Sulle tracce di Cagliostro, dalla massoneria ‘egiziana’ ad oggi
Fino a grossomodo un anno fa, Cagliostro era per me poco più di un nome. Nome evocativo, senza dubbio, che subito fa venire alla mente magie e illusionismi, strani misteri, truffe aristocratiche, un perfetto clima di fine ancien régime. Cagliostro – lo sapevo dalle mie inesauste letture sulla Rivoluzione francese – era stato implicato nel celebre “Affare della Collana” che aveva compromesso la reputazione di Maria Antonietta e della corte di Luigi XVI alla vigilia dei fatti rivoluzionari. Ed era soprattutto il protagonista di un romanzo straordinario, il Giuseppe Balsamo di Alexandre Dumas. Lì Cagliostro era presentato in tutta la sua luce esoterica: straordinario negromante, mastro dei mastri massonici, capo della setta degli Illuminati, mefistofelico manovratore del complotto contro i troni e gli altari che sfocerà nella Rivoluzione francese. Dumas lo presentava tal quale la pubblicistica lo aveva sempre rappresentato, ridimensionando la scoperta già fatta ai tempi del processo inquisitoriale che costò a Cagliostro il carcere a vita, ossia che il sedicente conte ultracentenario altri non era che un imbroglione siciliano, il Giuseppe Balsamo del titolo originale del romanzo dumasiano.
Prima ancora di Dumas, così lo avevo scoperto nei riferimenti che Umberto Eco vi faceva nel Pendolo di Foucault, romanzo letto e riletto, al punto da affidare a citazioni tratte dal romanzo di Eco gli eserghi di apertura di ciascun capitolo del mio libro Società segrete, poteri occulti e complotti che avevo pubblicato nel 2021. Lì avevo ricostruito la vicenda di Cagliostro in poche righe, proprio nelle prime pagine, nelle quali avevo voluto riprendere la fulminante scena di apertura del romanzo di Dumas, il sabba dei capi massonici in una notte di tempesta sul monte Tonnerre dove Cagliostro – con il famigerato titolo di Gran Cofto – illustrava con parole inebrianti il suo spietato piano eversivo, “vent’anni per distruggere un vecchio mondo e ricostruirne uno nuovo, vent’anni che sono venti secondi dell’eternità”.
Le cento vite di Cagliostro
Ben altra ambientazione quella in cui mi ero imbattuto di nuovo nel nome di Cagliostro. Un primo pomeriggio di novembre del 2022, al nono piano del grosso palazzo che si affaccia su via Marina dove ha sede il Dipartimento di Storia dell’Università Federico II di Napoli, mi trovavo nello studio di Pasquale Palmieri, docente di Storia religiosa dell’età moderna e Storia dell’editoria al quale avevo chiesto la tesi per la mia seconda laurea in storia: una scelta presa d’impulso un giorno di fine d’estate di un anno prima, quando mi ero detto che tutto sommato era ancora abbastanza giovane da non dover archiviare la scelta di non aver studiato Storia all’università tra i rimpianti dell’età.
Fin da subito avevo pensato di chiedere la tesi a Palmieri, di cui mi erano noti gli studi sul tema della simulazione di santità nell’età dei Lumi e che avevo invitato a tenere una relazione a un evento del CICAP che avevamo intitolato Falsi santi. Mi piaceva il taglio innovativo del suo approccio storiografico a un tema, quella della storia religiosa, tipicamente affrontato dal punto di vista delle fonti inquisitoriali, che Palmieri pure utilizzava ma estendendo l’analisi alla ricezione che le vicende analizzate avevano nella società dell’epoca e in particolare nella cultura popolare. “Tra qualche mese esce il mio nuovo libro su Cagliostro”, mi anticipò Palmieri quel pomeriggio nel suo studio, dopo che tutte le mie proposte di tesi buttate giù alla bell’e meglio sul taccuino mentre ero in metropolitana per andare all’appuntamento si erano incagliate senza speranza. Si era salvata solo l’idea di partenza, ossia affrontare qualcosa sul confine poroso tra scienza, magia e religione nell’età moderna. Era per questo che Palmieri aveva tirato in ballo Cagliostro, prendendo poi subito dopo a elencare tutte le possibili piste di ricerca come se stesse sgranando un rosario, mentre mi affannavo a prendere appunti su quelle che evidentemente erano domande rimaste senza risposta emerse dalla sua ricerca e che, ancora fresche nella testa, ora passava rapidamente al vaglio. Decisi che avrei aspettato di leggere il suo libro per capirne di più.
Per comprendere la novità dell’approccio di Palmieri nel suo Le cento vite di Cagliostro (uscito nel marzo 2023) bisognerebbe dapprima leggere il suo libro precedente, L’eroe criminale (2022), il cui sottotitolo “Giustizia, politica e comunicazione nel XVIII secolo” ne riassume l’impianto storiografico. L’eroe criminale ricostruiva la vicenda sconosciuta di fra Leopoldo di San Pasquale, un personaggio picaresco imprigionato a metà Settecento in una fossa nel convento agostiniano di Napoli e da lì rocambolescamente fuggito a più riprese, ma sempre regolarmente riacciuffato, diventando così protagonista di innumerevoli racconti popolari, finché era riuscito a convincere le autorità secolari della barbarie del suo trattamento, affermando di essere stato “sepolto vivo” dai metodi inquisitoriali degli Agostiniani, in un periodo in cui le autorità del Regno di Napoli erano impegnate a contrastare i rigurgiti dell’Inquisizione messa al bando nel 1746 da Carlo di Borbone.
