Paolo Maria Terzago e i meteoriti-killer dalla Luna
di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Nella storia della scienza le controversie su chi sia stato il primo a fare una scoperta, o a inventare qualcosa, molte volte hanno un interesse relativo. Per quanto un individuo possa esser stato in gamba nell’intuire qualcosa o nel fare un primo passo, è più importante spiegare chi, fra i pionieri di una disciplina, abbia presentato i suoi modelli e le sue teorie in maniera coerente, aprendo la strada operativa a sviluppi ed applicazioni fruttuose e praticabili.
Un caso classico è quello della scoperta della provenienza extra-atmosferica dei meteoriti, e della natura astronomica di meteore luminose e grandi bolidi.
Da dove arrivano i sassi celesti?
In Italia, è giustamente celebre il naturalista toscano Ambrogio Soldani (1736-1808). Deve essere considerato uno dei fondatori della micropaleontologia, ma forse più spesso Soldani è ricordato per il suo libretto del 1795, Sopra una pioggetta di sassi…, che documentava una caduta di frammenti meteorici avvenuta nel Senese l’anno prima. Ne delineava un’origine “celeste”, ma non chiaramente spaziale. Certo, escludeva le cose decisamente errate, come l’idea antica che si trattasse di pietre scagliate dalle eruzioni vulcaniche, ma non riusciva ad andare oltre la teoria, tipica di quegli anni, che i “sassi” si formassero nell’atmosfera, per l’azione dell’elettricità temporalesca.
Quasi in contemporanea, il fisico tedesco Ernst Chladni (1756-1827) faceva ragionamenti di ben altra portata. Il suo libretto, Über den Ursprung der von Pallas gefundenen und anderer…, uscito un po’ prima di quello di Soldani, non è importante perché, precedendo l’italiano, avrebbe vinto una specie di sprint, ma perché aveva ragione sulle cose fondamentali.
Tanto per cominciare, è il frutto di un lavoro sistematico di valutazione delle prove a favore di una o dell’altra ipotesi sull’origine delle meteore celesti e dei meteoriti, e di un dialogo fittissimo con suoi pari, tedeschi e di altri paesi, che non ha paragoni con gli scambi intercorsi fra Soldani – che si occupò casualmente di meteoriti – e altri scienziati.
E poi, Chladni legava la luminosità estrema dei bolidi e la loro velocità sia alla massa meteoritica, sia al fatto che dovevano provenire dallo spazio extra-atmosferico. Era davvero in anticipo sui suoi tempi, perché, sia pure insieme ad altre idee, propose la soluzione giusta al problema: i “sassi” probabilmente provenivano da altri corpi celesti frammentatisi nel passato e che vagavano da chissà quanto fra i pianeti. Dopodiché, fu anche uno dei fondatori della meteoritica, in grado com’era di confrontare la composizione delle rocce terrestri con quelle provenienti dallo spazio, tanto da crearne una raccolta che ora si può visitare all’Università Humboldt, a Berlino.
Un dibattito vivissimo
La pubblicazione del lavoro di Soldani, nel 1795, ebbe comunque un merito notevole: la polemica sull’origine atmosferica dei meteoriti suscitò diverse reazioni. Il naturalista Lazzaro Spallanzani (1729-1799) esaminò un frammento fra quelli caduti presso Siena e scrisse al feldmaresciallo Johann Wilczek, plenipotenziario austriaco per il Milanese, per il cui tramite lo aveva avuto, irridendo le idee di Soldani sull’elettricità atmosferica.
Quel fingere un aereo ardente vulcano nel seno della nuvola fulminatrice, quell’attribuire a dei solfi, dei bitumi, degli olii, accompagnati da sovrabbondante elettrico fuoco la virtù di rassodare in pietre delle sottilissime sostanze terree e minerali accumulate in grembo alla nuvola; quell’immaginare vetrificate in massima parte coteste pietre, senza che dal fuoco se ne struggano le piriti, senza che il quarzo punto ne soffra; quel supporre la quetissima cristallizzazione di altre pietre in mezzo d’un vortice tumultuario veementissimo, e d’un irrequieto vulcano; quel volere questa cristallizzazione nata dal fuoco, quando ha decisi caratteri d’essere stata prodotta dall’acqua; questi ed altrettanti pensamenti (lo ripeto confessando la mia ignoranza) sono strani per me, e fanno urto al mio spirito. (Lazzaro Spallanzani, Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti, lettera del 18 febbraio 1795, Milano, 1795, p. 195).
In realtà, i tempi erano maturi, nella scienza europea, per testare varie ipotesi più o meno plausibili sull’origine delle meteore e dei meteoriti. In questo senso, Soldani, pur sbagliandosi, era parte di una strada moderna, quella degli “elettricisti”, che nell’ultima parte del Settecento volevano spiegare mille cose con le correnti elettriche, entusiasti per gli esperimenti che da metà secolo andavano accumulandosi.
