Approfondimenti

La storia del negazionismo della Shoah

di Daniela Rana

Da almeno un decennio in tutta Europa si sta assistendo a un aumento preoccupante del negazionismo della Shoah. [1] Nel nostro paese, nel 2020, coloro che credevano che “l’Olocausto degli ebrei non è mai accaduto” erano il 15,6% contro il 2,7% di 16 anni prima [2], mentre gli Stati Uniti detenevano invece il primato dei discorsi d’odio antisemita online (68%) [3].

Tre anni fa, sempre su Query on Line, era stato pubblicato un mio articolo sul negazionismo della Shoah [4], che esaminava le radici storico-politiche e la nascita del concetto di negazionismo, a partire da uno dei suoi sorprendenti “padri fondatori”: Paul Rassinier, francese, socialista ed ex deportato a Buchenwald e Dora.

Riassumendo, per negazionismo della Shoah (o dell’Olocausto) si intende il tentativo di negare che questa – ovvero lo sterminio degli ebrei d’Europa durante la seconda guerra mondiale – sia mai avvenuta, respingendo l’idea dell’intenzione di sterminio del popolo ebraico da parte del regime nazista [5].

In particolare, i negazionisti non negano che siano morte migliaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale o che siano stati organizzati campi di concentramento per la loro detenzione, ma negano l’intenzione genocidaria, ovvero che le autorità tedesche abbiano mai pianificato lo sterminio degli ebrei d’Europa e abbiano mai costruito o gestito alcun campo in cui gli ebrei venivano messi a morte tramite gas.

Non negano, quindi, l’esistenza dei lager in cui gli ebrei, insieme a molte altre categorie di persone nemiche del Reich spesso per il solo fatto di esistere (es. popoli Rom e Sinti, Testimoni di Geova, omosessuali, ma anche prigionieri politici, asociali, criminali comuni, ecc.) venivano raccolti e detenuti e spesso condannati a lavori forzati. Delle migliaia di campi di concentramento sparsi in tutta Europa e soprattutto nella parte centro-orientale, circa sei vennero poi classificati come campi di sterminio vero e proprio, il cui scopo precipuo, cioè, era la messa a morte. Secondo la storica francese Olga Wormser-Migot, nel suo fondamentale Le système concentrationnaire Nazi (1933-1945), pubblicato nel 1968, oggi in parte superato ma che rimane opera imprescindibile e la prima a proporre la distinzione tra campo di sterminio e di concentramento, essi si trovavano tutti in territorio polacco e corrispondevano ad Auschwitz-Birkenau, Belzec, Chełmno, Majdanek, Sobibor, Treblinka [6].

I negazionisti, quindi, negano specificamente l’esistenza dei campi di sterminio, o meglio li riducono a “comuni” campi di concentramento, rifiutando l’idea che vi avvenisse la messa a morte intenzionale, sistematica e industrializzata degli ebrei tramite gas, con conseguente sepoltura di massa dei cadaveri e/o loro cremazione nei forni.

Simbolicamente, dunque, la negazione si concentra sulle camere a gas, vero e proprio discrimine della volontà di compiere un genocidio. Queste strutture, laddove esistevano, secondo i negazionisti, servivano invece a disinfestare vestiti e coperte da pulci e pidocchi, temuti veicoli di potenziali epidemie. Questa la narrazione all’interno della quale fu possibile per Louis Darquier de Pellepoix, ex commissario generale per le questioni ebraiche sotto il regime di Vichy, dichiarare nel 1978 in un’intervista concessa a L’Express

À Auschwitz on n’a gazé que les poux” (“Ad Auschwitz abbiamo gasato soltanto i pidocchi”).

La seconda ondata del negazionismo

Nell’articolo precedente ci si è limitati alla disamina della prima ondata del negazionismo della Shoah, che coincide – tranne per il proto-negazionismo di Rassinier – con una specifica componente teorico-politica del negazionismo stesso, ovvero la componente ideologica.

