da “una malattia di maggiore importanza”. L’aveva visitata quattro volte, e per Savio tutto induceva a pensare a un caso di suggestione, in cui la “guarigione”, se c’era, si doveva al fatto che i sintomi avevano in larga misura natura psichica. Fatto anche più curioso, qualche giorno prima Savio era andato a casa della Trivero, e non avendola trovata, si era intrattenuto con l’anziana suocera. Richiesta se la nuora fosse “completamente guarita”, aveva risposto:
Dicono tutti che sia guarita, ma finora io me ne sono accorta poco o niente del tutto.
Tre giorni dopo, il 29 settembre, un’altra corrispondente della Gazzetta del Popolo – si direbbe fosse una donna – pubblicò sul quotidiano quanto stavolta le aveva riferito, a Pettinengo, il dottor Savio. Era convinto, dalle visite fatte, che parte dei sintomi della donna avessero origine psicogena, ma nel certificato che aveva preparato su richiesta del marito, per il viaggio a Lourdes poi saltato, aveva preferito parlare soltanto di paralisi progressiva, cioè di una componente organica della patologia… Di quel certificato, inviato a Roma, peraltro, non c’era più copia. Incrociato il marito della donna, Ottavio Mazzia, questi ripeté che per lui Claudina era guarita del tutto. Savio preferì proseguire la sua strada, senza commentare ulteriormente.
In quell’occasione la corrispondente della Gazzetta riuscì anche a incontrare il vescovo cattolico di Biella, monsignor Giovanni Masera (1867-1926). Questi gli riferì che aveva iniziato un’indagine per capire cos’era accaduto, ma si mostrò assai prudente e riservato. Oggi è possibile dire che quell’indagine, persino dal punto di vista particolarissimo della chiesa cattolica, dovette concludersi con un nulla di fatto.
Poi ci furono gli ultimi scampoli della polemica locale. Probabilmente per tirarsi fuori dalla diatriba giornalistica ormai degenerata in rissa, e nella quale i dati controllabili erano ben pochi, il 2 ottobre sulla Gazzetta del Popolo il dottor Savio fece pubblicare una sua lettera in cui diceva di non avere certezza che nella famiglia della miracolata gli altri malati fossero dei “nevrastenici”, e aggiunse che dell’intera vicenda si era occupato fin troppo, e che non aveva più alcuna intenzione di parlarne…
L’indagine del “dottor Ry”
In tutta questa vicenda forse il tentativo più articolato d’indagine e di spiegazione fu condotto da una persona che si recò appositamente a Pettinengo da Milano, non a fini giornalistici o per mera curiosità, ma con l’intento esplicito di studiare l’evento. Ed è interessante che a farlo fu una figura oggi poco nota di medico, il milanese Alessandro Clerici (1865-1931), che fu – soprattutto – uno dei primi divulgatori scientifici dell’Italia moderna.
Per decenni, sino alla sua morte improvvisa, Clerici scrisse di scienza in maniera efficace dietro lo pseudonimo di Dott. Ry sul maggior quotidiano del nord, il Corriere della Sera.
Fu così che il 3 ottobre del 1908 il Dott. Ry pubblicò su quel giornale un lungo articolo sul “caso Claudina”. Clerici non si era limitato a esprimere sull’episodio una valutazione a distanza. Dopo che la storia era saltata fuori, era andato di persona nel centro del Biellese, e aveva interrogato la donna. Per lui non c’erano dubbi: si trattava di “una nevropatica”, da anni affetta da disturbi della motilità che oggi definiremmo di natura psicogena.
Volendo capire se i disturbi descritti potevano avere una base organica, si era recato nel Biellese: nel caso in cui così non fosse stato, per lui l’evento avrebbe perso “ogni rarità”. I disturbi “nevropatici”, assai frequenti nella sua esperienza, erano caratterizzati da bizzarria e instabilità dei sintomi e, in un certo numero di casi, dalla loro remissione totale o almeno parziale sotto l’azione di uno stimolo esterno, o anche delle aspettative psichiche della persona.
Discutendo con la donna, Clerici era attento a capire se in lei vi fossero segnali che potevano far sospettare che i suoi sintomi avessero causa in una malattia organica: sia a un esame generale, sia sulla base delle domande fatte, per lui tutto spingeva verso una risposta negativa.
