Il raggio della morte di Cannobio
Giandujotto scettico n° 146, di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo (07/09/2023)
Il 15 gennaio 1965 uno dei settimanali locali del Lago Maggiore, Il Verbano, pubblicò in prima pagina un curioso articolo – più un commento che un articolo, a dire il vero – il cui titolo faceva riferimento a Nostradamus.
Che cosa c’entrava il veggente dei veggenti, con le sue quartine, col Lago Maggiore? Molto poco, se non che quello che era il modo per dire che, sulle sue sponde, da qualche tempo si era insediato un “mago” più adatto ai tempi moderni: l’inventore del raggio della morte.
Forse un po’ in ritardo, come inventore: a metà Anni 60, il mito dell’arma definitiva, quella del “raggio che uccide”, era ormai in declino, almeno rispetto al suo periodo di maggior popolarità, tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale (potete leggere qui e qui due esempi). Ma questo non impediva che, ogni tanto, saltasse fuori di nuovo.
Uno scienziato sul Lago Maggiore
Stando a Il Verbano, dunque, un quotidiano non meglio precisato aveva sparato un titolone secondo il quale a Cannero Riviera, paesino sulle sponde del lago attaccato alla più grande Cannobio, si era insediato un misterioso studioso di fisica che lavorava all’altrettanto misteriosa arma finale. Si direbbe che in precedenza gli abitanti del posto non fossero al corrente della presenza di questo “studioso”, e che soltanto il titolone del giornale (di cui ci mancano gli estremi) li avrebbe indotti a cercare in paese tracce dello scienziato. Alcuni erano andati a rovistare perfino fra le rovine della Rocca Vitaliana, la vecchia fortificazione posta sugli isolotti di fronte a Cannero, convinti che il misterioso personaggio avesse lì il suo laboratorio!
Un luogo, peraltro, già noto al Giandujotto scettico: nel 1934, sulla scia dell’entusiasmo per l’invenzione del mostro del Loch Ness, proprio lì intorno si diceva albergasse un mostro lacustre, la cui storia divertente avevamo già raccontato qui.
Ma era solo l’esordio. Dopo aver ricordato – ridendone – la massima versione italiana del mito del raggio della morte, quella che a metà degli Anni 30 ne aveva attribuito l’invenzione a Marconi, Il Verbano spiegava di non esser riuscito a rintracciare il fisico. Ma la moglie, “la signora Hehrhadt” aveva rilasciato invece alcune interviste raccontando di un “cono luminoso” che il raggio, sperimentato in Svizzera dal marito Hans, era stato lanciato in cielo sul lago di Lucerna. Erano state pubblicate anche diverse foto dell’uomo, in camice bianco tra gli strumenti del suo laboratorio, ma lui – si diceva – in realtà era già lontano: si era recato a Bonn per trattare la cessione del suo brevetto alle autorità dell’allora Germania occidentale…
Di questo scienziato Il Verbano sorrideva: era proprio il caso di ridimensionare quella storia, che, scriveva l’anonimo autore dell’articolo, si era ingigantita nella cronaca, tanto più che lo stesso titolo di “dottore” attribuito all’uomo (“un tipo simpatico”) non proveniva da alcuna università…
La scomparsa
Sei giorni dopo, il 21 gennaio 1965, un altro periodico locale, L’Eco di Biella, ne approfittò per rilanciare. Come accadeva sovente in quegli anni, la recente comparsa delle tecnologie laser permetteva di aggiornare il mito del “raggio” allo stato dell’arte della vera ricerca scientifica – e infatti il “raggio di Cannero” era associato agli studi sul laser. In questo modo, per vie traverse, si dava una patina di attendibilità alla storia dello “scienziato del lago Maggiore”. C’era anche qualche dettaglio in più, su questo dottor Hehrhadt. Aveva 46 anni, era prussiano, aveva quattro figli “biondissimi”, e secondo la stampa tedesca era “il von Braun del raggio della morte”, visto che era stato capace di dare una potenza “mai vista” al peraltro mitologico raggio. Aveva lavorato in una villa di Cannero, ma ora era sparito: forse sul serio “l’arma” era stata offerta al governo tedesco!
Insomma, chiacchiere su chiacchiere.
Sembra che il versante italiano di questa storia si sia concluso ai primi di agosto del 1965. Il 3 di quel mese, La Stampa riferì da Cannobio che Ilse Heinz, la moglie del “sedicente inventore… in grado, a suo dire, di distruggere qualsiasi obiettivo, anche a 15 km di distanza”, aveva lasciato con i quattro figli il villino ammobiliato preso in affito dal marito due anni prima per trasferirsi in un piccolo alloggio di Caldè, sulla sponda lombarda del lago Maggiore. Il permesso di soggiorno della famiglia era scaduto il 31 luglio, e, a quanto pare, madre e figli stavano per rientrare in Germania.