Si tratta, cioè, di una visione del mondo in cui il negazionismo della Shoah è funzionale alla propria ideologia antisemita, costituendo solo un nuovo, ancorché decisivo, tassello delle menzogne che gli ebrei, secondo tali negazionisti, sono tradizionalmente e strutturalmente portati a raccontare, tramandare e costruire. È un negazionismo che permette di ridisegnare, una volta di più, gli ebrei come “perfidi giudei” [7], dediti agli intrighi, alla menzogna e alle lotte per il potere, fino a giungere a proporre una versione attualizzata e speculare dei Protocolli dei Savi di Sion – il “mito di Auschwitz” o “holo-hoax” [8] – più scaltra dell’originale perché basata sul lavoro del senso di colpa occidentale nei confronti degli ebrei per la costituzione e il successivo sostegno allo Stato di Israele (secondo tale visione, cioè, ciò che non poté l’intrigo poté il senso di colpa post-olocausto).

Sul versante opposto, il negazionismo di tipo fattualista si avvale di un approccio non ideologico (o quantomeno, non esplicitamente ideologico) ma tecnico e quasi scientista allo studio del genocidio ebraico e caratterizza la seconda ondata del negazionismo internazionale.

I suoi rappresentanti [9] affermano di accostarsi sine ira ac studio (ovvero in maniera obiettiva) alle ricerche tecniche e storiche sulla Shoah, dichiarando in ogni premessa ai propri lavori una decisa estraneità agli approcci ideologici. Tracce di loro eventuali appartenenze politiche sono spesso inesistenti o di labile rintracciabilità: non si sa praticamente nulla di eventuali trascorsi di militanza politica degli esponenti di tale filone e, inoltre, il loro approccio non prevede mai -almeno, non esplicitamente – l’uso di categorie politiche per leggere gli avvenimenti. Le loro collaborazioni con gruppi e case editrici di ispirazione neonazista o di estrema sinistra sono riconducibili a un mero utilizzo strumentale – in quanto la disponibilità a pubblicare tale materiale è sicuramente molto più presenti in queste aree – senza implicare la loro adesione ai principi politici ispiratori di tali gruppi e case editrici.

Come menzionato, il negazionismo fattualista iniziò a farsi strada con la seconda ondata dei negazionismi in Francia, collocabile storicamente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e facente capo a Robert Faurisson. In effetti, si può sostenere che i veri padri di questo tipo di negazionismo siano Robert Faurisson in Francia e Carlo Mattogno in Italia.

Le ricerche del negazionismo fattualista si concentrano sull’impossibilità tecnica e storica dello sterminio (soprattutto per quanto riguarda l’amplissima produzione di Mattogno): le argomentazioni portanti vanno dall’impossibilità fisico-tecnica di gasare e bruciare le quantità di persone accertate dalla storiografia sullo sterminio fino alla decostruzione delle testimonianze e delle confessioni di ex SS ed ex detenuti nei campi. Questo tipo di negazionismo non ha particolare rilievo dal punto di vista dell’elaborazione teorico-politica, ma in sua assenza i negazionismi ideologici non potrebbero esistere, poiché avrebbero scarse argomentazioni tecniche su cui basarsi.

Faurisson, insegnante di letteratura francese in un liceo di Vichy e poi in alcune Università francesi, classe 1929, ebbe un breve scambio epistolare con Rassinier nel 1967: la morte di quest’ultimo impedì ogni ulteriore sviluppo dei rapporti fra i due. Nel 1978, annus mirabilis per il negazionismo internazionale [10], Faurisson scrisse per la rivista “Défense de l’Occident” [11], un articolo che fu poi pubblicato da “Le Monde” sotto forma di lettera (che aveva già precedentemente inviato con vari tentativi al quotidiano francese e che fu infine pubblicata nel dicembre dello stesso anno) [12]. In questa e in un altro testo dell’anno successivo [13], espresse esplicitamente la sua “certezza di trovarsi davanti a una menzogna storica”, corredando questa dichiarazione con l’elenco [14] di quelli che divennero successivamente noti come i princìpi-cardine del negazionismo internazionale, in cui, indipendentemente dalla componente di appartenenza, pressoché tutti i negazionisti si riconoscono ancora oggi:

  1. Le “camere a gas” naziste non sono mai esistite
  2. Il “genocidio” (o il “tentativo di genocidio”) degli ebrei non ha mai avuto luogo
  3. Le pretese “camere a gas” e il preteso “genocidio” costituiscono un’unica ed identica menzogna
  4. Tale menzogna, che è d’origine essenzialmente sionista, ha permesso una gigantesca truffa politico-finanziaria di cui lo Stato di Israele è il principale beneficiario
  5. Le vittime principali di questa bugia e di questa truffa sono il popolo tedesco e il popolo palestinese
  6. La forza colossale dei mezzi d’informazione ha, fino ad ora, assicurato il successo della menzogna e censurato la libertà d’espressione di coloro che denunciavano questa bugia
  7. I sostenitori della menzogna sanno ora che la loro bugia sta vivendo i suoi ultimi anni; essi deformano il senso e la natura delle ricerche revisioniste; definiscono “riaffiorare del nazismo” o “falsificazione della storia” ciò che altro non è se non un giusto ritorno all’amore per la verità storica.