Una vicenda che aveva molti tratti in comune con quella di Cagliostro, in particolare la capacità di trasformarsi in un mito transmediale rapidamente svincolatosi dalla veridicità dei fatti per diventare materia di romanzo; ma anche lo scontro con le autorità giudiziarie religiose, a cui Palmieri guardava non più dal punto di vista della ricostruzione del fatto giudiziario in sé, ma come soggetto mediale che a sua volta dà vita a quello che egli chiama un “teatro della giustizia”, producendo un vero e proprio genere letterario rappresentato dai Pitavals, resoconti di processi giudiziari in cui deposizioni, arringhe e sentenze si fondono con invenzioni e racconti fantasiosi, tanto che a Napoli l’avvocato Domenico Moro, traduttore delle fortunate Causes Célèbres di Pitaval (da cui questa categoria di opere prendeva il nome), metteva in guardia dal rischio che i lettori dalla “mente debole” facessero confusione tra ricostruzioni di processi e romanzi popolari, mescolando il reale all’immaginario.
Ebbene, qualcosa del genere era accaduto anche nel caso di Cagliostro. Il Compendio della vita, e delle gesta di Giuseppe Balsamo denominato il Conte Cagliostro pubblicato nel 1791 a processo di Cagliostro ancora in corso dalla stamperia vaticana a firma di Giovanni Barberi univa ad atti processuali e fonti documentarie “ulteriori particolari che colpivano per la loro esuberanza narrativa, anche a costo di mancare di verosimiglianza”, proponendo aneddoti tratti dai “consumati stereotipi del romanzo picaresco e di altri generi di finzione”. Situazione riscontrabile analogamente nella Corrispondenza segreta sulla vita pubblica, e privata del conte di Cagliostro, apparsa anch’essa nel 1791, anonima ma facilmente attribuibile a Giuseppe Compagnoni, destinato nel triennio repubblicano a diventare padre nobile del tricolore italiano, e che, nel suo ruolo di direttore del giornale “Notizie dal mondo”, mescolò a sua volta estratti dalle carte giudiziarie con “nuovi aneddoti – o microstorie – utili ad arricchire la trama principale, già dotata di molteplici ramificazioni e di una sua serialità”.
Se se ne vuole una prova, si consideri questo racconto: Giuseppe Balsamo sarebbe entrato proditoriamente in possesso del “Libro dei sette dormienti” di Efeso, che era stato nascosto al tempo di Giustiniano nel ventre del Colosso di Rodi, custodito dalle armate del generale Belisario, finché il timore che il suo generale leggendolo potesse diventare signore del mondo convinse l’imperatore a fargli cavare gli occhi. Distrutto il Colosso in un terremoto, il codice fu ritrovato dagli Ebrei impegnati a fondere l’argento della testa del Colosso, per essere poi sequestrato dal califfo di Babilonia il quale, “versato nella scienza arcana degli Egizi”, subito lo riconobbe e lo utilizzò per accrescere il suo potere. Trasmesso ai suoi eredi, fu strappato ai Saraceni da Tancredi durante le Crociate e consegnato al Gran Maestro dei Templari, finché non giunse nella biblioteca del convento di Caltagirone dove Balsamo, che lì svolgeva il suo noviziato, non se ne imbatté, utilizzandolo per “apprendere tutti gli arcani della scienza profonda dei sogni”. Nulla di questo si trova negli interrogatori di Cagliostro e nelle carte del processo inquisitoriale. Ma non si può negare che si tratti di un gran pezzo di bravura che avrebbe deliziato Dumas.
“È così prevedibile che potrebbe essere programmato da un computer”
Palmieri dunque non si era proposto di rifare la biografia di Cagliostro o tornare su una vexata quaestio (Cagliostro = Giuseppe Balsamo?) che appassiona solo il sottobosco dei cagliostristi di professione, pronti ancora oggi a mostrare come il loro idolo fosse stato in realtà proprio colui che sosteneva di essere, il Gran Cofto maestro di magia e alchimia. Intendeva piuttosto mostrare come la popolarità di Cagliostro trasse vantaggio da un ricco ecosistema mediatico nel quale avevano già prosperato altre figure, come il conte di Saint-German o – perché no? – il napoletano Leopoldo di San Pasquale, in ciò confermando il giudizio che ne aveva dato Umberto Eco nel suo intervento Migrazioni di Cagliostro (ora raccolto nel volumetto Tra menzogna e ironia). “È così prevedibile che potrebbe essere programmato da un computer a cui siano state fornite le seguenti informazioni: notizie sulla psicologia di un personaggio tipico della cultura settecentesca, l’avventuriero (da Casanova a Da Ponte), col suo gusto per l’avventura cosmopolita, la curiosità per l’insolito, la passione per l’intrigo; informazioni sulla nascita delle sette massoniche e sul suo ruolo che hanno rivestito nel tessere contatti tra una borghesia rampante e un’aristocrazia insoddisfatta dell’ancien régime, aneddoti su monarchi e langravi che finanziavano ricerche alchemiche con un occhio alla pietra filosofale e un altro alla chimica per l’industria manifatturiera (compresa la storia del conte di Mailly, che per trovare l’elisir di lunga vita alla fine sbaglia e si avvelena); ed ecco costruito il conte di Cagliostro”.
