Giandujotto scettico

La pioggia di sangue del 1755 in Piemonte e in Lombardia

Giandujotto scettico n° 158 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Il 1755 fu un anno terribile per l’Europa. Fu l’anno del grande terremoto di Lisbona, a cui seguirono uno tsunami e una serie di incendi che devastarono il Portogallo. Ma fu anche un periodo di violente inondazioni destinate a rimanere a lungo nella memoria delle popolazioni dell’Italia del nord, e non soltanto per il numero delle vittime: il 14 ottobre, riferiscono le cronache, nel Piemonte settentrionale e in Lombardia cominciò a piovere sangue.

Cronaca di un’inondazione

L’alluvione dell’ottobre 1755 fu la più grave del XVIII secolo; arrivò dopo un periodo di siccità, alla quale dal 10 ottobre fecero seguito piogge torrenziali. Tra il 13 e il 14 del mese scoppiò un violentissimo nubifragio che coinvolse soprattutto la Svizzera, la Valle d’Aosta, il Piemonte settentrionale e la Lombardia. Molti degli affluenti di sinistra del Po esondarono, ponti e mulini furono spazzati via e si ebbero ovunque frane e smottamenti. A Cuorgnè (Torino) il torrente Orco s’incanalò su un alveo secondario che era stato edificato, portando via case e persone; in Valsesia, nel nord della regione, le Regie miniere d’oro furono sommerse; il paesino di Vonzo, in val Grande, e quello di Noasca, in val Locana, furono travolti da frane, mentre il torrente Egua, di nuovo in Valsesia, invase l’abitato di Carcoforo distruggendo una quarantina di abitazioni… Analoghi fenomeni devastanti si verificarono nel Canavese, nell’Ossola, nel Verbano, nel Biellese e nel Vercellese.

Il Po esondò in diversi punti, in particolare a Carmagnola e Torino. Danni ci furono pure nell’Alessandrino, nella zona di Casale Monferrato, e, fuori dal Piemonte, a Piacenza, Mantova e Ferrara. È difficile quantificare il numero di vittime, ma è possibile che siano state alcune centinaia, mentre gli sfollati furono dell’ordine di qualche migliaio.

Chi volesse farsi un’idea della devastazione portata dalle alluvioni del 1755 potrebbe leggere, oltre al riassunto sul sito dell’Arpa Piemonte, anche due cronache dell’epoca, pubblicate entrambe nel 1756: l’anonimo Compendioso racconto di più incendj, inondazioni, fenomeni e terremoti accaduti in diverse parti del Mondo nel passato anno 1755, e nel principio del corrente 1756, raccolti da notizie degne di fede, e Delle luttuose vicende dell’anno 1755, racconto istorico, e filosofico, con una dissertazione sopra il tremuoto, di Giuseppe Boni (anche noto come Giuseppe Omobono De Bonis). Sono testi da prendere cum grano salis: si tratta di raccolte di notizie che circolavano all’epoca, riprese da fonti diverse, che mescolavano cronache dettagliate e dicerie esagerate. Nel primo, ad esempio, abbiamo trovato questa frase:

Dall’inondazione del Pò in Torino furono parimente trasportate case, robbe, e Persone, e viddesi perfino galleggiare sù i flutti una culla con entro una bambina viva, ed un gatto a i piedi della medesima. 

La storia della culla galleggiante in cui un bambino dorme tranquillo incurante della violenza dei flutti, con ai piedi un gattino (che in alcune versioni si assume il compito di tenere in equilibrio la “zattera”) è una vecchissima leggenda metropolitana: ritorna in molti resoconti delle inondazioni passate, ed è tuttora parte del folklore olandese

Piogge di sangue

Le catastrofi dell’ottobre 1755 non si fecero ricordare soltanto per la loro portata, ma anche per il colore delle precipitazioni: dal cielo scendeva un’acqua rossastra che imbrattava i muri bianchi delle case e le foglie dei cavoli, nei campi. A parlarne è soprattutto Giuseppe Boni, che nel suo Delle luttuose vicende racconta di una sorta di “indagine” per cercare di capire la ragione di quel portento. La “pioggia di sangue” fu segnalata in località diverse, a volte più rossastra, altre più giallastra, “collo sbalordimento di tutti quelli, che mai nè veduto, nè letto, nè udito aveano sì rara pioggia nella circostanza d’altre inondazioni”. Come da copione, molte persone ci videro un preludio dell’Apocalisse:

Ne i Luoghi finora mentovati cadde la pioggia rossa, e dal volgo detta di sangue. Inaudito, inusitato, e affatto nuovo portento da molti ancora di quelli, che sono creduti talvolta dotti, senza impacciarsi ne’ volumi delle Storie, è stato giudicato il fenomeno della rossa pioggia d’Ottobre, e spacciato da essi, e molto più dall’ignaro volgo, per un sicuro annunzio della prossima desolazione dell’universo, e della fine del mondo. 