Che cos’era successo? Beh, Hehrardt aveva lasciato debiti a Cannero per 900.000 lire, e, in precedenza, ne aveva lasciati per cinque milioni in Svizzera: commercianti e creditori vari, stufi, si erano rivolti alle autorità. Diversi conti di minore entità risultavano aperti a Ghiffa, altro paesino della zona. Quanto allo scienziato, secondo La Stampa era sparito ormai da sei mesi, e se n’era andato a vivere a Monaco di Baviera con un’altra donna.
Il vero “dottor Hehrardt”
I lettori avranno notato che finora abbiamo scritto in corsivo il cognome Hehrardt. La cosa si deve al fatto che quello non era il vero nome dello “scienziato”, ma uno pseudonimo. E non solo: il nome che quest’uomo usava un po’ ovunque negli Anni 60 era stato riportato sempre in modo sbagliato dalla stampa italiana. Cittadino tedesco, era noto come Hans Ehrhardt (questa la grafia esatta del cognome), che in area tedesca è un po’ come dire Mario Rossi. In realtà all’anagrafe il nostro personaggio si chiamava Hans Engelke, era nato nel 1918 a Königsberg, in Prussia orientale (oggi Kaliningrad, Russia) e sosteneva da anni di aver lavorato sotto il Terzo Reich allo sviluppo di alcune armi segrete insieme a Wernher von Braun, che nel frattempo era diventato popolarissimo negli Stati Uniti per il suo lavoro al progetto Apollo.
Usando quel falso nome, Engelke fu molto attivo con le sue dichiarazioni nel periodo che va dal 1961 al 1968: il “biennio piemontese”, chiamiamolo così, quello che terminò con la sua sparizione all’inizio del 1965, era stato preceduto da un altro, più chiassoso, “periodo svizzero”. Fu quando ebbe guai anche lì, ai primi di luglio del 1963, che i particolari più divertenti vennero a galla. E fu a quel punto che dal cantone Obvaldo, nella Svizzera centrale, dove si trovava con moglie e figli dall’agosto di due anni prima, il nostro uomo fece armi e bagagli e approdò su un altro lago, quello Maggiore.
Un lungo articolo chiarificatore fu pubblicato sul n. 30 del 23 luglio 1963 da uno dei maggiori settimanali tedeschi, Der Spiegel. Ai primi di quel mese, la polizia federale svizzera si era messa a cercare Engelke perché era diventato motivo d’imbarazzo per le amministrazioni elvetiche. A quanto pare, aveva fallito alcuni tentativi di vendere nella sua patria d’origine i suoi progetti di presunte, mirabolanti armi segrete da lui ideate già sotto il nazismo; e così, ai primi del 1961, era riuscito a ottenere ascolto presso l’Ufficio per le tecnologie militari delle forze armate federali svizzere, di sede a Berna. Il 24 febbraio di quell’anno Engelke ebbe un incontro con alcuni funzionari dell’ufficio; ma questi, dopo una richiesta di un parere al Politecnico di Zurigo, il 31 maggio, a quanto pare chiusero la pratica. Il guaio fu però che Eugen Burkhard, uno dei dirigenti dell’ufficio (si occupava dello sviluppo di nuovi sistemi d’arma), affascinato dalle idee del tedesco, cercò di ottenere un permesso di soggiorno per Engelke e famiglia. Addirittura, procurò a Engelke e ai suoi un’abitazione nella cittadina di Sarnen, sull’ameno lago omonimo. Tutto indica che lo avesse fatto a titolo personale, senza chiedere ulteriori pareri ai suoi superiori. Sulla carta (stando al permesso di ricerca 2524 del 1961 dell’Ufficio per le tecnologie militari), Engelke avrebbe dovuto occuparsi dello studio di proiettili di artiglieria senza bossoli da 30 mm, ma in realtà tutti i suoi sforzi si concentrarono sul preteso “raggio della morte”.
In Svizzera, i problemi arrivarono intorno alla fine del 1962, quando su un giornale tedesco si parlò di Engelke e, soprattutto, del libro che intendeva pubblicare, Der Neue Weg (“La nuova via”). Fra le altre cose, il volume avrebbe dovuto spiegare le sue ricerche volte a realizzare una macchina per il moto perpetuo! Poco tempo dopo, nella primavera del 1963, a lui si interessò il settimanale neonazista di Monaco di Baviera National-Zeitung, lodandolo in maniera sperticata: con la sua arma segreta in via di sperimentazione – riferiva la rivista, che non esitava a definirlo “Signore della vita e della morte” – Engelke aveva fuso la neve di un ghiacciaio distante dodici chilometri dal cannone| Insomma: si era di fronte a un uomo dalle frequentazioni piuttosto curiose.
