Noi e la tecnologia: al CICAP Fest Massimiano Bucchi spiega il delicato rapporto quotidiano tra persone e innovazione
di Emanuela Pasi e Francesca Balestra
Il nostro tempo è scandito anche da notifiche, baci e abbracci di sconosciuti nei messaggi, da aziende del web che ci danno del tu. Questo strano rapporto tra l’uomo e la tecnologia è stato esplorato da Massimiano Bucchi, professore ordinario di Scienza, Tecnologia e Società all’Università degli Studi di Trento, durante un evento del CICAP Fest 2023.
«Noi spesso pensiamo di scegliere la tecnologia, ma siamo sicuri che siamo sempre noi a sceglierla davvero? Se ci pensate il sistema operativo del vostro cellulare, lo avete scelto voi? – ha chiesto alla platea -. La tecnologia cambia la nostra percezione dello spazio e del tempo. Tutto ciò che non è istantaneo è lento», ha affermato.
Partendo da ciò che disse il sociologo Marshall McLuhan, “il mezzo è il messaggio“, Bucchi ha spiegato che i contenuti di cui fruiamo ci influenzano fino ad un certo punto, sono i mezzi che ci cambiano davvero e diventano un’abitudine. Per esempio, i nostri messaggi Whatsapp sono pieni di refusi e scritti male solo per mandare immediatamente altri messaggi.
Questo desiderio di immediatezza non è contemporaneo: ne è un esempio la storia di Samuel Morse. Era un pittore, e un giorno ricevette un messaggio urgente, recapitato da un corriere a cavallo. La lettera lo avvisava che la moglie era in fin di vita. Lui si affrettò per raggiungerla, quando arrivò da lei ormai era troppo tardi: era già morta. Fu questo episodio che lo spinse a inventare un sistema di comunicazione più rapido: nacque così il telegrafo.
«TV, radio e smartphone sono oggetti esterni a noi ma diventano una protesi, una seconda pelle, che facciano bene o male diventano un’abitudine – ha proseguito Bucchi -. Il passaggio successivo lo hanno fatto i nativi digitali: per loro quest’ abitudine è talmente presente da essere divenuta parte dell’ambiente circostante. Diamo un corpo fisico a delle app senza rendercene conto».
Per esplicare questo rapporto tra tecnologia e persone, Bucchi ha proiettato un video intitolato “E se le nostre app potessero parlare?”, tratto dal suo libro “Io & Tech”. Nel filmato l’attrice Sonia Bergamasco impersonifica i principali social (Google, Instagram, Facebook, WhatsApp) mentre dialogano tra loro, convinti di conoscere perfettamente una persona nella sua intimità, per poi sorprendersi di una cosa inaspettata venuta fuori da una ricerca sul web, che alla fine si rivelerà essere il frutto di un errore di battitura del soggetto in questione.
Prendendo spunto da ciò e dal mito di Narciso, Bucchi ha rimarcato come anche noi ci rapportiamo ai social in quella stessa maniera. Come Narciso non può fare a meno dello specchio, anche noi non possiamo fare a meno della tecnologia, nel bene e nel male. Quante volte diciamo di volerci disintossicare dai social ma poi continuiamo ad usarli tutti i giorni? “È la tecnologia al nostro servizio oppure siamo noi al servizio della tecnologia?”, ha domandato provocatoriamente.
La seconda parte della conferenza è stata dedicata a un altro grande interrogativo: «La tecnologia è neutrale o no?». Molti, per rispondere, propongono l’esempio del coltello che può sia tagliare il pane che uccidere. Bucchi ha invece esposto un punto di vista differente: «Il fatto che la tecnologia sia solo un mezzo in realtà è un luogo comune: non la vediamo in astratto, ma la viviamo in un contesto d’uso, in un tempo, in un ambiente. Molte novità tecnologiche in realtà incorporano una morale e un buon comportamento. Ad esempio, le tessere magnetiche per accedere nelle stanze degli hotel sono nate per risparmiare la corrente».
L’arrivo di una nuova tecnologia si accompagna spesso alla percezione che tutto sia facile e a portata di mano. Tuttavia, spesso non viene considerato l’impatto che questa ha nel lungo periodo. L’idea che eventuali effetti imprevisti possano manifestarsi prima o poi è suggerita dal fatto che ci sono molti esempi, nella storia, di inventori non avevano idea di come sarebbero state usate le loro invenzioni in futuro. Steve Jobs ha inventato un telefono, ma non immaginava che la sua creatura sarebbe diventata una sorta di babysitter a cui tanti genitori oggi affidano i figli durante una cena al ristorante.
Un altro esempio lo stiamo vivendo in questo periodo nelle grandi città: i monopattini elettrici sembravano essere una soluzione conveniente di trasporto sostenibile, ma stanno ora mostrando aspetti meno positivi, con incidenti o persone che li guidano in maniera spericolata.
«Da questi temi possiamo definire due livelli di rapporto con la tecnologia: il primo è quello individuale di un equilibrio sano con essa, l’altro è la sua regolamentazione collettiva, soprattutto dell’impatto a lungo periodo sulla società.», ha spiegato Bucchi. La prima vittima di un incidente d’auto c’è stata nel 1869. Le politiche di regolamentazione per la sicurezza stradale sono state introdotte solamente nel 1966. Questo è un episodio tra tanti che ci mostra bene come la tecnologia entra a far parte della vita quotidiana velocemente, ma la società spesso ci metta decenni per comprenderla e controllarla.
Nel nostro rapporto con tecnologia e innovazione sarebbe infine necessario, secondo Bucchi, introdurre anche il valore della perseveranza, della pazienza. Pazienza che ha avuto la biochimica Katalin Karikò, la quale dopo quarant’anni di sforzi e porte in faccia si è vista finalmente riconoscere il suo lavoro sul RNA messaggero, che l’ha portata a vincere il Premio Nobel per la Medicina quest’anno. Questa pazienza deve essere una costante sia in chi fa innovazione sia in chi, in un secondo momento, fa uso di essa.