Questa circostanza segnò il salto di qualità del negazionismo: mai prima di allora era riuscito a oltrepassare la soglia di alcuni circoli e dibattiti e i confini degli interessi settari. L’opinione pubblica ma, soprattutto, gli storici e gli studiosi si accorsero del fenomeno. A ciò si aggiunse, nel 1980, l’inaspettata ulteriore fama a seguito della pubblicazione del suo libro Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire: la question des chambres de gaz, la cui importante eco gli fu assicurata dalla prefazione, scritta dal politologo e filosofo americano Noam Chomsky. Quest’ultimo, pur ammettendo di non aver letto l’opera, dichiarò di aver accettato di scriverne la prefazione in nome della libertà di espressione: “Per coloro che hanno imparato qualcosa dal XVIII secolo (vedi Voltaire), è ovvio, senza nemmeno sognarsi di discuterne, che la difesa del diritto alla libera espressione non si limita alle idee che si approvano, ma che è proprio nel caso di idee che si ritengono più urtanti che questo diritto dev’essere più vigorosamente sostenuto” [15].

Ciò regalò, de facto, alla seconda ondata del negazionismo una celebrità insperata, rendendolo, in qualche modo, socialmente più presentabile, grazie all’accostamento con uno studioso conosciuto e stimato come Chomsky.

Le categorie interpretative del negazionismo fattualista

L’elenco in sette punti summenzionato non deve trarre in inganno circa l’idea che i negazionisti della seconda ondata siano necessariamente complottisti (e che ricadano, quindi, in una certa misura, nel negazionismo ideologico, legato a una determinata visione degli ebrei come ontologicamente bugiardi e intriganti): in moltissimi casi, infatti, le loro conclusioni derivano dall’applicazione di un paradigma scientista [16] alle questioni storiche, attraverso un approccio di buona fede [17]. Anche sulla Shoah, ad esempio, non si sostiene che gli ebrei (e poi lo Stato d’Israele) abbiano consapevolmente e teleologicamente costruito una menzogna, ordito un complotto. Auschwitz, infatti, sarebbe nato come propaganda di guerra, ossia come diffusione di notizie (quasi completamente inventate o esagerate) riguardanti le atrocità commesse dai nemici, insomma un’intenzionale propaganda dell’orrore, elaborata da centri di resistenza ebraici e polacchi, piuttosto tipica di ogni conflitto, e che, come le leggende meglio riuscite, conteneva anche un fondo di verità, quale ad esempio il fatto innegabile dei massacri operati dalle Einsatzgruppen [18] sul fronte orientale. Tale propaganda di guerra, però, secondo i negazionisti, venne poi data per “fatto generalmente noto” dalle corti marziali alleate, che costituirono l’origine della storiografia “ufficiale” sullo sterminio [19].

Se è vero, tuttavia, che una storiografia organica sui campi di concentramento nacque solo a metà degli anni Sessanta e proprio grazie ai documenti prodotti per e dopo il processo di Norimberga (1945-46), il processo per Auschwitz (1963-65), grazie all’impulso dato dal processo Eichmann a Gerusalemme [20] (1961) e, successivamente, per e dopo il processo Majdanek (1975) [21], “non è un qualsiasi articolo del regolamento del Tribunale a determinare l’autenticità di un documento o di una testimonianza agli occhi dello storico, in quanto questo ha propri metodi sperimentati per giudicarne e non è in alcun modo vincolato dagli articoli del regolamento del tribunale”, come scrisse lo storico Georges Wellers, nel 1981, in un’opera fondamentale che decostruisce, dal punto di vista storico, le dichiarazioni negazioniste [22].

L’irritante problema della prova storica

Nella ricostruzione storiografica, che manca spesso di prove così come intese dalle scienze dure, ci si avvale di un cosiddetto “paradigma indiziario” [23] come modello conoscitivo operante nelle discipline “non quantitative” [24].

