Il drago cholerico del 1836: una fake news sanitaria dell’Ottocento
di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
L’11 gennaio 2020 la Cina annunciava la prima vittima di una misteriosa malattia che da almeno due mesi stava causando alcuni gravi focolai di polmonite atipica in alcune regioni del paese. Il 21 gennaio il CDC americano pubblicava l’immagine – poi divenuta iconica – del Coronavirus responsabile della pandemia, un rendering grafico frutto del lavoro di Alissa Eckert e Dan Higgins. Da quel momento il virus aveva un volto.
Immaginate invece di trovarvi nel pieno di un’epidemia e di non sapere nemmeno lontanamente a che cosa sia dovuta: non si riesce immaginare come diminuire i rischi, come si trasmette il contagio, e anche solo che “aspetto” abbia quella brutta bestia che si sta portando via così tanta gente. È da queste considerazioni che prende le mosse il nostro racconto di quanto accadde poco più di un anno dopo la comparsa del colera in Italia, che era avvenuta nell’estate del 1835 a partire dalla provincia di Cuneo.
L’agente eziologico della malattia – il batterio Vibrio cholerae – sarebbe stato scoperto soltanto nella seconda metà dell’Ottocento grazie agli studi di Filippo Pacini e di Robert Koch. Non deve stupire, dunque, il successo che ebbe la “prima immagine” del responsabile del morbo asiatico che stava flagellando l’Italia: quella del cosiddetto drago cholerico. Un’immagine incisiva, inquietante, per quanto sul piano della corrispondenza con la realtà a dir poco discutibile.
Epidemisti, contagionisti e leggende di ogni tipo
Prima di allora, medici e gente comune dibattevano sulla natura del morbo asiatico, tra consigli di massima (come avvenne fin da subito, a partire dall’epidemia piemontese del 1835), racconti dell’orrore (come nella leggenda britannica dei sepolti vivi di Sligo), storielle più o meno edificanti, vere e proprie leggende metropolitane (come nella teoria del veleno o in quella dell’eccesso di cibo, presente a Napoli già nel 1836), fino all’idea che il colera dipendesse… dalla paura stessa di ammalarsi di colera.
Dal canto suo, la scienza medica faceva come poteva. In generale, si divideva tra epidemisti e contagionisti. Per i primi, l’epidemia c’era, ma dipendeva da circostanze ambientali: aria malsana, umidità, presenza di acquitrini, alimentazione sbagliata, eccessi. Per i secondi – più vicini alla realtà -, la malattia era invece dovuta alla vicinanza fisica fra sani e malati. Occorreva dunque mettere in atto un provvedimento fondamentale: il cordone sanitario; isolare malati e aree in cui il morbo si manifestava, sperando nessuno riuscisse a violarlo. Non avevano però un’idea realistica delle vere cause del colera.
La storia del drago cholerico rientra in una certa misura fra le interpretazioni epidemiste del morbo, perché, in una certa misura, la faceva dipendere da un fattore ambientale – a fronte del quale i cordoni sanitari erano inutili. Come vedremo, però, questo fattore ambientale era di un tipo assai particolare.
Una tremenda epidemia e una crisi sociale
Fra l’estate e l’autunno del 1836 una gravissima epidemia di colera colpì la città di Ancona. Comparsa in agosto, raggiunse il massimo della diffusione fra settembre e ottobre, seminando la morte. Il clima sociale creatosi nella provincia marchigiana e i contrasti di ogni genere che accompagnarono il disastro sono stati documentati dalla storica Novella Ricci in uno studio apparso nel 1992 sulla rivista Proposte e ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale.
Fu in quel clima di lutto e di grande incertezza che prese corpo la storia del drago cholerico.
Nell’autunno del 1836 il medico Agostino Cappello, che aveva ricevuto direttamente da papa Gregorio XVI il compito di coordinare la sanità ad Ancona e provincia, diede alle stampe un opuscolo (Risposta ad alcuni articoli stranieri intorno al choléra-morbus di Ancona), la cui parte finale contiene una breve ma decisamente polemica appendice. In essa, il funzionario manifestava tutta la sua irritazione per il fatto che varie fonti di stampa gli avessero attribuito una compartecipazione alla scoperta di un preteso “drago del colera”. La polemica era aperta nei confronti delle gazzette e delle dicerie partite da Ancona, ma nemmeno troppo nascostamente si leggeva anche il malumore nei confronti di un collega col quale sino a poco tempo prima aveva lavorato a stretto contatto: il dottor Benedetto Viale, che aveva identificato l’origine del morbo in alcuni insetti volanti.