Se ciò ridimensiona l’originalità del personaggio Cagliostro, al tempo stesso getta luce nuova sul contesto culturale nel quale si mosse, in cui futuri rivoluzionari come Brissot e Marat si proponevano di mettere in discussione gli assiomi della scienza cartesiana e newtoniana e dove un personaggio come Mesmer poté trasformarsi in una celebrità ponendosi sull’incerto confine tra nuova scienza e vecchio magismo. Ancora confermando un’intuizione di Eco, secondo cui “il massimo della tensione mitografica su Cagliostro (tra i due poli della santificazione e della demonizzazione) si è stabilito lungo la linea del complotto rivoluzionario”, Palmieri dimostra in Le cento vite di Cagliostro come la su popolarità fu favorita dalla trasformazione, a opera dei magistrati dal Sant’Uffizio, nel capo della setta degli Illuminati, il “grande vecchio” che avrebbe mosso tutte le fila del complotto rivoluzionario dei Giacobini: una tesi destinata a universale celebrità qualche anno dopo, quando sarebbe stata esposta dall’abate Barruel nelle sue Memorie per la storia del giacobinismo. “Pronunciando la condanna e raccontando al pubblico l’intero processo, i giudici dell’Inquisizione lo avevano fatto entrare – sia pur in maniera involontaria – nell’empireo delle eminenze grigie del pianeta, capaci di cambiare i destini dell’umanità e di riscrivere la Storia a modo loro”, conclude Palmieri, osservando come proprio in questo modo un personaggio che altrimenti sarebbe rimasto relegato nell’aneddotica settecentesca sia assurto a protagonista dell’immaginario contemporaneo.
Le cento vite di Cagliostro è essenzialmente una messa a terra di quanto Palmieri aveva teorizzato in un suo articolo-manifesto pubblicato nel 2022 sulla rivista Studi Storici firmato insieme a Giulia Delogu, dal titolo “Chi ha paura del potere? Politica e comunicazione negli studi dell’età moderna”. In esso si osservava come gli studiosi impegnati a ricostruire le reti di comunicazione in età moderna avessero finora “privilegiato il piano descrittivo, cercando di far luce sulle modalità di diffusione di notizie e conoscenze, ma lasciando sullo sfondo la capacità dei poteri politico-economici di egemonizzare e dar forma ai flussi informativi”. È il caso in particolare del clero, il cui ruolo di “mediatore del medium testuale” lo vede farsi carico “della selezione, trasmissione e rappresentanza dei messaggi, traducendoli in linguaggi comprensibili per esercitare un controllo sulle coscienze”. In quest’ottica, come già suggeriva Robert Darnton, il focus deve spostarsi dalle fonti mainstream e guardare piuttosto al modo in cui le notizie vengono trasmesse, trasformate, inventate, falsificate da un sottobosco fatto di “predicatori, venditori ambulanti, barcaioli, ciarlatani, locandieri e artigiani”. Da questo punto di vista, il processo di Cagliostro servì al Sant’Uffizio per trasformare il personaggio del Gran Cofto, da tempo al centro dell’immaginario popolare dell’epoca, in un pericoloso eversivo, canalizzando quegli aneddoti fantasiosi nella narrazione controrivoluzionaria che Roma andava costruendo in quegli anni.
“Naturalmente, un manoscritto”
C’era spazio per dire qualcosa di più? Dopo aver letto il suo libro, ero tornato da Palmieri prosciugato di idee. A primavera 2023 ormai avviata, occorreva davvero che trovassi il bandolo della matassa se volevo riuscire a laurearmi entro l’anno. Infine, dopo un pomeriggio passato a esplorare diverse possibilità, trovammo una pista promettente: Cagliostro aveva sostenuto, durante il processo, che il Rito Egizio da lui introdotto nella massoneria francese prima ed europea poi non fosse una sua invenzione, ma di averlo tratto da un manoscritto scoperto a Londra e da lui attribuito a un certo “George Cofton”. Si trattava – si chiedeva Palmieri – di un caso tipicamente tardo-settecento di attribuzione della propria invenzione letteraria a un falso manoscritto antico, come con Il castello di Otranto di Horace Walpole o i Canti di Ossian di Macpherson? “Naturalmente, un manoscritto”, per dirla ancora una volta con Umberto Eco? E che cosa si poteva riuscire a dedurre sul testo del Rito Egizio, andato distrutto nell’autodafé compiuto dal Sant’Uffizio durante il processo, dal resoconto manoscritto di quello stesso processo di cui la Biblioteca Nazionale di Roma possiede una delle due copie originali (l’altra è conservata nell’Archivio Apostolico Vaticano)? In che modo la massoneria si era successivamente impadronita di questo testo per costruire i suoi miti di fondazione?
Il punto di partenza per provare a rispondere a queste domande non poteva che essere il manoscritto 245 della Biblioteca Nazionale di Roma, che si apre proprio con una descrizione del rito della massoneria egizia di Cagliostro da parte di Tommaso Vincenzo Pani, alto funzionario del Sant’Uffizio. Agli occhi dei contemporanei, il termine “massoneria egizia” evoca probabilmente occulti rituali con statue di Anubi, Iside, Osiride, piramidi, sfingi, evocazioni dal Libro dei morti. Nulla di tutto questo. “Egizio”, per l’ambiente culturale massonico ed esoterico di fine Settecento (prima, ricordiamolo, della campagna di Napoleone che portò poi all’egittomania ottocentesca e alla traduzione dei geroglifici), stava a significare “ermetico”: un riferimento al Corpus Hermeticum riscoperto e tradotto in età rinascimentale e attribuito al mitico Ermete Trismegisto, personificazione del dio egizio Thot che secondo Clemente Alessandrino (che scriveva nel II secolo) aveva raccolto in decine di scritti sacri l’essenza delle conoscenze degli antichi sacerdoti egizi. Giordano Bruno arrivò a fare dell’egizianesimo una vera e propria religione “universale”, autentica – a differenza del cristianesimo – e che attendeva di essere riscoperta, ipotizzando che Mosè fosse stato iniziato alle conoscenze magiche dei sacerdoti egizi e che quelle conoscenze fossero state poi riprese nella Cabala ebraica.