Si tratta di un modello interpretativo che si basa sulla raccolta, analisi, classificazione dei dati; sulla formulazione di un’ipotesi di collegamento tra i dati che ricostruisca nel modo più economico e verosimile (“exigences de plausibilité” [25]) la “realtà dei fatti”; sulla deduzione delle conseguenze di tali ipotesi e sulla loro verifica alla luce di altri dati [26]. Tali congetture devono inoltre obbedire al principio di non-contraddizione, di coerenza interna al racconto degli avvenimenti e di aderenza all’esperienza del lettore, alla sua “esigenza di plausibilità”, che rende compatibile l’evento straordinario con l’ambiente ordinario del lettore [27].

Tuttavia, questo discorso si complica nel caso delle testimonianze dei reduci, circostanza in cui intervengono due serie di problemi. Intanto, il paradosso del testimone integrale: l’unico testimone integrale della Shoah è colui che non può testimoniare (perché ucciso in camera a gas). In secondo luogo, l’esperienza che tale testimonianza deve trasmettere è quella di “un’inumanità senza pari rispetto all’esperienza dell’uomo ordinario” [28]. Viene messo in crisi, in questo caso, il principio della plausibilità della testimonianza: siamo nell’orizzonte delle esperienze “al limite”.

Come si può notare, la “realtà dei fatti”, contrariamente alla scienza, non è ripetibile; le ipotesi storiografiche difficilmente possono essere convalidate o confutate dal ripetersi dell’esperienza [29]. Non per questo, però, lo storico deve rassegnarsi a un’impossibilità epistemica: in mancanza di “prove”, egli ricostruirà un quadro indiziario, appunto, tenendo conto che, sebbene molti indizi non facciano una prova, più indizi convergenti rafforzano un’argomentazione [30].

Ciò che occorre tenere presente, quindi, è che l’acquisizione verbale della conoscenza (ovvero la testimonianza che, sotto certe condizioni, costituisce fonte primaria per la ricerca storica) non è riconducibile all’epistemologia delle scienze naturali. La prospettiva metodologica dei negazionisti fattualisti è di tipo positivista o scientista, in quanto essi adottano un metodo proprio delle scienze dure per affrontare i problemi storici, commettendo due errori metodologici di fondo. In primo luogo, spesso operano una radicale decontestualizzazione, appuntandosi su questioni meramente tecnico-ingegneristiche relative alle camere a gas o ai forni crematori (dimensioni dei forni e delle muffole, quantità di Zyklon B ordinate e utilizzate nei campi, tipo di chiusura delle camere a gas, dimensioni delle stesse e confronto con le testimonianze, per esempio di membri dei Sonderkommando [31], per dimostrare che era impossibile uccidere la quantità di persone presente nelle loro testimonianze, ecc.), o storica ma estremamente specifica (ordini e circolari interne in cui non si pronuncia mai, in maniera chiara e inequivocabile, l’espressione “sterminio”), perdendo di vista il contesto, anche ideologico, entro cui si muovono. Occorre ricordare, inoltre, che la politica del segreto nazista fu contrassegnata dallo Sprachregelung, il linguaggio basato su significanti volutamente vaghi e generici, attraverso il quale si potevano implementare le azioni di sterminio senza mai nominarle direttamente (es. “reparti speciali”, “soluzione finale”, ecc.) [32]. Esso creò interstizi interpretativi ideali per chi vi si approccia alla lettera e per chi, come i negazionisti, evita di corroborare tale linguaggio con le testimonianze, non prestando mai attenzione al quadro di insieme.

Il secondo errore metodologico di fondo consiste nell’interpretazione della storia non sulla scorta di dati sensibili, al fine di ricostruire il “paradigma indiziario” di cui sopra, ma sulla base di dati ignoti [33], in un continuo esercizio di “contestare alla realtà di esistere” [34] che si inserisce nella tradizione iper-decostruzionista inaugurata da Faurisson già nell’analisi di opere letterarie [35]. Secondo lo storico Marc Bloch, infatti, “lo scetticismo programmatico non è un atteggiamento intellettuale più apprezzabile né più fecondo della credulità” [36]: gli storici non impostano la propria ricerca su documenti ritenuti menzogneri al fine di decostruire eventi ritenuti falsi, al contrario: “fare storia significa avanzare ipotesi su come si sono (verosimilmente) svolti gli eventi passati” [37]. Il negazionismo, rifiutando la testimonianza, assurge a uno scetticismo abitualmente limitato alla plausibilità di alcuni dettagli, giungendo alla completa negazione dell’evento.