Ecco come secondo Cappello erano andate le cose.
Era vero, esordiva il medico: lui stesso si era occupato della possibilità che di alcune malattie fossero vettori gli insetti. In sé, l’idea era tutt’altro che irrazionale. L’acaro della scabbia, già noto al tempo, ne era un esempio. Però Cappello andava oltre – e aveva ragione. Un conto era ipotizzare la presenza di un vettore animale della malattia, un altro erano le litografie del presunto dittero identificato come causa del male – il drago del colera, appunto. Stiamo parlando di immagini come questa:
Con l’aggravarsi della situazione ad Ancona, Cappello aveva cercato e ottenuto la collaborazione di un altro medico, il dottor Benedetto Viale, giunto appositamente dalla capitale. Cappello però si era ammalato di colera, e allora Viale aveva provveduto per conto suo, in modo autonomo, a raccogliere degli insetti che gli erano parsi insoliti.
Fin qui, scriveva Cappello, il suo collega aveva fatto bene a indagare. Il guaio era stato che Viale aveva diffuso la notizia, e la stampa se n’era impadronita, tanto che parte dell’opinione pubblica, convintasi che la malattia dipendesse da un insetto volante, aveva preso a contestare l’utilità dei cordoni sanitari posti intorno all’area colpita. Dunque, per lui Viale aveva preso una cantonata, ma, anche così, Cappello rimaneva convinto che la colpa del colera fosse da addebitarsi a un insetto – soltanto, non a quello al quale il suo collega aveva pensato, e che poi era diventato oggetto delle illustrazioni di fantasia e dei commenti divertiti in osterie, piazze e ritrovi di ogni genere.
La scoperta, guardando il cielo
Tre anni dopo il fatto, cioè nel 1839, a Roma comparve una testimonianza al contempo tragicamente ridicola su come Viale avrebbe agito durante l’epidemia anconetana. Ne era protagonista un prete cattolico, Francesco Borioni, canonico della cattedrale della città marchigiana, i cui scritti erano stati raccolti in un volume complessivo. Uno di questi, le Memorie sull’autunno dell’anno 1836 in Ancona, in origine uscito nel 1837, narrano ancor meglio ciò che Borioni avrebbe visto.
Viale stava facendo il giro degli infermi. Era prima di mezzogiorno, c’era un bel sole. Giunto nella piazza degli Scalzi, oggi piazza del Senato, in pieno centro, il dottore vide volteggiare sotto la luce solare un gran numero di insetti. Incuriosito, li raccolse col cappello e con le mani. Ne portò degli esemplari a casa: esaminatili al microscopio, ne avrebbe individuato forme talmente strane e insolite da fargli pensare che quell’animale mai visto fosse l’agente della nuova malattia, il cholera-morbus. La versione di Borioni diverge da quella di Cappello: per Borioni, Viale aveva avvertito il collega della scoperta. Quello era apparso interessatissimo, quasi entusiasta, tanto che Viale, seguendone il consiglio, aveva steso coperte e lenzuola alle finestre per raccoglierne altri esemplari. Solo in seguito, si rammaricava vivamente il canonico Borioni, era insorta la diatriba sulla vera natura degli insetti e sul loro legame con l’epidemia.
Borioni però difendeva l’operato di Viale. Lui stesso poteva testimoniare, avendolo incontrato a suo tempo, che in nessuna occasione aveva sostenuto che “il seme cholerico fosse rinchiuso dentro l’insetto, come l’acqua odorifera dentro una boccetta”. Rimandando ancora al modello aristotelico delle quattro cause come motivo dei cambiamenti in natura, Borioni sosteneva che Viale fosse assai incerto se ritenere il drago cholerico la causa efficiente della malattia. Insomma: la colpa del chiasso era dell’opinione pubblica, e, forse, Cappello aveva esagerato nel dare addosso al suo collega.
