13 Novembre 2024
I segreti dei Serial Killer

Le famiglie e le comunità dei serial killer

di Marianna Cuccuru

Quando un omicidio colpisce una comunità, si pensa immediatamente al dolore della famiglia della vittima o delle vittime, al dolore e allo strazio di coloro che perdono una persona cara. Tuttavia, anche la comunità stessa può essere profondamente traumatizzata dal crimine commesso, in particolare quando è un paese di piccole o medie dimensioni e se si tratta di delitti in serie, con un responsabile nato e cresciuto nel contesto che ha così profondamente ferito. Anche le famiglie a cui appartengono i serial killer subiscono un profondo ed irreparabile trauma, oltre che un’onta sociale difficile da affrontare, che li perseguita per tutta la vita. Si può parlare così di vittimologia allargata o di vittime indirette: persone a cui un assassino causa grandi sofferenze e profondi sconvolgimenti nella vita quotidiana, ma che spesso non hanno il conforto e il supporto di cui avrebbero bisogno.

Una serpe in seno

Quando i membri di una comunità si trovano ad affrontare una serie di delitti, uno dei meccanismi primordiali di difesa è negare che il colpevole possa essere uno di loro. Si proietta l’orrore lontano, all’esterno, e si cerca di rafforzare i legami interni tra i membri, che inizialmente diventano più solidali. Spesso però, risulta chiaro che il colpevole potrebbe essere molto più vicino di quanto si pensi e colpire chiunque; è in questo momento che il terrore si fa ancora più profondo.

Secondo il criminologo Ruben De Luca si può parlare di una vera e propria sindrome, che definisce SPOS, ovvero Sindrome da Panico Omicidiario Seriale.

Le comunità attraversano infatti un difficile processo di elaborazione del trauma, che provoca un lutto collettivo devastante. La prima risposta al trauma solitamente comporta panico, diffidenza, ansia e stress diffusi nel periodo immediatamente successivo ai delitti, per poi avere un’evoluzione verso la depressione, la mancanza di fiducia nel prossimo e nei confronti delle autorità, la perdita di speranza per il futuro, soprattutto nel caso di delitti irrisolti o di scie di omicidi che proseguono per molti anni. Questi fatti di sangue senza un responsabile noto portano inizialmente a coprifuochi ossessivi, a leggi speciali, ad una corsa alle armi e agli strumenti di autodifesa; a volte si cerca un capro espiatorio scelto per motivi razziali o culturali, come i casi americani di George Stinney nel 1944 o dei “Tre di West Memphis” nel 1994, condannati senza prove per omicidi che non avevano commesso, in entrambi i casi con bambini come vittime.

Sul lungo periodo, è stata osservata in molte comunità una tendenza a ridurre le attività sociali, a chiudersi nel privato se i delitti non vengono risolti e se il colpevole resta per anni una minaccia invisibile. Nelle grandi metropoli il fenomeno è più diluito, ma si ripresentano le medesime reazioni se i crimini colpiscono un quartiere in particolare. È necessario molto tempo per tornare a una graduale normalità.

Se invece si giunge all’identificazione e alla cattura del colpevole, i sentimenti sono sia di sollievo che di curiosità, anche morbosa, nei confronti del responsabile, soprattutto se è qualcuno ritenuto ben inserito nel contesto sociale e con un ruolo di responsabilità. [1]

Guardando alle vicende in cui il colpevole non è stato arrestato, possiamo fare l’esempio del caso del Fantasma di Texarkana, che uccideva giovani coppie nel 1946, negli Stati Uniti: le ferramenta avevano esaurito le serrature di sicurezza e le catene, le armerie le pistole da difesa personale e i fucili da caccia. Molti acquistarono un cane da guardia, ai giovani veniva spesso imposto un rigido orario di rientro.

In un caso più recente, quello italiano del Mostro di Firenze, venne fatta una campagna di informazione rivolta alle coppie di ragazzi in cerca di intimità, come lo erano le vittime colpite dal Mostro. Manifesti e spot pubblicitari cercavano di dissuadere i ragazzi dall’appartarsi nelle campagne fiorentine. I delitti del Mostro cambiarono in parte la mentalità comune in merito alla sessualità giovanile, portando alcuni genitori ad accettare che i partner dei propri figli dormissero con loro nella casa di famiglia, piuttosto che avere rapporti in auto.

