Superstizioni che uccidono
Articolo di Sofia Lincos, da Query 57
Quando Ernest Hemingway era giovane, lavorò per un po’ a Parigi in un caffè, mentre la moglie dava ripetizioni di piano; il figlio Jack ogni tanto era quindi costretto a passare brevi periodi a casa da solo, in compagnia del gatto di famiglia, che spesso si stendeva nel lettino a fianco del piccolo. Questa abitudine era considerata pericolosissima da alcuni amici di famiglia, che misero in guardia lo scrittore. Lo racconta lo stesso Hemingway in Festa mobile (uscito postumo nel 1964): «I più ignoranti e superstiziosi sostenevano che il gatto avrebbe succhiato il respiro del bambino e lo avrebbe ucciso».
L’idea che i gatti possano rubare il fiato dei neonati fino a farli morire è diffusa almeno dal Seicento, ed è una delle tante superstizioni e false credenze del folklore europeo legate agli animali. Chiunque può recitarne un elenco: gli struzzi nascondono la testa sotto la sabbia; i lemmings si suicidano gettandosi dalle scogliere; le vipere partoriscono sugli alberi; le coccinelle portano fortuna; gli elefanti sono terrorizzati dai topi… Non sempre, però, si tratta di storielline innocue: alcune superstizioni danneggiano gli animali, e in molti casi possono addirittura mettere a rischio la conservazione di intere specie. Ma in che modo avviene tutto ciò?
Animali del malaugurio
La prima grande categoria di false credenze che danneggiano gli animali è quella che vorrebbe alcune specie foriere di disgrazie. Non si tratta solo dei proverbiali gatti neri: a farne le spese, in Italia, sono per esempio anche gli uccelli notturni. La credenza che le civette siano annunciatrici di morte è riportata fin dagli Hieroglyphica dello scrittore rinascimentale Piero Valerio: udire il canto di una civetta era considerato fin dai tempi antichi come l’annuncio di una morte in famiglia. Simili credenze sono state associate, in Europa, a rapaci come il barbagianni, l’allocco, il gufo e l’assiolo; quest’ultimo è stato oggetto anche di una nota poesia di Giovanni Pascoli, intitolata appunto “L’assiuolo”, in cui il verso dell’uccello (chiù) è presentato come un presagio di morte. Nel folklore irlandese e scozzese esiste una leggenda che ha per oggetto le banshee, creature fatate che si presenterebbero come donne piangenti. Udirne i lamenti sarebbe un indizio sicuro dell’imminente decesso di una persona, e si è ipotizzato che, in molti casi, le grida delle banshee non fossero altro che il verso dei rapaci notturni. Inevitabile che, con queste premesse, si preferisse non averli tra i piedi. In molte regioni dell’Europa, Italia compresa, i contadini crocifiggevano le civette sugli stipiti delle porte e all’ingresso dei fienili: un modo per allontanare la cattiva sorte che, purtroppo, secondo alcuni resoconti, è praticato tuttora.
Queste superstizioni, com’è ovvio, dipendono fortemente dal contesto culturale, e sarebbe impossibile elencarle tutte. Se ne possono comunque citare due, che sono state oggetto di attenzione accademica in tempi recenti: in un articolo pubblicato nel 2017 sulla rivista Oryx, gli studiosi George Holmes e Caroline Ward suggerivano ad ambientalisti e zoologi di progettare le strategie di conservazione prendendo in considerazione anche superstizioni e credenze magiche sugli animali. Tra gli esempi citati c’era il caso dell’aye-aye, un primate notturno simile a un lemure dotato di un dito medio più lungo degli altri, che usa per procacciarsi larve e insetti. In molte zone del Madagascar, la sua presenza è vista come un presagio di morte o malattia; alcune popolazioni ritengono addirittura che l’aye-aye possa uccidere chi vuole semplicemente puntando il dito verso il malcapitato. In alcuni villaggi, quando uno di questi animali viene avvistato, vengono celebrati riti specifici di contrasto, ma molti credono che l’unico modo per prevenire la “maledizione” sia uccidere l’aye-aye, esponendolo su un palo lungo il ciglio della strada.