In realtà, ormai sappiamo che nell’immediatezza del fatto, un ruolo importante fu giocato dalla stampa, entusiasta per la presunta scoperta e, soprattutto, lieta di riprodurre in vari modi l’aspetto dell’insetto assassino.
La polemica su “Cosmorama”
Uno dei più moderni periodici di quegli anni, il settimanale milanese Cosmorama pittorico, già nel n. 46 uscito nel novembre del 1836, aveva fatto un bilancio di quanto era accaduto nelle settimane precedenti. Nel dibattito intervenivano sia Viale sia Cappello. Risulta chiaro che la polemica era già netta fin dall’inizio – anche se, sosteneva Viale, erano stati i giornali a ingigantire il tutto e a trasformarlo in qualcosa di ridicolo…
Secondo quella ricostruzione, tutto era iniziato da una lettera inviata da Ancona ad opera di Viale. Era diretta al capo dei medici del regno dei papi, l’archiatra pontificio Giuseppe De Mattheis, nella quale si sosteneva – stando almeno al Diario di Roma del 15 ottobre 1836, che la causa del colera era un insetto dittero. Era da lì che era partita anche la prima immagine del presunto vettore del morbo – quella riportata qui sopra. Delle litografie erano state inviate a Venezia, e da lì avevano ricevuto ulteriore diffusione. Un certo dottor Rima, di Vicenza, si era spinto a elucubrare sui modi d’azione dell’insetto, inviando relazioni al collega Locatelli.
Cappello reagì quasi subito. Datata 23 ottobre, sulla Gazzetta privilegiata di Venezia comparve una sua lettera dai toni adirati. Quella del drago cholerico era “una balordaggine”, sulla quale Viale si era mosso in maniera contraddittoria, argomentando intorno a quello che era soltanto un comune insetto presente sull’Adriatico, in specie nei periodi di pioggia intensa.
Quattro giorni dopo, Viale cercò di correre ai ripari. Una sua missiva denunciava una presunta lettera circolare che sarebbe stata spacciata per sua e di Cappello: era apocrifa. Quanto agli insetti, li aveva visti solo lui – e non Cappello: gli erano parsi del tutto differenti da altri, e ne aveva scritto in merito al Diario romano. Purtroppo, però, anche se non in maniera esplicita, insisteva sulla plausibilità della cosa: la sua era stata “una semplicissima osservazione, altronde non nuova, essendosi in altri luoghi veduto coincidere il morbo con insetti alati”. Di sicuro Viale si spese molto per il suo buon nome. Lo testimoniano le sue carte, conservate in un fondo apposito del Gabinetto Viesseux di Firenze.
Rondini e poesie
La “scoperta” e la controversia che subito l’accompagnò ebbero vasta risonanza tra le classi popolari e quelle colte: per la prima volta, il cholera aveva un volto. Ci furono voci di ogni genere, che chiedevano di intervenire contro gli insetti scoperti dal medico ad Ancona. Le ha documentate Paolo Sorcinelli, storico sociale, scrivendone su Bibliomanie (n. 53, giugno 2022). Per lo studioso, anzi, le voci presenti a Roma (una “moltitudine di rondini” era il segnale che si poteva stare tranquilli, “il male non vi sarà”) e nella stessa Ancona (le rondini che lasciavano la città erano segno dell’arrivo della malattia), o la comparsa a Napoli, in uno scoppio epidemico successivo, di nuvole nere, o sanguigne (formate dagli insetti, “concreati dalla stessa putrefazione dei cadaveri” e causa stessa del morbo), erano partite dalle notizie sulla scoperta di Viale (Giovanni Emanuele Bidera, I 120 giorni del 1837, Tipografia Ferretti, Napoli, 1837, p. 17). Non era forse necessario, aveva scritto lo stesso canonico Borioni nel suo resoconto (p. 169), che bisognava con urgenza dar fuoco alle “botti di pece e di bitume e a far sentire i cannoni che rarefanno l’aria e uccidono gli insetti?”
