Misteri vintage

Dies aegyptiaci, i giorni che gli egiziani (non) evitavano

di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo

Oggi tutti ci divertiamo a scherzare sulle date e i giorni iettatori, dal venerdì 17, al “né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte”. Non sappiamo esattamente quando siano nate queste credenze, ma molti secoli fa, nel Medioevo, esisteva un’intera e vasta tradizione su qualcosa di simile: i cosiddetti Dies aegyptiaci, ossia i “Giorni egiziani”, in cui era meglio non intraprendere nuove attività o sottoporsi a procedure mediche rischiose – soprattutto in alcune ore del giorno.

Ma quali erano questi giorni, e perché erano proprio “egiziani”?  

Venticinque maggio, salassi da evitare

Dal punto di vista antropologico, la scansione del tempo è sempre stata fondamentale. Il tempo ha una stretta attinenza col sacro, con l’incertezza e con la necessità di segnare i momenti della giornata. Quando e come intraprendere un’attività, farla o non farla, avviarla o concluderla? Non tutto il tempo è uguale, o indifferente. Meglio cercare di capire quando il rischio di fallimento è maggiore, dunque, ed evitarlo. 

Così, in Occidente, fin dall’antica Roma, i giorni del calendario furono distinti in favorevoli e sfortunati, i Dies fastos, nefastos et infaustos della tradizione latina, che con l’avvento del Cristianesimo finirono per scomparire o per essere integrati nel nuovo calendario liturgico. Il Cronografo del 354, composto da Furio Dioniso Filocalo, mostra ancora la convivenza fra convinzioni pagane e cristiane sulle date infauste.

Ed è proprio nel Cronografo che fanno la comparsa, per la prima volta, i Dies aegyptiaci. Si presentano come ventiquattro giorni dell’anno a cui prestare particolare attenzione, in particolare per le questioni mediche: in queste date era particolarmente sconsigliato farsi cavare il sangue, ma anche intraprendere interventi chirurgici o iniziare cure farmacologiche. In ognuno di questi giorni, poi, c’era un’ora, in particolare, in cui era meglio evitare qualsiasi attività.

Non si creda che la cosa piacesse alla maggior parte dei teologi cristiani: figure insigni come Ambrogio di Milano, in una delle sue Epistole (I, 23) scritta intorno al 383, e, più tardi, Agostino d’Ippona, nel suo Commentario alla Lettera ai Galati ne condannano l’uso senz’appello. Invece, alla metà del V sec., neoplatonici come Proclo, almeno se si dà ascolto al suo biografo Marino di Neapoli, ne facevano ampio uso.

Le liste di questi giorni iettatori si trovano in diversi calendari della tarda età imperiale e nei Libri delle Ore dell’alto medioevo, a volte come elenchi a sé, a volte contrassegnati in vari modi per evidenziarne la pericolosità, o semplicemente affiancati dall’acronimo D.E. Comparivano anche in molti trattati di medicina, come il De minutione sanguinis sive de phlebotomia attribuito a Beda il Venerabile (673-735). Nonostante la contrarietà di parecchi teologi, nei monasteri i religiosi europei continuarono a discutere e a trascriverne gli elenchi e i relativi commenti senza eccessive preoccupazioni, e ovunque in Europa l’uso ebbe vasta fortuna. Il fatto che una fonte autoritativa come il celebre Decretum di Graziano, monaco camaldolese e insigne giurista che intorno al 1140 redasse quella grande raccolta di diritto canonico, li vietasse in modo fermo sembra sia valso a poco.

Dall’ottavo secolo, comunque, come già molto tempo fa documentato dallo studioso inglese Robert Steele, le liste di giorni sfortunati cominciarono a essere stampate e commentate in maniera autonoma rispetto ai calendari. La cosa è comprensibile: in origine, infatti, i giorni “no” erano quelli del calendario romano antico. Scomparendo lentamente a favore di quello giuliano, i giorni “egiziani” cominciarono a procedere per conto loro.  

Egizi, ma solo di nome

A questo punto, si vorrà sapere quali sono questi giorni. Come per qualsiasi credenza durata secoli, a seconda della fonte ci sono a volte piccole variazioni sulle date. Ci sono liste che portano le date infauste da ventiquattro a cinquantasei, altre che le mescolano alle credenze sui Dies caniculares (i giorni di luglio e agosto che, secondo la tradizione greco-romana, portavano la terra a emanare miasmi malsani che facevano ammalare le persone e impazzire gli animali). Vi presenteremo tra poco quella più popolare.