Ma in quegli anni c’erano altre ipotesi sbagliate da togliere di mezzo, prima che si affermasse quella giusta, cioè la provenienza dallo spazio esterno. In particolare, un’idea antica fu ripresa in maniera sistematica da diversi scienziati europei per misurare in maniera finalmente rigorosa l’energia necessaria perché corrispondesse a realtà. Fu così che proprio Ernst Chladni portò all’attenzione della comunità scientifica un italiano relativamente poco noto, e già allora lontano nel tempo: Paolo Maria Terzago.
Un altro precursore italiano della meteoritica?
Terzago (1625?-1695) era un “fisico collegiato” – dunque, un medico – che operò per buona parte del tempo a Milano. Ma perché a Chladni interessavano così tanto le sue idee? Perché anche lui, almeno in apparenza, sarebbe stato un precursore della teoria sull’origine “celeste” dei meteoriti e dei bolidi luminosi.
In realtà, come ricostruì in modo magistrale il geografo e naturalista Alexander von Humboldt nel primo volume della sua enciclopedia delle scienze naturali, Kosmos (1845), Chladni non era interessato a dispute più o meno sottili su chi fosse stato il primo della classe – quello che aveva battuto gli altri sul tempo, né alla retorica dell’individuo “fuori dal coro”. Voleva impiegare ciò che Terzago aveva scritto molto tempo prima per far vedere che si trattava di un vicolo cieco.
Di che cosa si trattava?
Fra i tanti lavori ai quali Terzago aveva messo mano, uno gli aveva dato particolare lustro fra il pubblico colto del suo tempo. Aveva riordinato le raccolte di oggetti di ogni sorta radunate a Milano dal dotto medico Ludovido Settala, morto nel 1633, e poi da suo figlio Manfredo. Quest’ultimo si era reso conto della necessità di farne un catalogo ragionato, e ne affidò la realizzazione proprio a Terzago. Così nel 1664, a Tortona, fu pubblicato il Musaeum Septalianum…, che ottenne tanto successo da dover esser già tradotto due anni dopo in italiano, perché il suo pubblico potesse allargarsi.
Ebbene, il XVIII capitolo dell’opera è dedicato alle “pietre del fulmine”, come allora spesso erano chiamati i meteoriti. A pagina 43, Terzago spiegava che, nel giugno di quattro anni prima, un frate francescano del convento milanese di Santa Maria della Pace era stato colpito a una gamba da un piccolo meteorite, che ne aveva causato la morte, e che il sasso-killer era stato poi conservato nelle sue collezioni da Manfredo Settala. Nient’altro sappiamo su questo presunto omicidio dallo spazio, ma la cosa più rilevante per la nostra storia si trova alla pagina seguente dell’opera di Terzago, la 44. Ecco cosa pensava il nostro studioso dei meteoriti:
Le menti dei filosofi vacillano sotto il peso di queste pietre, poiché sembrano sostenere l’idea di una generazione istantanea, oppure – se fossero state create successivamente – quella che si siano sviluppate come in un grembo materno, e tutto ciò per il timore di dire che la Luna è un’altra terra, oppure un mondo, dalle cui montagne le parti, divise in pezzetti, vengono portate giù, nel nostro mondo sottostante.
Per Terzago, insomma, i meteoriti erano pezzi di Luna che si erano staccati da quel corpo celeste – che immaginava molto simile al nostro pianeta – ed erano “piovuti” fin qui da noi.
La Luna e i vicoli ciechi
Sempre nel primo volume del suo Kosmos, Humboldt riassume con chiarezza l’eco delle teorie di Terzago, a fine Settecento. Insieme a idee come quella di Soldani sulle concrezioni elettriche, servì alla comunità scientifica come esempio di come si eliminano le ipotesi superflue, cioè, quelle sulle quali non vale la pena spendere più troppo tempo, dopo che se ne sono visti con chiarezza i problemi di fondo. Per questo, le presunte anomalie e le osservazioni casuali che sembravano descrivere fenomeni strani (per esempio, le descrizioni di una supposta attività vulcanica lunare osservate a lungo con i telescopi), in realtà erano poco significative, e andavano prese per quel che erano: errori percettivi, misurazioni approssimative, ed equivoci di ogni tipo.
Fu nel 1795 che l’astronomo e fisico tedesco Heinrich Wilhelm Olbers (1758-1840), sulla scia del dibattito che si era aperto a seguito del lavoro di Soldani, diede il via a un’operazione importante, imitato rapidamente da altri scienziati. Si mise a calcolare l’energia necessaria per scagliare una massa pietrosa dalla Luna sino alla Terra. La cosa non era per niente accademica: serviva a far piazza pulita dell’idea precedente che sulla Luna ci fossero vulcani attivi (le dimensioni dei crateri, già ampiamente comprese grazie a telescopi sempre migliori, facevano sospettare una cosa del genere).