Anche se all’inizio del Seicento il filologo Isaac Casaubon aveva poi dimostrato che il Corpus Hermeticum non risaliva ai mitici tempi di Mosè e dei faraoni ma all’età ellenistica (I-II secolo dopo Cristo), in molti soprattutto nell’ambiente cattolico (Casaubon era protestante) avevano fatto finta di niente e l’egizianesimo fondato sul sapere ermetico aveva continuato a furoreggiare. A riprenderlo, nel Settecento, furono proprio i massoni, che andavano cercando nobili origini per le loro logge e che guardavano con molto interesse alla possibilità che i segreti più occulti dei gradi massonici derivassero proprio dalle conoscenze perdute dell’antico Egitto, trasmesse a Mosè e da lì fino ai giorni nostri da ristretti gruppi di iniziati. La massoneria intendeva così anche promuovere una sorta di “religione universale” al di là dei conflitti che avevano scosso nel secolo precedente l’Europa, divisa tra cattolici e protestanti. Secondo la corrente del “latitudinarismo” nata in Inghilterra e fatta propria dagli ambienti massonici, occorreva riportare alla luce le prove che tutte le diverse confessioni di fede non fossero che espressione di un’unica vera religione, risalente direttamente ad Adamo.
In questo contesto si può immaginare quanto Cagliostro ebbe facile gioco annunciando a Lione (siamo nel 1784) l’istituzione di una nuova osservanza massonica fondata sugli antichi e originali riti egizi, e della quale egli si proclamava Gran Cofto. Tutto era precisato all’interno del manoscritto del rito, secondo la tradizione massonica che prevede che i rituali per l’accesso ai diversi gradi e le domande che il Maestro deve porre all’iniziato (il “catechismo”) siano sempre manoscritti, per evitarne ampia diffusione. Era questo manoscritto che il funzionario del Sant’Uffizio ebbe tra le mani durante il processo di Cagliostro e riassunse nel Ms. 245 a uso del tribunale inquisitoriale, prima di mandare alle fiamme il testo originale. Eppure, con una rapida ricerca su Internet non mi fu difficile scoprire l’esistenza di diverse copie del Rito Egizio di Cagliostro. Erano pure invenzioni o in qualche modo il documento originale era sopravvissuto?
Per cercare di capirlo mi procurai un paio di queste copie moderne, prodotte da osservanze massoniche “egizianeggianti”, confrontandole con la ricostruzione fatta da Pani nel Ms. 245. In effetti, quasi tutti i particolari coincidono. Scoprii così che agli inizi del Novecento il testo del Rito di Cagliostro era stato riportato alla luce all’interno degli ambienti dell’Ordine Martinista, fondato nel 1881 in Francia dal celebre Papus (al secolo Gérard Encausse), appassionato di magia e occultismo. Questi pubblicò in numerosi estratti sulla rivista L’Initiation da lui diretta i testi di un manoscritto che sosteneva di possedere. Un suo seguace, il medico Marc Haven (al secolo Emmanuel Marc Henry Lalande), affermò di aver trovato un’altra copia che riteneva più corretta di quella di Papus, e dopo aver pubblicato nel 1912 una celebre biografia di Cagliostro (Il maestro sconosciuto), attese alla curatela di questo testo, che uscì postumo nel 1948. Questa è la prima versione integrale a stampa del Rito Egizio. Ma da dove uscivano fuori questi misteriosi manoscritti?
Angeli, pupille, quarantene e pietre filosofali
L’ambiente del martinismo non era propriamente dedito alla filologia. Si credeva ciecamente nelle doti magiche di Cagliostro e lo stesso Marc Haven aveva sposato la figlia di un celebre guaritore di Lione, Nizier Anthelme Philippe detto “Maître Philip-pe”, che egli considerava una reincarnazione di Cagliostro. Altri membri della cerchia martinista consideravano sia Maître Philippe che Cagliostro incarnazioni successive di Gesù Cristo. Possibile fidarsi, mi chiesi? Tanto più che Palmieri a più riprese mi aveva messo in guardia dal dar troppo credito ai cagliostristi di professione, nei quali a sua volta si era imbattuto durante la stesura del suo libro. Haven, in effetti, parlava esplicitamente di copie manoscritte del Rito fatte dagli stessi seguaci di Cagliostro all’interno della loggia di Lione prima del suo arresto a Roma, e ne ricostruiva le vicende successive. Nel 2008 Philippa Faulks e Robert L.D. Cooper nel loro The Masonic Magician: The Life and Death of Count Cagliostro and his Egyptian Rite avevano dato notizia di un altro manoscritto del Rito Egizio risalente alla fine del Settecento, che Cooper, curatore del museo e della biblioteca della Gran Loggia di Scozia, aveva lì rinvenuto. Si tratterebbe di una copia citata da Haven, redatta da Charles Morrison, che l’aveva portata in Scozia dopo essere fuggito da Parigi ai tempi della Rivoluzione. Quanta credibilità si poteva attribuire a queste storie fantastiche?