Un altro esempio interessante riguarda le conseguenze sulla società inglese dei delitti dello Squartatore dello Yorkshire, Peter Sutcliffe, che ha colpito l’Inghilterra tra il 1975 e il 1980. L’evoluzione della sua vittimologia è interessante: mosso da odio verso le donne, inizialmente uccideva solo prostitute, ma è solo quando cominciò ad uccidere o ferire donne che non si prostituivano che si scatenò davvero il panico. Venne ipotizzato un coprifuoco ogni sera per le donne e questa proposta ebbe come reazione un’ondata di indignazione e proteste dei movimenti per i diritti femminili, che sottolineavano le mancanze della polizia durante le indagini e lo scarso rispetto dimostrato dalle autorità e dai media nei confronti delle vittime e delle donne in generale.

I delitti seriali quindi possono far emergere dinamiche prima sopite o le mancanze strutturali di chi rappresenta l’autorità, alimentare il razzismo, il sessismo e le paure ancestrali della società in questione, ma anche portare a cambiamenti e a progressi repentini.

“Non potevano non sapere!”

La famiglia che per anni vive con un serial killer senza saperlo si trova spesso a ignorare alcuni segnali preoccupanti, o a considerarli come stranezze senza collegarli ad una attività omicidiaria. Questo comportamento può avere diverse spiegazioni, ma spesso non si tratta di connivenza, ignoranza o superficialità. Nella maggior parte dei casi, si tratta semplicemente di un normale meccanismo che ci porta a non vedere come anomali i comportamenti di chi è molto vicino a noi, o a giustificarli pur ritenendoli bizzarri. Il caso forse più celebre in questo caso è la famiglia di Dennis Rader. La moglie Paula, una donna molto religiosa, buona e semplice, sapeva di avere un marito con delle stranezze in ambito sessuale, ma non avrebbe mai collegato i crimini di BTK a Dennis. 

Sia Paula che i figli ebbero la vita distrutta dopo l’arresto di Rader, uno dei più crudeli seriali della storia americana. La figlia Kerri in particolare decise di cambiare cognome e di fare pubblica testimonianza in televisione e sui giornali riguardo la sua esperienza di figlia di serial killer, facendo emergere quanta sofferenza porti essere travolti da una vicenda del genere, quanta rabbia impotente lei provi nei confronti del padre, dimostrando molto chiaramente il concetto di vittimologia allargata.

Il “Green River Killer”, Gary Ridgway, catturato solo dopo molti anni di indagini, aveva una famiglia del tutto all’oscuro della sua attività criminale, costata almeno 48 vittime. La ex moglie di Ridgway, Judith, è stata costretta per anni a vivere come una latitante dopo l’arresto del marito, arrivando a dover cambiare città, colore di capelli, nome. La donna racconta di aver inizialmente faticato molto a rendersi conto della colpevolezza di Gary e di aver passato un periodo di negazione della realtà. 

Nelle interviste afferma di amare ancora l’uomo che conosceva, ma di odiare profondamente “l’uomo che lo ha portato via”, esprimendo un bisogno di scindere la persona che ha vissuto con lei dal Green River che ha terrorizzato Seattle negli anni ’80. Anche nipoti e figli hanno avuto la medesima gogna pubblica per via della parentela con Ridgway. [2]

I figli del male

Le cose si fanno ancora più complicate e delicate quando si tratta di figli di seriali, specialmente se minori, che frequentemente subiscono abbandoni, affidi e interventi di servizi sociali a seguito dell’arresto del genitore o dei genitori seriali.

Un esempio che riporta De Luca è quello del figlio del serial killer pedofilo Marc Dutroux, noto come il “Mostro di Marcinelle”. Frederic racconta di quando la polizia venne a casa sua per perquisirla e cercare i corpi di alcune vittime:

“Un’assistente sociale è venuta a cercarmi. All’inizio ho rifiutato di seguirla. Non comprendevo perché dovessi lasciare la mia casa. L’ho capito dopo. […] Sono stato messo d’urgenza in un istituto. […] Ho scoperto per caso certe cose. Mi ricordo di aver visto il nascondiglio di Marcinelle e di avere scoperto dove era finita la mia console Sega e i miei Tintin. Mio padre li aveva regalati alle ragazzine.”[3]

In casi estremamente rari, avviene che le famiglie non siano ignare dei crimini del serial killer, ma che ne siano complici. In alcuni casi complici attivi, come i coniugi Paul Bernardo e Karla Homolka in Canada o la famiglia Bender negli Stati Uniti. Ancora più rari sono i seriali che agiscono in coppia genitore-figlio.