Il secondo caso di studio riguarda il formichiere, che in Brasile è considerato l’equivalente del gatto nero: vederne uno che attraversa la strada porterebbe un’indicibile sfortuna. La biologa Mariana Catapani ha dedicato diversi articoli alle superstizioni su questi animali, intervistando gli abitanti del Pantanal e scoprendo che la poca dimestichezza con la specie favoriva le false credenze: se una persona sa poco del comportamento e della biologia di un animale, colmerà il vuoto ricorrendo alle superstizioni popolari. Il progetto di ricerca di Catapani è culminato in un libretto per bambini, O incrível tamanduá-bandeira (L’incredibile formichiere gigante), distribuito in tutte le scuole del Brasile, per far conoscere meglio il formichiere e le sue peculiarità.
Tra stregoneria e sciamanesimo
Gli animali minacciati dalla superstizione non sono solo quelli “portaiella”. Anche la credenza opposta, cioè che l’animale possa attirare la buona sorte, può rappresentare un serio pericolo per le specie coinvolte, che rischiano di essere cacciate per la realizzazione di amuleti e talismani. Così, per esempio, fino al XIX secolo, gli stambecchi venivano uccisi per estrarre la “croce del cuore”, una cartilagine che si trova a sostegno del muscolo cardiaco e a cui venivano attribuite proprietà magiche. Nei paesi anglosassoni è presente tuttora un fiorente traffico di zampine di lepre o di coniglio, mentre in India sono stati in più occasioni arrestati trafficanti di barbagianni (che qui, al contrario dell’Europa, è ritenuto un portafortuna) e di lori, un piccolo primate notturno ritenuto in grado di attirare la buona sorte.
Accanto a queste convinzioni persistono quelle magiche tout court. In molte nazioni asiatiche, per esempio, i genitali delle femmine di iena vengono utilizzati per realizzare filtri d’amore e talismani magici. In India, invece, persiste la credenza nella nagamani, una pietra che si troverebbe nella testa di alcuni serpenti (in particolare del cobra), e da cui si ricaverebbe un talismano in grado di curare l’avvelenamento, allontanare gli spiriti maligni, o cambiare colore in presenza di un veleno. Le “pietre di serpente” sono diffuse anche in altre culture, e sono talvolta realizzate con ossa del cranio o della coda del serpente stesso. Nell’Africa occidentale, invece, sono diffusi i gris-gris, talismani che attirerebbero la buona sorte e proteggerebbero dal male chi ne è possessore; sono in genere costituiti da sacchettini di stoffa al cui interno possono trovarsi ossa e denti di animali (in particolare scimmie, serpenti e topi). L’elenco degli animali utilizzati in pratiche e rituali magici sarebbe lunghissimo. È però da citare, vista la sua recente diffusione anche in Italia, la pratica sciamanica del kambo cleansing, che consiste nell’assunzione del veleno di una rana arboricola amazzonica tramite piccoli tagli nella pelle (si utilizza in genere la Phyllomedusa bicolor). Gli effetti sull’uomo comprendono tachicardia, vomito e diarrea, ma possono dar luogo a reazioni avverse più gravi. Eppure, nonostante i decessi, la pratica del kambo cleansing si è guadagnata un certo seguito in Occidente, dove viene ritenuta una forma di detossificazione o addirittura un modo per accedere più direttamente al mondo spirituale.
Credenze antiche
La terza grande categoria delle superstizioni che danneggiano gli animali è quella che li dipinge come molto più pericolosi di quanto non siano in realtà, portando a timori ingiustificati e – qualche volta – anche alla soppressione di alcuni esemplari. Ne sono un esempio le leggende sul cervone, un innocuo colubro che vive in tutta l’Italia meridionale; il suo nome popolare è infatti pasturavacche, perché lo si riteneva goloso di latte: così goloso da procurarselo in ogni modo, magari attaccandosi alle mammelle delle mucche al pascolo o infilandosi nella gola dei neonati. Una superstizione, quella dell’attrazione fatale verso il latte, che condivide con altri serpenti: si riteneva che le vipere, per procurarsi il prezioso liquido, fossero capaci di provocare il rigurgito dei bambini stimolandoli con la coda. In alcuni casi, si pensava che potessero addirittura entrare nella loro bocca, annidandosi poi nello stomaco e provocando ai piccoli le più svariate patologie.