Ma perché “giorni egiziani”? Probabilmente per una ragione di marketing, per così dire. L’Egitto aveva fama di essere il luogo della Sapienza per eccellenza. La fama di civiltà antichissima del popolo del Nilo era già dominante nella Grecia classica, e da lì era passata a Roma. Se qualcuno poteva aver interpretato i presagi celesti fino a distillare un elenco di giorni sfortunati, quelli dovevano essere stati senz’altro gli Egizi. 

Anzi, uno in particolare: Ermete Trismegisto, il “tre-volte-grande”, figura mitica di mago e sapiente a cui in epoca ellenistica furono attribuiti scritti occultistici e trattati di alchimia. Anche i Dies aegyptiaci venivano attribuiti a lui – o, in alternativa, a illustri astrologi dell’Antico Egitto. 

La commistione tra medicina e astrologia non deve stupire: nel Medioevo le epidemie erano spesso attribuite a configurazioni planetarie particolarmente sfortunate, e non era raro che il medico incaricato di curare un paziente ne stilasse prima il tema natale, per meglio capire quali farmaci somministrare. E, dunque, che prima di decidere un intervento consultasse prima un calendario o un lunario, con tanto di giorni egiziani da evitare.

Inutile dire che i veri egizi, con tutto questo, avevano davvero ben poco a che fare.

Per non rischiare, meglio ricordare

Al culmine del Medioevo i Dies aegyptiaci erano popolarissimi. Se ne è occupato in maniera approfondita, fra gli altri, il medievista americano Don C. Skemer, che nel 2010 ha pubblicato un lavoro importante sul tema attraverso le pagine della rivista Traditio

Nel suo lavoro, Skemer parte da una considerazione generale: la necessità di imparare a memoria, in tempi in cui la cultura orale era prevalente e la capacità di leggere limitata, era davvero una componente rilevante. Le tecniche per tenere a mente liste ed elenchi non erano soltanto un passatempo o un modo per migliorare le prestazioni scolastiche o professionali: erano un bisogno assai concreto. E anche sapere a memoria quali erano le date nefaste senza consultare elenchi poteva rivelarsi utile. 

Per questo, intorno al 1235, a Parigi fece la sua comparsa l’ennesima serie di versi mnemonici che, oltre a servire allo scopo, avevano anche un’altra caratteristica: erano bizzarramente oscuri, e, dunque, oltre che ad aiutare la memoria, facevano sognare, perché usavano un linguaggio inconsueto (che, probabilmente, voleva fingere di avere a che fare con l’egiziano).

Ne fu autore una figura interessante di matematico, astronomo e astrologo, forse di origine scozzese, noto col nome latinizzato di Johannes de Sacrobosco e con quello inglese di John of Holywood (1195 ca – 1256?). Probabilmente formatosi a Oxford, giunse all’Università di Parigi nel 1221. Il suo Tractatus de Sphaera (1230) fu un’eccellente esposizione del cosmo geocentrico tolemaico, apprezzato fino al Sedicesimo secolo perché riusciva a presentare un sistema astruso di meccanica celeste come quello di Tolomeo in maniera accessibile. Allo stesso modo, fu fra i critici più netti del sistema del computo annuale basato sul calendario giuliano, brillante espositore dei metodi dei matematici arabi nell’Algorismus de integris e, forse, nel Computus (1235) il primo a proporre in modo sistematico in Europa il sistema sessagesimale di suddivisione di ore e minuti. Però de Sacrobosco, come un po’ tutti noi, era anche uomo del suo tempo, e per questo apprezzò l’astrologia sotto mille profili, senza escludere neppure credenze come quelle nei giorni “egiziani” che, come anticipato, cercò di ficcare in mente a tutti grazie ai suoi versi. Una cosa che non sorprende: fu ancora Robert Steele, a suo tempo, a documentare in modo rigoroso che era diventata usanza comune enumerare e descrivere in versi a volte assai elaborati i giorni infausti. De Sacrobosco, con la sua complessa e piuttosto oscura formula mnemonica, aveva dunque la strada spianata all’estro poetico.  

Lo studioso scozzese era fra coloro (la netta maggioranza) che ritenevano che i giorni egiziani fossero 24, e questo sulla base di un ragionamento a dir poco curioso. Già molti, prima di lui, pensavano che quelle date fossero “egiziane” perché l’Egitto era per eccellenza il paese della peste – la sesta delle dieci piaghe elencata nel libro biblico dell’Esodo, quella delle ulcere che ricoprono uomini e animali, era interpretata come tale. Però, come si faceva ad arrivare a ben ventiquattro giorni cattivi, cioè a due per mese? La cosa dipendeva dall’esistenza di una lunga tradizione esegetica secondo la quale alle dieci piaghe tradizionali ne sarebbero state da aggiungere altre quattordici, non ritenute gravi a sufficienza da Mosè da essere elencate nell’Esodo! Questa, per esempio, la tesi di un personaggio influente come Pietro Comestore (1100-1179), che insegnò a lungo teologia presso la cattedrale di Notre-Dame.