In altri casi, le famiglie sono invece complici involontari, costretti dal serial killer a collaborare, vivendo nel terrore e temendo costantemente per la propria vita. Un caso molto peculiare è quello del Mostro di Nerola, Ernesto Picchioni. Negli anni ’40 Picchioni uccideva passanti casuali al chilometro 47 della Salaria, aggredendoli e picchiandoli brutalmente allo scopo di derubarli. In seguito agli omicidi, sia la moglie Filomena che i figli furono costretti ad aiutare l’uomo nello smembramento e nell’occultamento dei cadaveri, solitamente seppelliti grossolanamente nel terreno circostante la casa. Dopo la cattura del “Mostro”, risultò evidente che i familiari non erano che vittime ulteriori di un uomo violento e crudele.

Nel 1949 gli inquirenti iniziarono a stringere il cerchio delle indagini intorno a Picchioni per le sparizioni dei viandanti della Salaria e furono interrogati la moglie e i quattro figli. Furono proprio questi ultimi ad ammettere chiaramente le colpe del padre:

“Ci ha detto che ci avrebbe ammazzato tutti se si fosse venuta a sapere questa cosa!”.

Filomena era convinta che prima o poi Ernesto avrebbe ucciso lei e i ragazzi, poiché era sempre più crudele, minaccioso e violento, nonostante loro facessero di tutto per assecondarlo.

Non è ancora certo il numero delle vittime del Mostro di Nerola, si stimano tra le quattro e le sedici persone. Probabilmente egli aveva già iniziato la sua attività omicidiaria durante il secondo conflitto mondiale, per cui ad oggi è impossibile stabilire un numero preciso.

La moglie Filomena e il figlio maggiore, Angelo, allora quattordicenne, furono oggetto di pesantissimi sospetti. Si pensò ad una complicità attiva da parte loro, non motivata semplicemente dal terrore, ma da una crudeltà comune a tutta la famiglia, forse causata da tare ereditarie. Si ipotizzò che Filomena fosse una novella Saponificatrice che, analogamente a Leonarda Cianciulli a Correggio pochi anni prima, avrebbe distrutto alcuni dei corpi delle vittime grazie alla soda caustica.

Solo dopo molto tempo queste voci lasciarono spazio alla verità, ovvero che nessuna prova poteva dimostrare la presunta ferocia di Filomena e Angelo: l’intera famiglia fu senza dubbio brutalmente abusata e torturata da Ernesto Picchioni.

Dopo i due ergastoli comminati al Mostro, i figli di Filomena ed Ernesto furono messi in un istituto e sembrava che il loro destino di orfani con un nome infamante fosse segnato. Avvenne però qualcosa di inaspettato per due di loro, Carolina e la sorella minore Gabriella: furono adottate dal ricco industriale inglese Robert Ritz Aucher, che alla sua morte lasciò alle due ragazze la sua immensa eredità.

Abbiamo generato un mostro!

Essere genitori di un serial killer porta a un biasimo sociale ancora più forte di quello subito dai figli o dai coniugi, poiché si tende ad associare le responsabilità dei figli all’educazione impartita dai genitori. In certi casi questa associazione non è sbagliata: alcuni seriali hanno vissuto la peggiore infanzia che si possa immaginare, come nel caso di Henry Lee Lucas, figlio di una madre estremamente disturbata e crudele e di un padre alcolizzato. In altri casi, i futuri assassini hanno avuto figure genitoriali del tutto deviate e devianti, che hanno cresciuto i figli nella violenza, elemento che ha finito per costituire un linguaggio quotidiano, come per Fred West: suo padre gli ripeteva ogni giorno che le ragazze sono solo pezzi di carne da violentare; sua madre aveva atteggiamenti seduttivi nei suoi confronti fin da quando era bambino. Parallelamente, la sua futura moglie Rose veniva abusata dal padre ed era abituata a considerate lo stupro e l’incesto come parte della normale vita familiare.