Olbers, medico di professione ma con il pallino dell’astronomia, era – stavolta sul serio – uno scienziato d’avanguardia: scoprì gli asteroidi Pallade e Vesta, capì le dinamiche cometarie nel sistema solare e formulò quello che oggi è noto come il paradosso di Olbers (perché il cielo notturno è buio, se siamo immersi in un universo infinito con un’infinità di stelle che dovrebbero mandarci la loro luce?).
Per lui era giunto il momento di spianare la strada anche all’ipotesi corretta dell’origine di bolidi luminosi e meteoriti: erano dovuti a frammenti che vagano fra i pianeti.
Dalle speculazioni ai calcoli
Per arrivare alla soluzione del problema, Olbers utilizzò un approccio sostanzialmente quantitativo. La velocità alla quale le meteore entrano nell’atmosfera, dati alla mano, rendeva insostenibile l’idea che provenissero dalla Luna: sarebbero state molto più veloci. Sulla scia di Olbers, altri si misero a fare gli stessi conti. Ottennero valori un po’ diversi, e che oggi risultano comunque approssimativi, ma questo è secondario. Del resto, aveva concluso Humboldt, anche l’analogia con i lanci di masse proiettate dai vulcani, sostenuta ancora qualche decennio prima da matematici eminenti come Laplace, non reggeva più. Misure più moderne, fatte sull’Etna, avevano ridimensionato le stime sull’energia e la velocità della proiezione di pietre di grandi dimensioni durante le eruzioni.
Dunque, le vecchie speculazioni di Terzago, tornate fuori dopo centotrenta anni, erano infondate. Quanto al motore di quelle discussioni, cioè il lavoro di Ambrogio Soldani, fu occasione per dire anche una parola chiara sull’eccesso di entusiasmo per l’elettricità: è abbastanza evidente, come abbiamo visto, dalle parole taglienti di Lazzaro Spallanzani. In quel periodo, non dimentichiamolo, all’elettricità erano attribuiti non solo fenomeni geofisici quali i terremoti, ma anche “fluidi magnetici” come quelli del mesmerismo, antenato dello spiritismo, il movimento che nascerà in America a metà Ottocento.
Certo, se la prendiamo molto alla larga, si può dire che Terzago nel 1664 aveva ragione a dire che i meteoriti non trovano la loro “generazione” in un “grembo materno”, magari sulla Terra, o che nascano di colpo a mezz’aria, ma “più in alto”. Tuttavia, se guardiamo la cosa più da vicino, ci rendiamo conto che questa sensazione è piuttosto superficiale.
Terzago, in ultima analisi, vede ancora il cosmo in maniera antica, cioè come un “alto” contrapposto a un “basso”: il pezzo di Luna cade dai monti lunari in un mondo inferiore, quello terreno. Cade perché è sopra di noi, perché viene da un cielo che ci sovrasta. Invece, nella realtà, i meteoriti non sono “sassi celesti”, cioè pietre che vengono dal cielo: sono sassi spaziali. E quello di “spazio” è una concetto molto diverso da quello di “cielo”. Lo spazio è omogeneo, indifferente in ogni verso, tendenzialmente vuoto – oltre che, come Terzago non poteva sapere – maledettamente smisurato.
Terzago non lavorava su nessuna evidenza sperimentale, né su ipotesi lontanamente testabili. Come Humboldt ricorda in Kosmos, le “fantasie” come le sue provenivano dalla scienza greca: già a quei tempi, infatti, si era ipotizzato che i meteoriti fossero sassi espulsi dal Sole. Per esempio, era così già nel III secolo d.C. per Diogene Laerzio: l’ipotesi che fossero oggetti di origine selenica invece era stata scartata dalla maggior parte dei dotti; la ragione era che… i meteoriti erano stati visti cadere anche di giorno, cioè quando la Luna non c’era!
Chladni e gli altri scienziati di fine Settecento, invece, usarono al meglio gli errori di Terzago, che apparteneva a un modo antico di pensare, a un’era di scienziati senza scienza, e questo malgrado operasse già nel Seicento inoltrato, quando i dibattiti sui modi di ragionare per ottenere risultati attendibili erano già in corso da tempo.
Immagine in evidenza: una rappresentazione del grande spettacolo meteorico europeo del 18 agosto 1783, come visto dal Trent, Inghilterra. Mezzatinta di Henry Robinson (1783). Rilasciata in pubblico dominio. Fonte: Wellcome Collection.