La pioggia lasciava un deposito rossastro ovunque, evidente soprattutto sulle foglie degli alberi, su cui rimase per giorni. In alcune località si pensò di raccoglierla in secchi e catini. Questo permise al già citato Giuseppe Boni di capirne meglio la natura.

Alla ricerca di una spiegazione 

Chi era questo erudito del Settecento? Come molti studiosi dell’epoca, si trattava di un religioso cattolico. Nato a Sarégo (Vicenza) il 20 giugno 1723, aveva studiato lettere ad Arona nel locale Collegio dei Gesuiti, e poi teologia a Milano. A vent’anni entrò nell’ordine dei padri Barnabiti e qui prese i voti. Insegnò prima a Milano, nel Collegio di sant’Alessandro, poi al Liceo di Acqui Terme, per terminare infine la sua carriera come professore di teologia e filosofia all’Università di Bologna, città in cui morì nel 1802. A quanto pare, Boni capì subito che la pioggia rossa del 1755 non era sangue:

L’accortezza di chi ebbe l’attenzione di raccoglierle in alcuni vasi di vetro, m’ha assicurato, che ritrovossi nel giorno seguente una deposizione di minuta arena rossa, e l’acqua di colore gialletto. Somigliante arena restò per alcuni giorni sulle verdure. 

Fu tentato qualche esperimento su quell’insolita acqua piovana, per esempio provando a darla da bere ai polli (che non ne vollero sapere) o cercando di dar fuoco al residuo sabbioso (“non si accese”). Per Boni, comunque, l’esame visivo già da solo indicava che le “minute particelle” erano in tutto e per tutto simili alla sabbia ordinaria. Con le conoscenze di oggi, possiamo dargli ragione: si trattava probabilmente di pioggia mista a sabbia trasportata dai deserti dell’Africa, un fenomeno che ogni tanto avviene sulle regioni dell’arco alpino senza destare troppo scalpore. Ma Boni non si limitò a un esame esterno dell’acqua raccolta: 

Dopo tutto ciò non soddisfatto ancora il mio genio, curioso quanto qualunque altro nelle cose filosofiche, e intorno a i fenomeni della natura, nè contento di quanto mi scoprivano gli occhi miei ben sani, per divino favore, e vigorosi, mi rivolsi al testimonio d’un altro senso, assaggiai il composto tutto, cioè la terra, e l’acqua insieme, che mi fece pressochè la stessa sensazione, e movimento sulle papille […]. Non pago dello sperimento, che mi ha dato una sensazione simile a quella dell’acqua, e sabbia insieme, ne tentai un altro, separando l’acqua dalla terra, e sabbia caduta, e assaggiando l’una, e poi l’altra, non vi trovai altro sapore, che quello della sabbia naturale, e dell’acqua parimente naturale prese separatamente, con pochissima varietà. 

Il mestiere di “filosofo naturale”, in certi casi, non escludeva prove da esperto sommelier. 

Tra chimica e filosofia naturale

Dunque, come era arrivata fin lì quella sabbia? All’epoca la meteorologia stava muovendo i primi passi, e Boni non disponeva di una spiegazione pronta. Ragionava allora per analogia, cercando di inserire quel tassello nell’impianto teorico della filosofia naturale del tempo. 

Non metteva in dubbio che l’acqua potesse davvero trasformarsi in sangue, in qualche occasione: dopotutto era già accaduto ai tempi di Mosè con le acque del Nilo, e la testimonianza della Bibbia, per un religioso di metà Settecento, era da ritenersi il racconto letterale di un fatto avvenuto davvero. Però il caso del 1755 sembrava diverso. Si dovevano cercare dunque altre analogie. In America si era vista della neve “rossa per la mescolanza del minio” (un ossido di piombo); forse anche nel caso piemontese le particelle di minio si erano mescolate alla terra, e “regnando gagliardissimi venti” si erano sollevate fino in cielo? Oppure, era possibile che l’acqua avesse cambiato colore per la presenza di sostanze chimiche? L’acqua imbevuta di verdegiglio (un pigmento verde che si ricavava dagli iris), argomentava Boni, poteva diventare di color vinato con l’aggiunta di “spirito di zolfo”. Inoltre Newton qualche decennio prima non aveva forse dimostrato che mescolando colori diversi si poteva ottenere un altro colore? 