A inizio giugno del 1963, poi, sulla stampa svizzera erano comparsi gli schemi approssimativi della macchina inventata da Engelke, accompagnata dalla foto di un “raggio misterioso” puntato verso il cielo da una sponda del lago Sarnen: con ogni probabilità, la luce di un riflettore, non una nuova arma da fantascienza. Stando allo Spiegel, addirittura, le voci che si stavano diffondendo circa la presenza del “raggio” stavano inducendo un certo numero di turisti a disertare le sponde del lago. Gli albergatori presero a lamentarsi pubblicamente di quella discutibile pubblicità fatta a Sarnen, e fu il patatrac.
Un’eco dei dischi volanti nazisti
Prima, però, c’è da dire un’altra cosa che raccontava Engelke. Secondo lo Spiegel, l’uomo aveva spiegato di essere in grado di generare nuvole di gas esplosivo nell’atmosfera, da portare in quota tramite razzi e abbattere così in un sol colpo intere formazioni di aerei avversari. Anzi, sosteneva che nell’aprile 1945, proprio poco prima della fine della guerra, questo razzo a gas antiaereo era stato utilizzato una volta contro bombardieri alleati in volo sulla Germania, e che in quell’occasione ne aveva fatti precipitare 36 in un attimo!
Ora, il punto è questo: in varie versioni, questa storia non è altro che una parte dell’intricatissima mitologia dei dischi volanti nazisti, sorta quasi subito dopo la nascita del fenomeno UFO, nel 1947, ma diffusa dalla stampa tedesca e austriaca in maniera massiccia dalla primavera del 1950. Proprio il 21 maggio di quell’anno, per la prima volta, il settimanale tedesco Wochen-Echo aveva raccontato a modo suo, in una curiosa fantasia revanscista, com’era andata l’incursione alleata sulla zona di Schweinfurt, la notte del 17 ottobre 1943 (che, in effetti, ci fu davvero e si risolse in un disastro per l’aviazione statunitense, che perse 77 bombardieri B-17 Flying Fortress). A provocare tutte quelle perdite, secondo il Wochen-Echo, erano state le nuovissime armi segrete germaniche, i dischi volanti lancia-gas! Quelli che tutti vedevano, dopo la guerra, non erano altro che sviluppi dell’avanzatissima scienza teutonica, quella che i nuovi padroni del mondo, occidentali e sovietici, avevano usurpato…
Grazie a questo tassello, le fantasie di Engelke trovano una sistemazione definitiva in un grande calderone pseudo-scientifico, truffaldino, occultistico e ufologico già bell’è pronto negli Anni 50, cioè, prima che lui cominciasse a farsi conoscere in Germania, in Svizzera e in Piemonte. Probabilmente, Engelke sentì raccontare queste leggende, e le rielaborò a modo proprio, costruendo una storia in cui era lui l’inventore che aveva permesso l’abbattimento dei nemici a Schweinfurt. Queste narrazioni gli servivano, con tutta probabilità, per trovar credito presso finanziatori e commercianti del posto, almeno finché i debiti non si fossero accumulati troppo.
Non era un’assoluta novità. Non dimentichiamo ancora una cosa: poco prima di Engelke, in Italia aveva operato un altro tedesco, che si proclamava figlio naturale di Hitler e ambasciatore dei Venusiani in Terra, che presto sarebbero arrivati con i loro dischi volanti (all’aeroporto di Berlino-Tempelhof, per la precisione). E poi, in quello stesso periodo, a volte a Torino si faceva vedere un ennesimo, preteso “inventore” di dischi volanti sotto il Terzo Reich, Andreas J. Epp, in rapporti cordiali con un altro protagonista della “Torino magica” di quegli anni, Gianni Vittorio Settimo, fondatore della rivista misteriosofica Clypeus.