I versi erano questi:

Armis gunfe, dei calathos, adamare dabatur, / Lixa memor, conflans gélidos, limphantia quosdam, / Omne limen, aaron bagis, consortia laudat, / Chie linkat, ei coequata, geracta lifardus.

Corrispondevano a questi giorni, con indicazioni di ore precise:

  • Gennaio: 1 (ora undicesima), 25 (ora sesta)
  • Febbraio: 4 (ora ottava), 26 (ora decima)
  • Marzo: 1 (ora prima), 28 (ora seconda)
  • Aprile: 10 (ora prima), 20 (ora undicesima)
  • Maggio: 3 (ora sesta), 25 (ora decima)
  • Giugno: 10 (ora diciottesima), 16 (ora quarta)
  • Luglio: 13 (ora dodicesima), 22 (ora undicesima)
  • Agosto: 1 (ora prima), 30 (ora settima)
  • Settembre: 3 (ora diciassettesima), 21 (ora quarta)
  • Ottobre: 3 (ora quinta), 22 (ora nona)
  • Novembre: 5 (ora ottava), 28 (ora quinta)
  • Dicembre: 7 (ora prima), 22 (ora sesta)

Per farla breve, il sistema, piuttosto criptico, si basava su dodici distici (uno per mese), formati da due parole. Ciascuna delle due parole era fatta da due sillabe. L’iniziale della prima sillaba di ogni distico permetteva di determinare il primo giorno “egiziano” del mese, la seconda sillaba della prima parola indicava il secondo di questi giorni, calcolati all’indietro partendo dall’ultimo giorno del mese. Nel sistema mnemonico, però – secondo un’usanza nota dall’epoca carolingia – il mese era diviso in due metà: per la seconda metà del mese i giorni erano contati all’indietro, in modo da coprire il maggior numero di giorni possibili usando le lettere dell’alfabeto latino.

Per quanto riguarda le ore particolarmente pericolose nei giorni egiziani, invece, le lettere iniziali delle due lettere della seconda parola erano contate in maniera non retrograda, in modo da fornire dei numeri – cioè le ore peggiori dei singoli giorni egiziani. 

Un metodo oscuro, dunque, ma assai elegante e sofisticato. In questo modo, al risultato pratico – la possibilità di ricordare quando e a che ora bisognava stare attenti a non fare niente o quasi – si univa l’idea di aver avuto accesso a un qualcosa di astruso, di esoterico, di riservato a chi sapeva interpretare le cose oltre l’apparenza delle parole. Insomma, vera sapienza egizia, quella della grande civiltà misteriosa, fatta da maghi e da nemici del Dio biblico, ma pure da iniziati che, con certe cose, ci sapevano fare. 

Il tramonto di una superstizione

I Dies aegyptiaci sopravvissero a lungo. Uno dei maggiori poeti inglesi, Geoffrey Chaucer, forse li conosceva. Nei suoi Racconti di Canterbury, scritti intorno al 1390, c’è un racconto, quello del cappellano e delle monache, incentrato sulle disavventure di un povero gallo di fattoria di nome Chanticleer. Ebbene, una notte il gallo ha un terribile incubo, da cui rimane turbato; sua moglie ne attribuisce la causa alla pesantezza di stomaco e a un eccesso di umori, e dunque gli consiglia di purgarsi; Chanticleer le risponde che non l’avrebbe fatto, perché il rimedio sarebbe stato per lui velenoso. Ebbene, il giorno in cui il gallo avrebbe dovuto intraprendere la cura sarebbe stato il 3 maggio, ossia proprio un giorno egizio! Sebbene i Dies Aegyptiaci non siano menzionati esplicitamente, alcuni critici hanno voluto vedere nel rifiuto del gallo un riferimento a quella tradizione.

La credenza nei “Giorni egizi” iniziò a scomparire nel corso del Cinquecento, alle soglie della modernità. Non certo perché vennero meno le convinzioni sui giorni forieri di disgrazie, ma perché a queste si sostituirono altre convinzioni, più alla moda. Probabilmente, poi, il fatto che nel 1582 il calendario giuliano fosse abbandonato a favore di quello gregoriano, non giovò al sistema di calcolo. Alla lunga, la cosa si rivelò fatale per l’elenco dei Dies Aegyptiaci. Così anche le formule mnemoniche come quella di Johannes de Sacrobosco furono dimenticate praticamente da tutti, tranne che dai filologi interessati a decifrarne il senso. 

Immagine di apertura: di Henryk Niestrój (henrykniestroj.pl), da Pixabay