Tuttavia, scoprii che alla Biblioteca municipale di Lione esistono effettivamente non una ma due diverse copie del Rito Egizio. La prima è il Ms. 6666 (numero che sembra messo lì apposta, ma è per puro caso che questo numero sequenziale attribuito dai bibliotecari di Lione in fase di acquisizione del testo abbia finito per designare il rituale del mefistofelico Cagliostro). Acquisito dalla Biblioteca di Lione nel 1985, risale in realtà al 1845 e sarebbe una raccolta di testi più vecchi, poiché include anche il rito per le “logge d’adozione”, come venivano definite le logge femminili del Rito (Cagliostro fu infatti tra i pochi ad aprire la massoneria anche alle donne). Di questo rito esiste una versione manoscritta (il Ms. 3067) presso la Biblioteca del Musée Calvet di Avignone, che i bibliotecari datano genericamente al XVIII secolo. Ma a Lione esiste una seconda copia del Rito di Cagliostro, il Ms. 6871, acquisito negli anni Novanta e che daterebbe al 1785. I bibliotecari lo segnalano come “prima versione conosciuta”: così almeno stando a Robert Amadou, studioso di massoneria, che lo analizzò per la prima volta negli anni Novanta.
Il mio tentativo di ricostruire queste “migrazioni” del testo di Cagliostro nel corso di oltre due secoli era destinato a complicarsi quando mi resi conto che in ogni caso quelle copie non dicevano tutte la stessa cosa; o, meglio, alcune – e nello specifico quelle arrivate fino ai giorni nostri – sono evidentemente mutile. Ciò che manca è proprio la parte più interessante del Rito Egizio, che costò a Cagliostro la condanna del Sant’Uffizio. Al di là delle consuete chiacchiere massoniche – formule, giuramenti, discorsi circolari che si ritrovano in tutti i rituali dell’epoca e fino ai giorni nostri – il Rito Egizio si caratterizzava infatti per le cosiddette “quarantene”, periodi di isolamento della durata di quaranta giorni nel corso dei quali gli iniziandi ai segreti superiori dovevano essere sottoposti a prove estreme per dimostrarsi degni dei favori divini. La prima quarantena serviva a ottenere il “pentagono”, uno strumento che concedeva il “favore di comunicare visibilmente con li sette Angeli primitivi, e di conoscere il Sigillo, e la cifra di ciascuno di questi Enti immortali”: un richiamo al Sigillum Dei dell’esoterista inglese John Dee, sul quale sono inscritti i nomi delle potenze angeliche.
Cagliostro, durante le sue cerimonie massoniche, sosteneva di poter evocare questi angeli e di farli parlare per ottenere rivelazioni. Nello specifico ciò avveniva attraverso il ruolo delle pupille, giovani donne vergini che fungevano da “medium” per l’evocazione spiritica. Gli angeli così evocati permettevano di vedere eventi a distanza, scrutare nel passato e scorgere il futuro. Ma ancora più evocativa era la seconda quarantena, che serviva a raggiungere una sorta di immortalità. Si diceva che Cagliostro avesse più di duemila anni e fosse vivo all’epoca di Gesù. Si può quindi immaginare l’interesse che doveva gravitare intorno al procedimento attraverso cui egli prometteva di raggiungere “l’età spirituale” di 5557 anni, procedimento descritto nei minimi particolari in termini di dieta da seguire nel corso dei quaranta giorni di isolamento, al termine dei quali l’ingerimento della mitica “materia prima” (riferimento alla Pietra Filosofale) permetteva di ottenere la rigenerazione di tutto il corpo, dei capelli e dei denti, ritornando giovani.
Nel suo resoconto al Sant’Uffizio, Pani descrive in dettaglio queste procedure, aggiungendovi a quanto sembra del suo: per esempio, non ho trovato altrove riferimenti a quanto egli scrive sul fatto che le pupille vedessero il futuro all’interno di una caraffa d’acqua, un tipico rito di idromanzia, su cui il Sant’Uffizio calcava forse la mano perché richiamava la tradizione popolare dell’anguistara (appunto, della caraffa o bacinella), che consisteva nel chiedere a una fanciulla di ritrovare un oggetto rubato guardando in un recipiente d’acqua santa, e che era stato ampiamente condannato come stregonesco dall’inquisizione romana. Tuttavia, il Ms. 6871, considerato appunto il più vecchio, non fa riferimenti né alla seconda quarantena né alle pupille, e così quelli più recenti che sembrerebbero da questo derivato, tra cui il Ms. Morrison della Gran Loggia di Scozia e le versioni moderne arrivate fino a noi. Della seconda quarantena parla solo il Ms. 6666, che però è più recente.
L’ur-testo di George Cofton
Intorno a questo problema ho girato a lungo, trovando conforto nelle informazioni di uno storico dell’Università di Siviglia, Antonio De Diego González, alle prese con la curatela di una traduzione in spagnolo del Rito Egizio. Grazie a lui ero riuscito a ricostruire le complesse interazioni tra i diversi testimoni del Rito, senza però riuscire a capire il senso di quelle versioni mutile. A ciò si aggiungeva la questione originaria da cui aveva preso le mosse la tesi, ossia il presunto “ur-testo” di George Cofton che Cagliostro riteneva di aver scoperto a Londra e usato come base per il suo Rito. “Invenzione della tradizione”, per usare la celebre espressione dello storico Eric Hobsbawm (che la impiegava anche per riferirsi ai miti di fondazione della massoneria)? Secondo i cagliostristi, che vorrebbero il Rito farina del Cagliostro, si sarebbe trattato di un errore di traslitterazione da parte dei funzionari del Sant’Uffizio che interrogavano il nostro: avrebbero letto G. Cofton in luogo di S. Costar, ossia Saint-Costar, venerabile della loggia di Lione al quale è attribuito il Ms. 6871. Tesi che però è facile sconfessare se si leggono alcuni passi del Ms. 245 della Biblioteca Nazionale di Roma sul processo di Cagliostro, nei quali si scopre che fu proprio Cagliostro a sostenere che “il libro massonico non è fatto da me, e l’autore non sono neppur io” ma “un tal Giorgio Cofton Inglese, scritto per un tal Rey di Morande lionese in Francia”. Il riferimento è a Claude-Marie Rey de Morande, lionese che fungeva da segretario personale di Cagliostro, e che finì a sua volta invischiato nel processo sull’Affare della Collana a Parigi, finché non prese le distanze dal suo maestro. Stando alla confessione davanti al Sant’Uffizio, egli avrebbe dato a Rey de Morande il compito di tradurre in francese il manoscritto originario di George Cofton, “coll’aggiunta di alcune cose, di aver compilato il totale del Sistema Egiziano, di avere tolte, o riformate dal Sistema di Cofton alcune cose ch’egli credette superstiziose relative al lavoro delle Pupille, di avere lasciate altre, che riputò buone, e a proposito, tra le quali la recita da’ salmi, che anche da Cofton, come disse, veniva prescritta in più funzioni di Loggia”.