Su tali inciampi metodologici si innestano specifiche modalità di interpretazione delle fonti, così come sono state analizzate dalla semiologa Valentina Pisanty, che mette in luce le strategie interpretative e discorsive utilizzate dai negazionisti. In breve, esse sono costituite principalmente da una selezione e da un trattamento “disinvolto” delle fonti [38], in una sorta di decontestualizzazione che, dal piano storiografico, come abbiamo visto poco sopra, si allarga anche al livello interpretativo. Inoltre, i negazionisti, secondo la semiologa, si avvalgono di particolari tecniche di smontaggio delle testimonianze (isolandole dal contesto, tentando di screditare personalmente il testimone), le quali – già prove deboli – vengono poi lette “a contropelo”, alla ricerca, cioè, di ogni sbavatura esegetica, minime inesattezze dovute alla fallacia della memoria, ad iperboli, ad un’errata valutazione di misure o numeri, al fine di concludere che falsus in uno, falsus in omnibus: se il testimone si è sbagliato su un punto, per quanto minimo, nulla garantisce che non si sia sbagliato anche su tutto il resto [39]. Esiste, cioè, un’enorme sproporzione tra l’entità delle inesattezze e degli errori (magari anche presenti) riscontrati e le conclusioni tratte dai negazionisti [40].

Nell’ottica scientista, si produce, quindi, un corto circuito, che trasforma rapidamente l’approccio positivista in negazione: la pretesa della “prova sovrana” (v. sopra, laddove si parla del linguaggio nazista – “Sprachregelung”), alla base del metodo scientifico, non può essere soddisfatta. La prova sovrana è stata inghiottita dal cono d’ombra della politica del segreto, mentre le testimonianze sono portatrici di un’autenticità epistemologica debole.

“Il genocidio è […] un evento con testimoni e senza prove[41].


Bibliografia

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  • Wormser-Migot, Olga, Le système concentrationnaire Nazi (1933-1945), Presses Universitaires de France, Paris, 1968