Dunque, la pioggia rossa poteva essere un fenomeno naturale, non soprannaturale. Azzardava una spiegazione specifica: la sostanza argillosa poteva forse arrivare da monti, o da vulcani “che fuori spingono e arene, e ceneri, e pietruzze, ed altre materie eterogenee”. Queste particelle spinte dai venti fin sul Piemonte, potevano quindi arrivare dall’Etna, o dal Vesuvio, che proprio nel 1755 aveva eruttato (Boni non poteva saperlo, ma l’eruzione si era arrestata il 15 marzo, dunque troppi mesi prima rispetto alle piogge di ottobre, per esserne la causa).

Come hanno fatto notare gli storici Riccardo Cerri e Carlo Alessandro Pisoni, che alla figura di Giuseppe Boni hanno dedicato un saggio,

Il nuovo metodo della ricerca che si stava affermando è quello induttivo, che dai fenomeni risale alle loro leggi. Mentre i filosofi del sec. XVII miravano alla costruzione di grandi sistemi, e il loro metodo era quello deduttivo, i pensatori del sec. XVIII andranno sempre più rinunciando ad ogni forma di deduzione e sistematicità. 

Giuseppe Boni, pur tentando qualche approccio sperimentale al problema, e pur non essendo troppo lontano dal dare la spiegazione corretta alle piogge di sangue, si collocava ancora nel solco della filosofia naturale, con la sua ricerca di sistemi razionali autoevidenti, a cui non seguivano però analisi e verifiche davvero efficaci. Questo approccio tradizionale è evidente soprattutto nel ventiduesimo capitolo del trattato, quello in cui si cercano ragioni “filosofiche”, teleologiche, per l’alluvione del 14 ottobre 1755. 

Spiegazioni teologiche per un disastro

Il 1755 è l’anno che, nella filosofia europea segna un punto di svolta nell’idea delle calamità naturali. Il terremoto di Lisbona fu uno shock per buona parte del mondo cristiano, sia cattolico, sia protestante. Il 1° novembre la terra tremò, facendo crollare case ed edifici religiosi; lo tsunami colpì la popolazione che si era rifugiata sulle spiagge, e gli incendi che si svilupparono in molte zone della città fecero il resto. Fu una vera catastrofe: 90.000 persone – circa la metà degli abitanti della città – persero la vita in quei giorni. 

In quegli anni i terremoti  erano ancora attribuiti senza troppa difficoltà a una punizione di Dio nei confronti dei peccatori. Però il Portogallo della metà del Diciottesimo secolo era una delle nazioni più pacifiche d’Europa. Aveva risolto i suoi conflitti con la Spagna, e si era rivolta verso l’evangelizzazione dell’America meridionale, attraverso la grande colonia brasiliana. Perché Dio si era accanito così tanto contro quel paese, se stava facendo “cose giuste”? E perché l’ira divina si era scagliata con così tanta violenza contro chiese, collegi, le venerabili biblioteche dei seminari, invece di proteggere chi confidava in lui?

Il dibattito percorse tutta l’Europa, fino a toccare i suoi vertici con Immanuel Kant e i suoi Scritti sui terremoti (1756), che nel giovane filosofo tedesco preludevano alle sue riflessioni sulla teodicea, il problema della difficoltà a comprendere la giustizia di Dio. La sua eco può rinvenirsi anche nell’opera di Giuseppe Boni.

Nel proporsi di trovare una “spiegazione filosofica” dell’alluvione del 14 ottobre, Boni cerca prima di confutare le “opinioni comuni” attraverso le quali il disastro veniva giustificato. Una cosa di particolare interessante per noi, perché elencandole in dettaglio, ci permette di avere una panoramica di ciò che la gente pensava sull’alluvione.