Altrettanto famigerata era la tarantola in Puglia: al suo morso era attribuita una terribile malattia, chiamata appunto tarantismo, dai sintomi simili all’epilessia. Le implicazioni rituali e culturali delle pratiche legate al tarantismo erano di tale portata da diventare oggetto degli studi antropologici classici di Ernesto De Martino. Secondo la tradizione, l’unica cura consisteva in una copiosa sudorazione, che portasse il paziente a espellere, con il sudore, anche il veleno. In realtà il morso di questo ragno è pressoché innocuo.
Le aquile, invece, sono state additate fino a tempi recentissimi come “ladre di bambini”: si pensava che potessero ghermire i fanciulli con gli artigli e portarli nei nidi per darli in pasto alla prole. La sparizione di un bambino in zone di montagna provocava spesso ricerche e battute di caccia per individuare l’aquila colpevole, culminanti magari nell’uccisione dell’esemplare malcapitato.
Le superstizioni di questo tipo non sono solo un retaggio del passato: anche a prescindere dalla stretta associazione tra pipistrelli e vampiri, che fa di questi mammiferi volanti una delle presenze fisse dell’iconografia di Halloween, è tuttora diffusa la credenza che i pipistrelli possano aggrapparsi ai capelli delle persone, fino a causarne la distruzione, cosa che in realtà non sono assolutamente in grado di fare. In Brasile, invece, è ancora vivissima la paura per il candirù, detto anche pesce stuzzicadenti, che viene ritenuto in grado di infilarsi all’interno dei genitali maschili; anche in questo caso, l’avvistamento di un esemplare porta subito i presenti a scacciarlo, anche ricorrendo alla violenza.
Leggende metropolitane moderne
Le superstizioni e false credenze di cui abbiamo parlato finora sono spesso antichissime, comparendo talvolta anche nei bestiari medioevali o nei trattati di filosofia naturale rinascimentali. Eppure, anche le leggende metropolitane moderne possono contribuire a danneggiare gli animali. Particolarmente interessante è la leggenda, diffusa in molti paesi di cultura araba, secondo cui nazioni come gli Stati Uniti e Israele userebbero animali-spia, debitamente addestrati, per tenere sotto controllo i nemici. Con quest’idea in mente, capita che alcuni esemplari siano uccisi e imprigionati, perché ritenuti “agenti stranieri”. A farne le spese sono spesso i volatili, come il grifone catturato in Yemen nel 2019 e detenuto nel Paese per alcuni mesi. A incriminarlo, in quel caso, era stato il ricevitore satellitare di cui era stato dotato per un progetto di monitoraggio, ma anche i comuni tag, gli anelli legati alle zampine degli uccelli per identificarli in modo univoco, sono spesso oggetto di fraintendimenti. In quest’ambito di leggende fantasmagoriche va inserita anche l’accusa avanzata dagli iraniani nel febbraio 2018, e cioè che lucertole e camaleonti verrebbero “teleguidati” nel Paese da oscure forze occidentali per cercare di carpirne i segreti nucleari. Storie del genere sono circolate in tempi recentissimi anche in Russia a danno dei piccioni, ritenuti spie o addirittura armi dell’esercito ucraino.
Nel multiforme universo delle leggende metropolitane – che, come abbiamo visto, dipingono spesso gli animali come più pericolosi di quanto non siano davvero – ce n’è una i cui effetti possono inquinare il dibattito sulla gestione di alcune specie: quella degli animali reintrodotti di nascosto. L’idea è che qualcuno – animalisti, organi governativi, multinazionali – porti in un certo territorio animali considerati dannosi, facendone volutamente aumentare il numero a dismisura. Questa leggenda ha avuto per protagoniste, negli anni, specie diverse. In Italia si tratta soprattutto di vipere, lupi, cinghiali, magari nella variante secondo cui gli animali verrebbero paracadutati dal cielo con elicotteri; negli Stati Uniti si è parlato più volte di ripopolamenti abusivi di serpenti a sonagli effettuati dagli animalisti; durante gli anni della Guerra Fredda, nella Germania dell’Est e in altri paesi del blocco sovietico si trattava delle dannosissime dorifore delle patate, la cui presenza veniva imputata al lancio degli insetti da parte di aerei americani.