Dunque sembrerebbe che fosse stato lo stesso Cagliostro a far produrre una versione epurata del Rito Egizio! Lo scopo lo afferma lui stesso: farsi approvare il testo del Rito da alcuni alti prelati, segnatamente l’arcivescovo di Bourges e il cardinale di Rohan (notoriamente implicato nell’Affare della Collana), che lo avrebbero approvato come coerente con la dottrina cattolica, fatta eccezione per la parte sulle due quarantene, che Cagliostro si era ripromesso di modificare. In sostanza, un escamotage per svincolarsi dalle accuse di eresia su cui insistevano i magistrati dell’Inquisizione, e mostrare la sua buona fede di cristiano? Difficile sostenerlo, considerando che la massoneria in quanto tale – Rito Egizio o meno – era stata condannata in forma solenne dalla Chiesa già nel 1738 con la bolla In eminenti apostolatus specula di Clemente XII, e poi nel 1751 da Benedetto XIV con la Providas romaroum, che autorizzava il braccio secolare a perseguire i massoni: ne fece le spese soprattutto la massoneria napoletana di Raimondo di Sangro, il celebre principe di Sansevero, il cui cugino, Luigi d’Aquino, era citato nelle memorie di Cagliostro come uno dei suoi più amici più fedeli, tanto che nel 1783 si era recato a Napoli quando aveva appresso della sua imminente morte.
Religio duplex
Quelle nozioni mi ronzavano nella testa mentre cercavo di scoprire le possibili reali motivazioni che avevano spinto Cagliostro a far girare una copia del Rito mutila degli aspetti più occultistici. Naturalmente, la spiegazione doveva trovarsi nella compresenza, nella massoneria egizia, di una cerchia più esterna (“essoterica”) alla quale era destinato il testo tagliato, e di una più interna (“esoterica”) che aveva accesso al testo integrale. Mi ero risolto a chiudere la questione così e a redigere la versione finale della tesi, poiché nel frattempo era arrivato settembre e gli impegni di lavoro non mi avrebbero permesso di dedicarci altro tempo. Senonché, proprio quegli impegni mi costrinsero a saltare la sessione di laurea di ottobre, dove già ero stato inserito, poiché cadeva negli stessi giorni in cui dovevo trovarmi a Parigi. D’accordo con Palmieri, rinviammo tutto a dicembre.
Poco prima, mentre cercavo qualche occasione in una delle librerie dell’usato migliori di Napoli (per inciso, la libreria Dante&Descartes a piazza del Gesù), mi imbattei in un testo di Jan Assmann, il celebre egittologo di cui mi erano noti gli studi molto dibattuti sul rapporto tra l’eresia di Akhenaton e il monoteismo ebraico e quindi tra il mondo egizio e Mosè. Il testo era Religio duplex, edito da Morcelliana e fuori catalogo da qualche anno. Lessi dalla quarta di copertina: “Religione doppia in quanto, via via, negli stadi del suo sviluppo seguiti nel libro, essoterica ed esoterica, religione del popolo e religione filosofica, teologia politica e naturale, infine, nell’Illuminismo, religione particolare, storica, e religione universale, propria di ogni uomo”. Non era forse quello che cercava di ottenere la massoneria del Settecento, di cui Cagliostro era espressione? E quel riferimento alla duplicità essoterismo-esoterismo non aveva forse a che fare con la mia ricerca? Me ne tornai a casa con il libro ben chiuso nella mia borsa.
Secondo Assmann, nel Settecento il mondo massonico si sarebbe appropriato dell’idea ermetista di una sapienza egizia primigenia perché funzionale al proprio programma latitudinarista. Tra i primi a suggerire qualcosa del genere fu William Warburton, vescovo di Gloucester (tutt’altro che massone, quindi) nel suo The Divine Legislation of Moses Demonstrated (1741), che cercò di riconnettere i segreti delle dottrine egizie e dei misteri eleusini con la dottrina ortodossa cristiana, proponendo una distinzione tra “misteri minori” – di tipo puramente rituale – e i “misteri maggiori”. Si trattava della prima formulazione della tesi di una “doppia religione” (religio duplex), fondata sul contrasto tra riti “aperti” e riti “segreti” delle religioni pagane. Obiettivo era sostanzialmente quello di dimostrare che l’apparente politeismo della religione egizia nascondesse una verità più profonda, veicolata appunto dai misteri maggiori, riservati soltanto a pochissimi iniziati destinati al comando. Tale verità è riassunta da Assmann nel nucleo fondamentale del monoteismo, ossia “che gli dèi non sono altro che creature mortali divinizzate e che esiste un solo Dio invisibile e senza nome, causa prima e fondamento dell’Essere”. Un monoteismo che nel Settecento si fonde con il deus sive natura di Spinoza e propone una concezione panteista in radicale opposizione alle grandi religioni rivelate: la possibile “religione universale” ricercata dai massoni.