Spiegel sosteneva – se non vi basta – che, dopo la guerra, Engelke aveva cominciato a raccontare pure che i suoi “raggi”, oltre che uccidere, potevano, se usati in modo adeguato, guarire il cancro, grazie a gas portati allo stato di plasma…
Dalla Svizzera all’Italia, dall’Italia alla Germania
A ogni modo, a quel punto, stufo della situazione, il Dipartimento della difesa federale si affrettò ad annunciare che Engelke non aveva ricevuto un franco dalle tasse degli svizzeri per i suoi esperimenti, mentre l’Ufficio federale per gli stranieri, visto che aveva rilasciato così tante dichiarazioni false e che era entrato in Svizzera sotto falso nome, il 4 giugno 1963 – tramite l’ufficio cantonale dell’Obvaldo per gli stranieri – gli comunicò che il suo permesso di soggiorno sarebbe scaduto il 15 luglio e che gli era interdetto di tornare nella Confederazione.
Ai primi di luglio il pasticcio diventò di dominio pubblico, e fu ampiamente pubblicizzato dalla stampa svizzera (si veda qui. qui, qui). Anticipando la scadenza del permesso, nella notte fra il 13 e il 14 di quel mese, Engelke sparì senza dare altre notizie di sé dall’abitazione di Sarnen. Fu allora, con ogni probabilità, che con la famiglia diresse verso il lago Maggiore e verso Cannero, dove lo abbiamo incontrato all’inizio.
C’è però un ulteriore sviluppo al quale accennare. A quanto pare, dopo esser sparito da Cannero, Engelke rientrò in Germania. Ed è lì che lo ritroviamo un’ultima volta nell’autunno del 1968, tre anni dopo la partenza dall’Italia. Pensate forse che con tutto quello che gli era successo avesse abbassato il tiro? Nemmeno per sogno. Il 29 novembre, diverse fonti di stampa (come questa, questa e questa) informavano da Monaco di Baviera che Engelke stava cercando di piazzare il suo cannone a onde d’urto super-potenti al ministero della Difesa tedesco-occidentale. Ma ci volevano batterie adeguate, e il sedicente fisico stava cercando senza successo sostenitori…
Soprattutto, però, Engelke denunciava un recente tentativo di ucciderlo ad opera di agenti egiziani, o israeliani – a vostro piacimento. Al quotidiano Rheinische Post aveva spiegato che era andato a insegnare elettronica presso l’Università Ibrahim Pasha del Cairo, e che voleva vendere a un’impresa tedesca anche un’altra invenzione: la macchina per eliminare le cavallette. Proprio per questo, era rientrato da poco in Germania, ma, a Monaco, il giorno 5 era stato avvicinato da agenti israeliani che volevano convincerlo a lavorare per loro. Lui aveva rifiutato, e, stranamente, il giorno dopo, su un treno che lo portava verso il lago di Costanza, aveva casualmente incontrato un agente segreto egiziano, con cui aveva pranzato al vagone-ristorante. Poi, però, si era sentito male, era stato ricoverato e – manco a dirlo – si era scoperto che era stato avvelenato col sacharan, una droga egiziana che uccideva lentamente…
Insomma, Engelke si era modernizzato: a fine Anni 60, mentre il ricordo degli anni della guerra andava allontanandosi, si era trasformato nell’obiettivo di arabi e israeliani, le cui guerre erano a quei tempi in pieno svolgimento. Più di una volta, sin dagli Anni 50, le fantasie sulle superarmi tedesche della Seconda Guerra Mondiale avevano trovato anche quella nuova ambientazione e un filone narrativo mediorientale. Accadde, sia pure in tono minore, persino per il mito dei dischi volanti nazisti: già nella primavera del 1950, ad esempio, c’era un inventore egiziano che dichiarava al quotidiano cairota Le Progres Egyptien che i “dischi” di cui tanto si parlava anche lì erano una sua idea, carpitogli per la sua buona fede, durante un viaggio in nave, da probabili spie del Reich! Più tardi, con il prosieguo e l’ampliarsi delle guerre fra paesi arabi e Israele, proprio Il Cairo diventò centro di voci di ogni genere, non ultime di quelle sui tentativi (in parte veri, anche se goffi) da parte delle autorità egiziane di assicurarsi la collaborazione di ingegneri e scienziati ex-nazisti nello sviluppo di tecnologie belliche, anche di quelle nucleari.
Dunque, Engelke doveva essere molto attento a cogliere il vento che tirava. Per questo, passare da un tranquillo paese rivierasco della Svizzera tedesca, al versante piemontese del Lago Maggiore, alle pagine della stampa popolare o di estrema destra tedesca, oppure a storie sul conflitto arabo-israeliano, gli doveva essere congeniale. Anche per questo, probabilmente, riuscì a tener desta l’attenzione su di sé per un decennio.
Poi, uscì definitivamente di scena.
Immagine in evidenza: War of the Future, da “Science and Invention”, febbraio 1922, p. 912. Da Wikimedia Commons, pubblico dominio