Analoga è la storia, diffusa in Italia negli anni ’90, secondo cui l’aumento dei piccioni nelle cittadine di provincia sarebbe dovuto all’azione di camion privi di insegne che catturano i volatili nelle grandi città come Venezia, Milano o Firenze e li liberano nelle campagne. Queste leggende potrebbero sembrare innocue, semplici tentativi di darsi una spiegazione per un aumento di alcune specie. Eppure possono avere effetti importanti sul dibattito pubblico, soprattutto quando vengono sostenute da partiti e decisori politici che dipingono lupi e vipere come un problema creato “artificialmente”, descrivendo gli abbattimenti come un ripristino di una “condizione originaria”, mentre si tratta invece di una condizione naturale, rispetto alla quale è necessario trovare mezzi e strategie di coesistenza.
La medicina tradizionale cinese
Un altro modo in cui gli animali sono minacciati dalle superstizioni è il loro uso nelle pratiche della cosiddetta medicina alternativa. In questo ambito, i problemi maggiori derivano dalla medicina tradizionale cinese, che impiega nella propria farmacopea circa 12.000 sostanze diverse. Tra queste, l’85% è di origine vegetale, il 2% di origine minerale, mentre i rimedi ricavati dagli animali sono circa il 13%. Sebbene ci siano stati negli ultimi anni diversi sforzi da parte delle autorità di Pechino per fermare il traffico delle specie più a rischio (rimuovendo dagli elenchi delle specie commercializzabili quelle più minacciate, o sostituendo alcuni animali selvatici con altri di allevamento), la medicina tradizionale cinese è ancora un fattore chiave nell’estinzione di molte specie.
La ragione sta nella storia di questa pseudoscienza. Quasi abbandonata alla fine dell’Ottocento, la medicina tradizionale vide una rinascita durante il maoismo, quando furono promossi i cosiddetti “medici scalzi” (giovani che ricevevano una formazione sanitaria minima e poi inviati nei villaggi rurali per fornire un’assistenza di base alla popolazione). Nello stesso periodo furono raccolti su larga scala i rimedi della farmacopea tradizionale allo scopo di offrire un’alternativa alla medicina occidentale, non sempre accessibile per carenza di mezzi. Il risultato fu la promozione in tutto il territorio nazionale di medicamenti che prima erano adottati solo in alcune regioni. È proprio questo dettaglio a rendere la medicina tradizionale cinese particolarmente impattante sugli ecosistemi rispetto ad altri sistemi di cura più frammentari e meno istituzionalizzati: coinvolgendo una platea così vasta di persone (si stima che siano almeno 200 milioni i cinesi che ne fanno uso), rappresenta un fattore chiave per la conservazione di molte specie.
L’elenco degli animali messi a rischio dalla medicina cinese sarebbe lunghissimo. Si va dall’oloturia (considerata un afrodisiaco), alla tigre (le cui ossa vengono macerate nell’alcol per dare origine al vino di tigre, impiegato contro artrite e reumatismi), all’orso tibetano, detto anche orso della Luna, la cui bile è considerata una panacea per le affezioni del fegato e che viene estratta in modo particolarmente crudele: gli animali, imprigionati in piccole gabbie, subiscono l’estrazione tramite cannule in metallo che vanno a pescare direttamente dalla loro cistifellea. E ancora, tra i rimedi impiegati troviamo: le squame di pangolino (rimosse nel 2019 dalla lista delle medicine ammesse nella medicina tradizionale cinese, ma ancora impiegate), le secrezioni del mosco (una specie di capriolo con i denti da vampiro diffuso nelle steppe siberiane, le cui ghiandole sono ritenute afrodisiache), la pelle di asino selvatico (impiegata per fare un elisir, l’eijao, largamente usato contro il raffreddore e l’insonnia), la polvere di cavalluccio marino (essiccato per trasformarlo in medicinale).
Un discorso a parte merita invece il corno di rinoceronte, che in effetti è uno dei rimedi più conosciuti e citati – anche a sproposito – della medicina tradizionale cinese. In questo caso tuttavia non è la Cina il principale responsabile del rischio di estinzione di questi mammiferi, bensì il Vietnam. Nel 2007-2008, infatti, in quel Paese si diffuse la voce che un celebre politico era guarito dal cancro grazie al corno di rinoceronte. In Vietnam il problema della lotta ai tumori è un tasto dolente: fino al 2010 in tutto il Paese esistevano solo 15 apparecchi per radioterapia, e i tempi di attesa per curarsi erano lunghissimi. La voce del miracoloso rimedio si sparse, portando a una caccia spietata dei rinoceronti e a un aumento dei prezzi del corno fino a 100.000 dollari al chilogrammo. Parallelamente all’impiego medicinale, inoltre, è cresciuto anche l’uso del corno come disintossicante per il fegato: triturato, è diventato uno status symbol a causa dei costi altissimi. Ancora oggi viene aggiunto a pizzichi nei cocktail durante le feste più esclusive di Hanoi perché si crede possa proteggere i miliardari dagli effetti negativi dell’alcool.