Note

  1. Cfr. Allarme per il crescente antisemitismo in Europa, su Treccani https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/allarme-per-il-crescente-antisemitismo-in-europa.html, 7 novembre 2023, che fa riferimento ai dati riportati dalle associazioni che, nei tre paesi menzionati, si occupano di monitorare gli episodi di antisemitismo (rispettivamente, IKG Wein-Israelitische Kultusgemeinden Wein in Austria, Bundesverband der Recherche- und Informationsstellen Antisemitismus in Germania e Community Security Trust nel Regno Unito).
  2. Eurispes – Istituto di Studi politici, economici e sociali, 32° Rapporto Italia. Percorsi di ricerca nella società italiana, 2020, reperibile su https://eurispes.eu/pdf-reader/web/viewer.html?file=https://eurispes.eu/wp-content/uploads/2020/02/2020_rapporto_italia_eurispes.pdf
  3. Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Special Rapporteur on Freedom of Religion or Belief, Report on combating antisemitism to eliminate discrimination and intolerance based on religion or belief, 20 settembre 2019, p.11.
  4. https://www.queryonline.it/2021/01/27/come-nacque-il-negazionismo-della-shoah-in-italia/ 
  5. R. S. Wistrich, Negazionismo, in W. Laqueur (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2004, p. 492. 
  6. Olga Wormser-Migot, Le système concentrationnaire nazi (1933-1945), Presses Universitaires de France, Paris, 1968. Negli anni successivi, la storiografia ha cesellato le proprie acquisizioni (escludendo o annoverando alcuni campi, per esempio, non includendo successivamente Maly Trostenets e includendo invece la camera a gas e il camion a gas di Mauthausen), sulla base di nuove informazioni e conoscenze emerse, grazie a una sempre maggiore disponibilità e accessibilità delle fonti. Per un riassunto esauriente delle acquisizioni storiografiche più recentemente consolidate riguardo alla politica di sterminio, cfr. Liliana Picciotto, I campi di sterminio nazisti. Un bilancio storiografico, in AA.VV., a cura dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Lager, totalitarismo, modernità. Identità e storia dell’universo concentrazionario, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2009.
  7. L’espressione “pro perfidis Judaeis” si ritrovava nella preghiera del Venerdì Santo fino al Concilio Vaticano II, che ne decretò l’espunzione dalla liturgia. Si invitava così a pregare per gli ebrei miscredenti (per-fidia, ossia mancanza di fede), affinché Dio togliesse il velo dai loro occhi ed essi potessero riconoscere il Cristo Messia.
  8. Gioco di parole che combina il termine olocausto (holocaust) e menzogna (hoax).
  9. Essi si autodefiniscono spesso come “scuola revisionista” e quasi tutti collaborano con l’Institute for Historical Review (IHR) americano, fondato nel 1978, cooperando a volte anche fra loro, ma tali collaborazioni sono rapsodiche e non continuative e i collaboratori cambiano di volta in volta, non dando mai vita a gruppi di lavoro stabili nel tempo, ma anzi configurandosi decisamente come singoli “studiosi”.
  10. Nel 1978, infatti, Faurisson segnò, con la sua lettera, il primo sconfinamento del negazionismo fuori dalle ristrette nicchie cui era confinato; venne fondato, negli Stati Uniti, l’Institute for Historical Review, che tentò di organizzare internamente il negazionismo internazionale; Darquier de Pellepoix si permise l’uscita-choc sulla gasazione dei soli pidocchi ad Auschwitz; Claudio Mutti fondò a Parma le Edizioni All’Insegna del Veltro, che costituirono un bacino editoriale essenziale per le opere negazioniste, quasi al pari delle Edizioni di Ar di Franco Freda. Insomma, un anno di intensa attività negazionista e risultati raggiunti, che segnò il passaggio alla seconda ondata del negazionismo mondiale.
  11. “Défense de l’Occident”, n. 158, giugno 1978 
  12. Robert Faurisson, Le problème des chambres à gaz ou la rumeur d’Auschwitz, in “Le Monde”, 28 dicembre 1978.
  13. Robert Faurisson, Une lettre de M. Faurisson, in “Le Monde”, 16 gennaio 1979.
  14. Questo è un documento che andò a completare la lettera che Robert Faurisson inviò a Le Monde, in Id., Le problème des chambres à gaz ou la rumeur d’Auschwitz, in “Le Monde”, 16 gennaio 1979. Il documento in questione non fu pubblicato, ma venne poi riproposto in Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique? Le dossier de l’affaire Faurisson: la question des chambres à gaz, La Vieille Taupe, Paris, 1980, p. 89, nonché sul sito negazionista dell’AAARGH (Association des Ancients Amateurs de Récits des Guerres et d’Holocaustes), associazione fondata dallo stesso Thion nel 1996 (https://aaargh.vho.org/). 
  15. Noam Chomsky, Prefazione, in R. Faurisson, Mémoire cit., p. XII.
  16. Ci si riferisce qui alla connotazione odierna del termine, ossia all’indebita estensione di metodi scientifici ai più diversi aspetti della realtà, come riportato in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana
  17. Il dibattito sui negazionisti e sulla loro presunta buona fede è fervido e vede molti studiosi autorevoli schierarsi su posizioni che rifiutano la professione di buona fede (per esempio, solo per citarne alcuni, Anna Foa, Francesco Germinario, Georges Wellers, che la rifiuta in parte, ecc.). Altri emeriti studiosi, come Pierre-André Taguieff e Valentina Pisanty, invece, si dicono convinti della buona fede solo fino a un certo punto della discussione (tipicamente, fino alla pubblicazione del doppio lavoro di Jean-Claude Pressac – Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, del 1989 e Les crematoires d’Auschwitz: la machinerie du meurtre de masse, del 1993 – farmacista, inizialmente negazionista poi convertitosi durante una ricerca su documenti tecnici relativi ai crematori di Auschwitz-Birkenau, la cui ricerca fu ritenuta talmente completa ed esaustiva dal punto di vista tecnico da poter rappresentare il muro contro cui si sarebbe infranta ogni obiezione negazionista). In questa sede, nel caso del negazionismo fattualista, si preferirà dar credito all’opinione della storica Olga Wormser-Migot.
  18. Le Einsatzgruppen (gruppi di azione) erano originariamente unità di intelligence della polizia nazista che collaboravano con l’esercito tedesco nel corso dell’invasione di Austria, Cecoslovacchia e Polonia. Successivamente, il termine andò a riferirsi alle unità mobili di sterminio delle SS che viaggiavano con le forze tedesche che invasero l’Unione Sovietica nel 1941 (definizione dello Yad Vashem, Shoah Resource Center, The International School for Holocaust Studies, “Einsatzgruppen”, reperibile su https://www.yadvashem.org/untoldstories/documents/GenBack/Einsatzgruppen.pdf, trad. dell’Autrice).
  19. Cfr, per tutti, C. Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, Theses & Dissertations Press, Chicago (USA), 2004 (in particolare, i capp. 4 e 5, rispettivamente intitolati: “The Origin of the Propaganda Story of the ‘Bunkers’ – Wartime Rumors” e “The Propaganda Is Consolidated: Postwar Testimonies”).
  20. Il processo Eichmann venne descritto e commentato dalla filosofa Hannah Arendt, sotto forma di reportage scritto per il “New Yorker”, in quell’opera divenuta pietra angolare della riflessione anche filosofica sulla Shoah che è La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
  21. Enzo Collotti, Il sistema concentrazionario nella Germania nazista, in Id., Lager, totalitarismo, modernità, pp. 70-71.
  22. Georges Wellers, Le camere a gas sono esistite. Documenti, testimonianze, cifre, Euredit, Torino, 1997 [1981], p. 66.
  23. Cfr. Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino, 1986, pp. 158-209.
  24. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003 [2000], p. 245.
  25. Renaud Dulong, Le témoin oculaire. Les conditions sociales de l’attestation personnelle, Ed. de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1998, p. 86.
  26. Giuseppe Pucci, La prova in archeologia, in “Quaderni storici”, anno XXIX, n. 85, aprile 1994, p. 64.
  27. Renaud Dulong, op. cit., p. 88.
  28. Ivi, p. 249.
  29. G. Pucci, op. cit., p. 60.
  30. Ibidem, p. 69.
  31. Reparti speciali, ovvero i gruppi di ebrei incaricati di estrarre i corpi dalle camere a gas, trasportarli ai forni, bruciarli e smaltirne le ceneri.
  32. Per un’analisi approfondita del linguaggio nazista, cfr Victor Klemperer, LTI – La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze, 2001 [1998]
  33. Claudio Vercelli, “Per ignota destinazione. Il negazionismo”, conferenza tenuta a Torino, 20 febbraio 2012.
  34. P. Vidal-Naquet, citato da Vercelli nella conferenza di cui nota sopra.
  35. Faurisson, infatti, a differenza di Mattogno, nacque come negazionista e, solo dopo, trovò il campo cui applicare il suo metodo di negazione e demistificazione (vocabolo che ricorre molto spesso nei suoi scritti). Non a caso, appunto, la sua attività di “disvelatore di inganni” venne inaugurata in ambito letterario, per poi tradursi in ambito storiografico. Scrisse numerosi pamphlet in cui tentava di demistificare opere letterarie, es. tentando di dimostrare che un’opera del poeta Rimbaud avesse in realtà un significato nascosto erotico, mentre un’opera del poeta Lautréamont avesse in realtà una veste parodistica, parlando nelle sue analisi di “mistificazioni” e della propria opera di “demistificazione” (Cfr. A-t-on lu Lautréamont? del 1972 e A-t-on lu Rimbaud? del 1961). Il passaggio intermedio fu costituito dalla sua indagine – sempre all’insegna di uno scetticismo radicale – dei diari di Anna Frank.
  36. Marc Bloch, Apologia della storia: o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1969, p. 18.
  37. Valentina Pisanty, Come si nega un fatto. Le strategie interpretative dei negazionisti, in Marcello Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Mondadori, Milano, 2001, p. 371.
  38. Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Mondadori, Milano, 2012, p. 25.
  39. Ivi, pp. 25-26.
  40. Ivi, p. 27.
  41. Catherine Coquio, Genocidio: una “verità” senza autorità. La negazione, la prova e la testimonianza, in Marcello Flores, Marcello (a cura di), op. cit., p. 362.

Immagine in evidenza: Museo Ebraico di Berlino, installazione a memoria della Shoah. Ci si può anche camminare sopra. Foto di Alessandro Grussu. da Flickr