Le spiegazioni addotte erano di tre tipi. La prima chiamava in causa la presenza nell’Italia settentrionale di

un esorbitante numero di Donne Streghe, fattucchiere, e maliarde, molti a queste attribuiscono l’orrenda tempesta, e diluvio de’ 14 d’Ottobre colla pioggia creduta insanguinata. […] Così si crede follemente. 

La seconda spiegazione chiamava in causa un decreto di papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini, uomo fortemente influenzato dal pensiero illuministico: la catastrofe era frutto dell’ira di Dio per la riduzione delle feste “comandate” disposta dal pontefice dell’epoca. Questa opinione popolare va spiegata. Sino alla metà del Diciottesimo secolo le feste di precetto, quelle in occasione delle quali per i cattolici era obbligatorio andare a messa e astenersi dal lavoro, erano tantissime. Sollecitato dai sovrani cattolici ad occuparsi del problema, Benedetto XIV aveva pubblicato nel 1742 una “Scrittura sopra l’istanza di sminuire le feste di precetto”, inviata poi a quaranta tra cardinali, vescovi, abati e teologi per averne un parere. Le reazioni non furono univoche e così il papa, invece di fare un decreto che valesse per tutta la cristianità, preferì adottare una soluzione ad hoc per le diocesi che ne avessero fatto richiesta. 

Nel 1755 Maria Teresa d’Austria, che regnava anche sulla Lombardia, chiese al papa di adoperarsi per ridurre le feste in quel suo dominio; e così, il papa mandò un breve che ne dimezzò il numero per i cittadini lombardi, rendendo alcune feste “di mezzo precetto” (si doveva andare a messa, ma si poteva poi tornare subito a lavorare). La cosa suscitò malumori tra la popolazione, e qualcuno arrivò ad attribuire a questo decreto la vera causa delle inondazioni:

Ecco, diceano alcuni, ecco la fonte di tutte le disgrazie, e cagione di tanti mali, l’introdotta novità de i giorni festivi, che toglie a’ Santi il culto, a’ Cristiani la pietà, e la divozione. 

L’ultima spiegazione popolare chiamava invece in causa l’astrologia e il “congiungimento di costellazioni ree”. Tutto questo, per Boni, era “esecrabile”. 

Ma, comunque, non escludeva che per lui l’unica ragione valida per gli eventi del 1755 fosse quella classica, quella della punizione divina:

le calamità sopravvennero, perché da giusta ira di Dio a nostra correzione furono mandate, e scaricate sopra di noi per li nostri peccati: il che sì vivamente penetrò il cuore di molte anime traviate, che abbandonato il vizio, ritornarono sulla strada della salute, colla penitenza, e ravvedimento, adempiendosi la profezia d’Isaia sul Popolo d’Israele, che il travaglio avrebbe a lui dato il senno […]

Le riflessioni sul terremoto di Lisbona, sorte in tutta Europa, sotto ogni latitudine culturale e religiosa, condussero invece la filosofia verso direzioni nuove. Voltaire usò l’esempio del terremoto di Lisbona per un furente Poema sul disastro di Lisbona, contro la teodicea classica (composto in un attimo, il 18 agosto del 1756); Jean-Jacques Rousseau gli rispose all’istante con una lunga lettera, in cui attribuiva parte del disastro alla responsabilità umana che aveva permesso di riunire “in quel luogo ventimila case di sei o sette piani”. 

Leopardi, nel settimo e ultimo volume dello Zibaldone menziona la catastrofe di Lisbona ai pensieri 4174 e 4175, anche se, come ci ha ricordato la studiosa Valentina Sordoni, il pensatore ne fece occasione per una più ampia riflessione sul male universale. L’Illuminismo si era ormai affermato da un pezzo, e, anzi, sotto certi profili il Romanticismo lo stava sopravanzando: il problema del male nel mondo e delle sue cause si faceva ovunque più pressante, fra i teologi, i filosofi e gli scienziati; la natura si avviava a non esser più concepita come qualcosa di connesso a un Dio “schiacciabottoni” pronto a elargire punizioni e premi, e si trasformava in un qualcosa da comprendere razionalmente e, per i teologi, apriva la strada a nuove concezioni sull’onnipotenza di Dio e sulle cause del male del mondo. E Giuseppe Boni, con le sue idee semplicistiche sulle alluvioni piemontesi, rimase indietro.

Si ringrazia Valentina Sordoni per gli utili suggerimenti.
Immagine di Eynoxart da Pixabay