Effetti collaterali
Un caso particolare di superstizioni dannose per gli animali è quello in cui la falsa credenza non coinvolge direttamente l’animale che mette a rischio. Ne sono un esempio le presunte virtù curative dell’hatha jodi, una pianta considerata quasi miracolosa nella medicina ayurvedica indiana, spesso identificata con l’arbusto messicano Martynia annua. Verso la metà degli anni Duemila, gli investigatori indiani che si occupano di reati contro la natura hanno cominciato a notare un crescente numero di annunci di vendite di questa pianta, magari accompagnati dall’indicazione che il prodotto era stato raccolto in luoghi sacri come Lumbini, in Nepal (il luogo dove sarebbe nato il Buddha), o sulle colline di Amarkantak, nell’India centrale. Solo che quelli messi in vendita non erano arbusti: si trattava invece di genitali di varano essiccati. I varani sono infatti dotati di un organo sessuale biforcuto, costituito da due emipeni, che ricorda la forma dell’hatha jodi. Questa somiglianza con la pianta ha fatto sì che si sviluppasse un fiorente mercato nero in India, dove le credenze sulle virtù salvifiche della pianta vanno ad alimentare il bracconaggio e l’uccisione dei varani, già minacciati di per sé a causa della superstizione che considera afrodisiaci la lingua e il fegato dell’animale.
Un’altra ricaduta delle credenze sulle virtù curative di alcuni animali è la pesca al totoaba, un pesce particolarmente ricercato nella medicina tradizionale cinese e che vive nelle acque del Messico e della California. In un primo tempo, in realtà, la superstizione riguardava un’altra specie, il bahaba cinese, la cui vescica era considerata una panacea per problemi di fertilità, circolatori o dermatologici. Con il declino della specie, considerata ora in pericolo critico, l’attenzione dei pescatori cinesi si è rivolta al totoaba, considerato analogo al bahaba; i prezzi di questo pesce sono perciò saliti alle stelle, facendo guadagnare all’animale il poco invidiabile soprannome di “cocaina del mare”. La pesca sfrenata ha finito però per danneggiare anche un’altra specie, la vaquita, una piccola focena riconoscibile per i grandi anelli neri intorno agli occhi, tanto da essere stata soprannominata anche “panda del mare”. Le vaquita tendono a rimanere impigliate nelle grandi reti a strascico illegali utilizzate per la pesca al totoaba; negli ultimi anni il loro numero si è ridotto a meno di un centinaio di esemplari, portando la specie sull’orlo dell’estinzione.
Altre medicine
Sarebbe sbagliato ricondurre i problemi di conservazione soltanto alla medicina tradizionale cinese. Molte altre farmacopee tradizionali fanno uso di animali: si pensi, per l’Italia settentrionale, al grasso di marmotta, che fino a tempi recentissimi è stato usato contro l’artrosi e i dolori muscolari. Allo stesso modo, è tuttora possibile acquistare in molte farmacie ed erboristerie italiane integratori a base di cartilagine di squalo, considerata un antitumorale. Questa convinzione ebbe parecchia diffusione grazie a un bestseller del 1992: Gli squali non si ammalano di cancro: come la cartilagine di squalo può salvarti la vita, di William Lane e Linda Comac. Inutile dire che il libro si basava su dati errati, su studi clinici mai pubblicati in peer review e su supposizioni sbagliate: tutte le sperimentazioni effettuate finora hanno concluso che la cartilagine di squalo non ha effetti sui pazienti oncologici. La bufala però ha contribuito ad alimentare la pesca di questi animali, già messi a dura prova dalla pratica del finning – cioè la rimozione delle pinne dagli esemplari pescati, mentre il resto dell’animale viene ributtato in acqua (le pinne di squalo sono ricercate nella medicina tradizionale cinese e nel mercato alimentare asiatico).