Questo antico insegnamento egizio era considerato da Warburton del tutto identico a quello che Mosè trasmise agli Israeliti, similmente a quanto già aveva ipotizzato Giordano Bruno più di un secolo prima. Secondo Assmann, a rendere popolari questi tesi furono alcuni romanzi molto letti nel Settecento, tra cui il Séthos dell’abate Jean Terrasson (che aveva funto da ispirazione per il Flauto magico di Mozart, dove insistono riferimenti massonici) e Les Voyages de Cyrus (1727) del cavaliere di Ramsay, un racconto iniziatico nel quale il giovane Ciro finisce in Egitto e qui viene iniziato all’antica sapienza sacerdotale. Ciro apprendeva nel romanzo che i sacerdoti avevano ammantato sotto il velo della religione “pubblica” il vero contenuto della conoscenza antica, ossia la fede nel Dio unico.
Da Napoli a Lione, passando per Wilhelmsbad
Questo riferimento mi colpì perché, studiando i rapporti tra la massoneria di Raimondo di Sangro e quella di Cagliostro, avevo scoperto che il principe di Sansevero aveva fatto pubblicare nel 1752 la prima traduzione italiana dei Voyages de Cyrus. Ora, il suo autore, il cavaliere di Ramsay, non mi era sconosciuto: di origini scozzesi e di fede politica giacobita – ossia sostenitore della restaurazione degli Stuart – era giunto fortunosamente in Francia dopo essere stato condannato all’esilio oltreoceano e lì aveva introdotto il cosiddetto “rito scozzese” nella massoneria (che prevede 33 gradi rispetto ai tre tradizionali), affermando inoltre in un celebre discorso a Parigi nel 1732 che le origini massoniche andassero rintracciate nella cavalleria medievale impegnata durante le Crociate, adombrando così un possibile ruolo dei Templari che nella seconda metà del Settecento avrebbe portato a una proliferazione di logge che si richiamavano a una presunta origine templare. Sansevero doveva essere a conoscenza di tutto ciò, ma probabilmente la sua scelta di pubblicare una traduzione dei Voyages de Cyrus si spiega con la sua peculiare passione per l’egizianesimo. La massoneria di Napoli era stata la prima a introdurre un “rito egizio”, e non era un caso che Cagliostro vi si fosse recato in compagnia del cavalier d’Aquino negli anni precedenti alla soppressione delle logge imposta da Roma. Era possibile che proprio a Napoli fosse entrato in contatto con l’idea di religio duplex.
Che Sansevero conoscesse questo concetto mi fu chiaro scoprendo che nella sua Lettera apologetica pubblicata per difendersi dalle accuse della Chiesa dopo la chiusura delle logge napoletane il principe parlava apparentemente senza alcun senso di un presunto manoscritto gesuita da lui scoperto che traduceva il misterioso sistema di segni Inca dei quipu: ebbene, era stato proprio Warburton nella sua opera The Divine Legislation a parlare del sistema dei quipu, in un’analisi comparata degli antichi sistemi di scrittura in cui le cordicelle annodate dei Peruviani venivano confrontate con i geroglifici egizi. Sansevero dunque sapeva di parlare a orecchie che intendevano. Del resto, il termine “geroglifico” era all’epoca utilizzato in modo diverso da come lo usiamo oggi per intendere la scrittura dell’antico Egitto. In un’epoca in cui il geroglifico non era stato ancora tradotto e il gesuita Athanasius Kircher (citato a sua volta da Sansevero nella sua Lettera) aveva vanamente proposto un’interpretazione che attribuiva ai segni antichi significati sapienziali, “geroglifico” stava a intendere i rituali essoterici dietro i quali si nascondeva un significato più profondo. I massoni, in particolare, usavano quel termine per riferirsi appunto all’insieme dei riti di loggia che gli iniziati dovevano riuscire a interpretare per ricostruire l’originario significato risalente all’antica sapienza perduta.
Quando Cagliostro aprì la sua prima loggia a Lione fondata sul Rito Egizio, sapeva bene di trovare orecchie molto ben disposte a cogliere i suoi riferimenti a rituali esoterici di antichissima provenienza. La massoneria europea era infatti in forte crisi dopo il fallimento del Convento di Wilhelmsbad, tenutosi l’anno prima in una località termale tedesca su iniziativa del duca Ferdinando di Brunswick, Gran Maestro della massoneria templare europea. Lì i convenuti avevano cercato di capire se esistessero prove reali dalla discendenza della massoneria dai Templari ed era emerso che non ce n’era alcuna. Bisognava farla finita con le pagliacciate medievaleggianti e cercare un nuovo mito di fondazione per la massoneria. Johann August von Starck, esponente di punta della cosiddetta Stretta Osservanza di matrice neo-templare, ne prese atto e nel 1783 pubblicò un testo programmatico, intitolato Ueber die alten und neuen Mysterien (“Sugli antichi e i nuovi misteri”), in cui proponeva di andare a cercare le origini della massoneria nei culti antichi. Gli rispose poco dopo Carl Leonhard Reinhold con due discorsi per la loggia viennese della “Vera armonia” (frequentata anche da Mozart), pubblicati sotto il titolo I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa.