Apparvero poi innumerevoli poesiole, scherzi, illustrazioni e fogli volanti che, di solito, si burlavano del preteso scopritore. Fra i tanti esempi, la Raccolta completa delle poesie giocose, pubblicata nel 1839 a Lugano dal letterato aretino Antonio Guadagnoli, che in chiusura vedeva un’aggiunta non opera sua, voluta dall’editore e – siccome nello stesso stile del toscano – messa lì senza problemi. Ne era autore un medico di Rieti, Luigi Leonardi, che ne traeva più che altro occasione per ironizzare sui mali della società, e sulle falsità che troppo spesso diffondevano la stampa. L’anno prima, il 1835, era stato quello del celebre falso giornalistico della scoperta degli uomini-pipistrello sulla Luna, attribuita all’astronomo William Herschel, che per un po’ era stata creduta per vera ed aveva avuto un’ampia eco pure in Italia. Insomma, se Viale con il microscopio aveva pensato di aver individuato il drago cholerico, era pur vero che si era pensato di vedere strani esseri viventi sulla Luna grazie ai telescopi:
Eppure è vero. Con i canocchiali
Avete inteso che si son scoperti
Camminar nella luna gli animali
Con piedi mani capo ed occhi aperti
Con ciuffa in testa all’uso di Turchia
E bocca per mangiar come la mia.Or se si son distinti nella luna
Abitanti montagne e scogli e mare
Non so veder difficoltà nessuna
Che il Drago qui tra noi non possa stare.
Qui tra noi dove infin se v’è o non v’è
Ognun può assicurarsene da se.
Tra le cose più effimere, probabilmente lette a voce alta nelle osterie e agli angoli delle piazze, ecco un esempio comparso su Cosmorama pittorico nel novembre 1836
[…] Finisca ogni querela, ogni paura
Il Cholerico mostro è ormai scoperto
Non si dan più rimedj alla ventura,
Non è a seguirsi più metodo incerto,
Non è più duopo darsene pensiero;
Chi non è morto non muor più davvero.E in che cosa credete che consista
Tutto l’orrore della malattia?
In un insetto che alla nuda vista
È piccolo così che sfugge via;
E in grazia della sua piccola mole,
Entra per tutti i buchi e dove vuole…
Ma, soprattutto e come forse c’era da aspettarsi, il drago cholerico non la passò liscia con il massimo interprete dell’anima popolare romana, Giuseppe Belli. Anche stavolta Belli impastava di cinismo e di scetticismo le parole dell’abitante di Roma, avvezzo da secoli al dominio clericale e irridente verso qualsiasi paludamento dei fatti: il mostro che causa le peggiori sofferenze, visto col congegno del dottor Viale, è nero come un abbate. Nelle raccolte dei Sonetti romaneschi questi versi sono datati 29 settembre 1836, ma a dire il vero a noi quella data ci sembra un po’ troppo precoce. Per quanto ne sappiamo, del “drago” non si cominciò a parlare se non nella prima metà di ottobre.
Antro che Ancona! quer futtuto male,
Malgrado li rigori der cordone,
Dava de griffo a ccentomila Ancone,
Senza er congeggno der dottor Vïale.Nun zapete che lui cor cannocchiale
vedde er collèra in forma di dragone,
e gnisun antro medico cojone
aveva mai scuperto st’animale?Che brutta bestia! ha un par de corna armate
com’er demonio: porta l’ale: è ppiena
d’artiji, e nera poi com’un abbate.Figurete che sorte de sfraggello
ha da fà in corpo a un pover’omo, appena
je s’arriva a caccià drent’ar budello!
Rappresentare le malattie come un mostro tremendo è una tentazione forte, ma ancor di più doveva essere, nel 1836, dare per la prima volta un volto all’epidemia: meglio avere a che fare con un “drago” terribile, sia pure sotto il profilo scientifico assai lontano dalla realtà biologica del vibrione, che dover ammette di non saperne nulla. L’ignoto spaventa più di qualsiasi mostro. Questo, forse, dovrebbe farci riflettere: aver avuto fin dai primi momenti dell’epidemia di Covid-19 un’immagine dell’aspetto del virus e di quello che dovevamo affrontare, è anch’esso un risultato della scienza moderna, qualcosa a cui spesso non si pensa. Ma che ci è utile per affrontare, anche psicologicamente, i rischi e le preoccupazioni di un’epidemia.
Immagine di apertura dal sito della Wellcome Collection, Giles, R. H. (Robert Humphrey), 1802-1881. Licenza CC BY-NC 4.0