Anche in questo caso un elenco esauriente è quasi impossibile; si va dall’apipuntura (una forma di agopuntura in cui vengono utilizzate api vive), all’uso di sangue di tartaruga come rimedio anti Covid, all’impiego di prodotti animali nell’ambito della medicina ayurvedica. Si può comunque dire che i rischi maggiori per le specie coinvolte si presentano quando una presunta cura diventa di moda, aumentando così la pressione antropica sull’animale coinvolto (e che magari è già minacciato da altri fattori). È quanto è avvenuto, per esempio, con la vicenda dello scorpione cubano Rhoplaorus junceus, che, nel 2010, conobbe un incredibile momento di popolarità: la convinzione che il suo veleno, denominato Escozul (da escorpión azul), potesse avere un’azione antitumorale fu ripresa anche in Italia da servizi televisivi e articoli, che alimentarono i viaggi della speranza verso Cuba e la cattura di migliaia di esemplari, generando anche una certa preoccupazione tra i naturalisti dell’isola.
Quando il danno è agli ecosistemi
Esiste infine un ultimo modo attraverso il quale le false credenze danneggiano gli animali, a cui spesso non si pensa: è quando le superstizioni causano guai a interi ecosistemi, con ripercussioni su tutte le specie che ne fanno parte. Non vale solo per le teorie della cospirazione che impediscono azioni mirate contro il cambiamento climatico globale; esistono anche casi più specifici, in cui l’uso rituale di alcuni animali, trasportati da un territorio a un altro, alimenta il problema delle specie invasive. Potrebbe sembrare un problema da poco, eppure non è così: le specie alloctone costituiscono una delle maggiori minacce per la biodiversità, insieme alla perdita degli habitat e alla caccia; sono considerate un fattore chiave nel 54% delle estinzioni animali e vegetali, mentre nel 20% dei casi ne costituiscono addirittura l’unico fattore. Inserire una nuova specie in un ecosistema estraneo, insomma, non è mai una buona idea, e le conseguenze possono essere inaspettate.
Ebbene, sappiamo per certo che la diffusione di alcune specie invasive è strettamente legata alla superstizione. È vero, per esempio, nel caso delle tartarughe, che in molti paesi orientali vengono ritenute di buon auspicio: averne una nel giardino di casa è indispensabile per attirare la buona sorte, tanto più se la tartaruga appartiene a una specie insolita ed esotica.
La diffusione di specie aliene può essere dovuta anche a specifici rituali. Tra i buddhisti che vivono sull’altopiano tibetano nel sud-ovest della Cina, per esempio, è diffusa la pratica del Fangsheng (“liberazione della vita”), che consiste nel rilasciare in natura gli animali destinati alla macellazione; un atto di generosità che assicurerebbe la buona sorte, la guarigione dalle malattie e una vita lunga e felice. Questo fa sì che ogni anno, benché il rilascio di pesci non autoctoni sia stato vietato nel 2019, migliaia di pesci “alieni” vengono acquistati al mercato e immessi nei fiumi della regione; fra questi, la carpa cruciana e quella comune. Se queste specie non sono ancora diventate invasive lo si deve soltanto alle lontre, che hanno imparato ad apprezzare i pesci del Fangsheng e hanno impedito almeno per ora alle specie non autoctone di colonizzare gli ecosistemi fluviali della regione.
Assai peggio è andata in Florida, dove l’importazione di chiocciole giganti africane ha provocato un vero disastro ecologico, minacciando sia l’agricoltura, a causa della loro voracità, sia la stessa salute umana, perché sono portatrici di un parassita che può trasmettere una forma di meningite. Lunghi circa 20 centimetri, questi gasteropodi sono considerati tra le 100 specie più invasive al mondo e hanno fatto la loro comparsa in Florida per la prima volta negli anni ’60 del secolo scorso.
Dopo una lunga battaglia per l’eradicazione, le chiocciole giganti erano sparite, ma hanno fatto la loro ricomparsa nel 2011 nel giardino di un praticante della Ifa Orisha (un sistema di divinazione diffuso nella Santeria e in altre religioni di origine africana), che aveva importato gli animali per usarli in un rituale di guarigione. Il successivo tentativo di eradicazione della specie è durato fino al 2021, con una spesa di circa 23 milioni di dollari. Ma l’anno seguente, purtroppo, le chiocciole giganti erano già ricomparse. Contro la superstizione – così come contro la stupidità – nemmeno gli dei possono granché.
Bibliografia
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