D’altra parte, mentre questo lavoro di eliminazione si compieva, grazie alle informazioni della stessa malata, s’ imponeva per via diretta la diagnosi di disturbi nervosi funzionali pel quadro generale della malattia, pieno di oscillazioni irregolari, di complicazioni fuggevoli e sopratutto di contraccolpi bizzarri sulle funzioni del sentimento e della volontà, per la costituzione e il temperamento della Claudina quali si rivelavano mediante alcuni dati dell’esame fisico e mille particolarità del modo di esprimersi e di agire, per la specie delle fasi, infine, con cui si era realizzata la guarigione, quali venivano con una nettezza mirabile rievocate dalla mente del soggetto, ancora tutta vibrante della emozione irresistibile l’elaborarsi confuso delle speranze in occasione delle pratiche fatte per partecipare al pellegrinaggio di Lourdes, il fissarsi dell’idea per contrasto colla delusione provata per l’esclusione dal pellegrinaggio, l’intensificarsi dell’idea colle immagini di senso al ricordo della statua della Madonna di Lourdes esistente nella chiesa stessa del villaggio, il raccogliersi in folla dei ricordi e delle speranze nell’ansia dell’attesa alla notizia che la processione sta per giungere, e infine, sotto l’impressione attuale dello spettacolo della processione, lo scatto decisivo della valanga emozionale…
Un caso per nulla infrequente, nella pratica medica di Clerici – anzi, banale, per lui – se non per la grande pubblicità della quale, in maniera più o meno fortuita, l’episodio aveva goduto. Era l’ennesima prova con cui poteva agire la molla più forte dell’attività umana: il “sentimento”.
Certo, oggi si resta perplessi a fronte del paternalismo e dei toni di Clerici. Se è vero che invocare il soprannaturale per un evento di questo genere era inutile, il tentativo di sciogliere ogni inquietudine, ogni remora e l’incapacità di assegnare un significato culturale, esistenziale, antropologico e sociale alle parole e alle azioni di questa donna era anch’esso un atteggiamento a dir poco discutibile.
Un’altra “miracolata”
Quando sul settimanale cattolico di Biella che aveva lanciato per primo la storia di Claudina Trivero l’eco si era già spenta, ecco un un ultimo articolo degno di nota. Ancora una volta, comparve sulla Gazzetta del Popolo, il 9 ottobre del 1908. Com’è tipico di queste vicende, qualcuno tirava fuori un’altra vicenda, che appariva per molti versi analoga a quella di Pettinengo.
Era, nemmeno a dirlo, un altro medico, che purtroppo si firmava soltanto con la sua sigla, A. P. Voleva raccontare quanto lui stesso aveva visto di persona, trent’anni prima (dunque, prendendo la cosa alla lettera, nel 1878) presso la casa di pena femminile di Torino, che era posta nella zona di Barriera di Nizza, oggi piazza Carducci, nella parte sud-orientale della città.
Da parecchi anni vi era detenuta una donna di origini calabresi, certa Russo, condannata per aver crivellato di pugnalate il marito. Stando al dottor A. P., subito dopo aver compiuto il delitto la donna era caduta a terra, priva dell’uso delle gambe. Incapaci di curarla in qualsiasi modo, da allora si trovava nell’infermeria del carcere, paralizzata. Uno dei medici del carcere, che ruotavano ogni tre anni, considerandola un’isterica, per provare a guarirla propose una “scossa morale”: avrebbero dovuto farla balzare in piedi accendendole della paglia sotto il letto! L’autore dell’articolo spiegava che, per fortuna, il primario medico del carcere, barone Alberto Gamba (1822-1901), studioso illuminato e di idee di progresso, disgustato all’idea, non aveva acconsentito a quella “prova brutale”.
Parecchi mesi dopo, ecco il “miracolo”. Dal suo letto, la donna aveva sentito cantare le lodi alla Madonna da parte delle altre detenute, in un’area prospiciente la chiesa, che era presso l’infermeria, e – detto fatto – si alzò senza problemi e si andò a unire alle altre detenute. Quelle, nel vederla e conoscendone la condizione, cominciarono a definirla a gran voce “la santa”. Seguì un’inchiesta amministrativa. La donna, ormai in grado di camminare da sé, sarebbe stata trasferita ad altro reclusorio, e della vicenda non se ne parlò più. Per A. P. c’erano pochi dubbi: in persone di quelle condizioni, sofferenti e impedite per mille motivi, disturbi anche gravi di natura funzionale potevano sparire di colpo. Attribuirne la scomparsa alla religione era il modo più facile per spiegarli, ma anche, in sostanza, per niente necessario.
Ecco. Forse è questa una delle cose che ci lascia questa storia. Per rendere conto in maniera sensata di manifestazioni come quella di Claudina Trivero il ricorso a una super-causa, addirittura fuori dall’ordine naturale, non vale la pena. Quando si sentono cronache affrettate di miracoli, sarebbe opportuno tenerne conto, oggi come ieri.
Foto di Sebbi Strauch da Pixabay