De Luca ha individuato le quattro “fasi dell’emotività” dei genitori di seriali, fasi vissute principalmente da genitori del tutto all’oscuro dei crimini del figlio e che ritengono di averlo cresciuto con valori morali solidi:

  • La prima fase è la negazione dell’evento, momento in cui i genitori sono convinti che ci sia un errore da parte delle forze dell’ordine e che il loro figlio o la loro figlia sia innocente, vittima di accuse ingiuste.
  • La seconda, quando le prove diventano inconfutabili, comporta uno spostamento di responsabilità: il figlio è colpevole, ma ha commesso i suoi crimini indotto da qualcuno o qualcosa, ad esempio una setta, una compagnia sbagliata, le droghe, la musica o l’alcool, addirittura il demonio.
  • La terza fase prevede uno spostamento della colpa su se stessi: i pensieri dei genitori in questo momento ricorrono sempre ai loro metodi educativi e ad ogni loro possibile errore.
  • Infine, la quarta fase è quella che porta un disperato senso di fallimento, di colpa e di “lutto virtuale”, ovvero la sensazione di aver di fatto perso il figlio, anche se fisicamente è ancora vivo, poiché la persona che credevano di conoscere e che amavano non esiste più. [4]

Può capitare che queste fasi siano vissute in modo diverso dai due genitori. Ad esempio, uno dei due può rimanere ancorato a idee di influenze esterne alla famiglia o credere ciecamente all’innocenza del figlio. L’altro invece potrebbe giungere prima ad una consapevolezza di chi sia realmente il figlio o ad una forte colpevolizzazione di sé, che può portare a gesti estremi come il suicidio, commesso diverse volte da genitori di criminali e assassini giapponesi, schiacciati dal disonore e dalla vergogna, elementi molto importanti nella cultura nipponica. [5]

Un caso emblematico in ambito statunitense è quello di Lionel Dahmer, padre del famigerato Jeffrey Lionel Dahmer, il Mostro di Milwaukee. Lionel, un chimico, ha scritto un libro autobiografico in cui racconta il proprio punto di vista di padre ignaro, incredulo e addolorato. L’uomo ha riportato tanti episodi in cui nessuno dei familiari ha notato le tante stranezze di Jeffrey, che amava sciogliere carcasse di animali nell’acido e che era un alcolizzato fin dai primi anni del liceo. Lionel si è descritto come un uomo semplice, che pensava che dedicarsi completamente al lavoro fosse il modo migliore per prendersi cura della propria famiglia, sottovalutando la malattia mentale della moglie e gli abissi della personalità del suo primogenito, che sarebbe diventato uno dei più famosi serial killer della storia. Le sue parole rendono l’idea di cosa significhi aver messo al mondo e cresciuto un uomo noto per la sua crudeltà, che contrasta atrocemente con l’immagine del bambino biondo che era stato suo figlio:

“Mi spinsi a credere che, quand’anche Jeff fosse stato coinvolto in un omicidio, potesse non essere lui il colpevole. […] Con la forza della disperazione, continuavo a riservare a mio figlio il ruolo di vittima, di una persona che era rimasta per caso invischiata in una rete di terribili circostanze. […] Jeff aveva toccato il fondo del peggio che un figlio può raggiungere, il fondo più abietto, e sentivo che mi stava portando giù con lui, trascinandomi nel caos totale della sua esistenza.” [6]

In alcuni casi, i familiari delle vittime riconoscono i parenti del colpevole come vittime anch’esse. A volte può avvenire un momento di incontro, di doloroso confronto e dialogo tra queste famiglie ferite, che può rappresentare un momento di catarsi, di liberazione. Per i parenti dell’assassino, il fatto di essere riconosciuti a loro volta come persone distrutte, come portatori di un lutto e infine come esseri umani può essere estremamente importante e terapeutico.

Note

  • [1] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2006, pp. 509-512.
  • [2] https://www.youtube.com/watch?v=cwOySbfH_lI&list=LL&index=54&t=323s
  • [3] V. Mastronardi, R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2006, pp. 500-502.
  • [4] Ibidem.
  • [5] R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2021.
  • [6] L. Dahmer, A Father’s story, Sperling e Kupfer, Milano 2023, pp. 116-118.

Marianna Cuccuru

Laureata in scienze dell' Educazione, studia da molti anni il fenomeno dei serial killer. Ha tenuto lezioni sul tema presso l'università dell'Insubria e per l'associazione Fidapa di Varese.