Non è un caso che una recente edizione di quest’opera (pubblicata in italiano nel 2011 da Quodlibet) sia introdotta proprio da Jan Assmann. Qui l’egittologo ritrova infatti la massima espressione della religio duplex negli ambienti massonici. Reinhold osservava come i fratelli massonici dovessero ammettere di non essere riusciti a penetrare il contenuto dei misteri massonici, “che tutte le spiegazioni ricavate dal fratello oratore, dai catechismi, dal libro delle costituzioni e, potrei quasi dire, da tutti gli scritti massonici che sono loro capitati tra le mani, sono servite ben poco a rispondere alle domande sorte in loro riguardo il significato dei nostri geroglifici”. La soluzione andava cercata nella distinzione suggerita da Warburton tra “misteri minori” e “misteri maggiori”: la simbologia massonica appartiene alla prima tipologia, ma il suo contenuto più esoterico si riferisce alla “nuova religione mosaica” che Reinhold retrodatava all’antico Egitto. Quello era il nucleo di verità celato dietro il profluvio di gradi, logge, riti, catechismi: l’esistenza del Dio unico e panteistico scoperta per primi dai sacerdoti egizi e poi tramandata agli ebrei attraverso Mosè, conoscenza andata in seguito perduta e che ora spettava alla massoneria riportare alla luce.
L’eredità moderna del Grand Cofto
Qui credo si situi dunque la vera motivazione di Cagliostro quando si decise a creare una versione spuria del suo Rito: obiettivo era quello di creare una distinzione tra “misteri minori” e “misteri maggiori” che andasse nella nuova direzione decisa dalla massoneria europea dopo la crisi del Convento di Wilhelmsbad, individuando nell’egizianesimo esoterico un nuovo mito di fondazione. Un mito, soprattutto, in grado di contendere alla Chiesa e più in generale al cristianesimo il titolo di “vera religione”, realizzando il programma tracciato già da Giordano Bruno e riportando alla luce la conoscenza primigenia che Dio è in realtà il deus sive natura. Il Rito Egizio, insomma, come tentativo di fondare una nuova religione panteista per i tempi moderni, che coniugasse le due grandi anime del tardo Settecento, quella illuminista e quella “illuminata”, che faceva riferimento alla variegata galassia ermetico-occultista di cui Cagliostro fu massima espressione.
Cagliostro, insomma, non come ultimo dei ciarlatani dell’età moderna, ma come avanguardista dei fondatori di pseudo-religioni contemporanee. Del resto, perché attribuirsi il titolo di Gran Cofto, anziché quello più tradizionale di Gran Maestro? Perché inserire nelle formule del Rito giuramenti e invocazioni al Gran Cofto e addirittura citarlo all’interno di varianti dei Salmi recitati nel corso delle cerimonie di iniziazione? Quando Cagliostro lasciò Lione per proseguire altrove la sua carriera di avventuriero, inviò alla sua loggia un messaggio nel quale evocava la sua entrata in una nuova dimensione spirituale promettendo un futuro ritorno, con toni esplicitamente messianici.
Da questo punto di vista, il presunto manoscritto di George Cofton di cui parlò Cagliostro durante il processo romano non fu solo un escamotage processuale, ma anche il tentativo di inventare una tradizione “sacra” che avrebbe avuto in seguito molti epigoni: si pensi al Libro di Mormon ritrovato da Joseph Smith, fondatore del mormonismo, nel 1830, e che sarebbe stato scritto in una lingua definita “egiziano riformato”, che “consiste del sapere dei Giudei e del linguaggio degli Egiziani”, secondo quanto riferito dallo stesso Smith (a sua volta massone). Egli avrebbe tradotto il Libro servendosi di amuleti chiamati urim e tummin, citati nell’Antico testamento così come in molti rituali della massoneria esoterico-occultista del Settecento a cui Cagliostro si ispirò. Di fatto, l’evocazione degli angeli durante le cerimonie del Rito Egizio prevedevano strumenti simili. E che dire del Libro di Dzyan di Madame Blavatsky, fondatrice della Teosofia, secondo cui Gesù “sarebbe stato il capo, educato in Egitto, di una setta neogiudaica di ‘nuovi nazareni’, i cui adepti praticavano la magia caldea”?
Eccomi arrivato così alla fine del mio itinerario di ricerca. Cagliostro è stato designato in tanti modi: ciarlatano, avventuriero, impostore, illusionista, alchimista, massone. Possiamo affibbiargli anche il ruolo di fondatore di pseudo-religioni? Credo che ci siano le condizioni per poterlo sostenere. La massoneria del Settecento ambiva al ruolo di nuova religione universale e Cagliostro si inserì in questo discorso dimostrando una sapiente conoscenza del dibattito dell’epoca, strumentalizzandolo a suo vantaggio. Le moderne logge egiziache hanno poco a che vedere con quella che egli fondò per prima a Lione: possiamo invece considerare tutti i nuovi profeti moderni che si rifanno a presunte conoscenze perdute e le ammantano di aspetti magico-esoterici eredi in qualche modo di Cagliostro. Dunque, L. Ron Hubbard starebbe a Cagliostro come Scientology al Rito Egizio? Non mi sembra impossibile affermarlo, ovviamente guardando ai diversi quadri culturali nei quali i due si mossero: per il fondatore di Scientology il riferimento non poteva che essere la nuova cultura scientifica del Novecento; per Cagliostro, quel riferimento andava invece cercato nell’egizianesimo di matrice ermetica che, nel clima massonico del Settecento, era considerato il più accreditato sistema concettuale di verità universali. In qualche modo, Cagliostro rappresenta quindi una tentazione ancora viva ai giorni nostri, l’anima “illuminata” che si cela dietro l’apparenza “illuminista”, il lato oscuro del cultismo, della pseudoscienza e dell’esoterismo che sempre si accompagna alla grande narrazione secolarista e di cui è in ultima analisi l’inevitabile sottoprodotto.
Immagine in evidenza: Cagliostro, ritratto di Jean-Antoine Houdon (1741-1828), da Wikimedia Commons, pubblico dominio