Le “masche” di Rifreddo e Gambasca: un processo contro le streghe alla fine del Quattrocento
Giandujotto scettico n° 169 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Nel nostro paese le testimonianze storiche arrivate fino a noi sulla caccia alle streghe non sono numerose. I tre fascicoli giudiziari conservati presso l’Archivio storico del Comune di Rifreddo (Cuneo) sono fra quelli più antichi: documentano un’indagine condotta nel 1495 dall’inquisitore Vito dei Beggiami sul conto di tre donne, accusate di far parte di una “setta delle masche” – il termine con cui nel Cuneese sono chiamate tuttora le streghe.
Le confessioni delle indagate – Giovanna Motossa, Caterina Borrella e Caterina Bonivarda – sono un profluvio di balli demoniaci, uccisioni di bambini, congiungimenti carnali con i diavoli e antropofagia. Dicono molto su quale fosse l’immaginario stregonesco alla fine del Quindicesimo secolo e su come i religiosi cercassero di contrastare questo “pericolo”. Seguiteci, vi racconteremo la loro storia.
All’inizio della caccia alle streghe
Delle carte che furono prodotte all’epoca sulla setta delle masche si sono conservate soltanto quelle relative a tre accusate: due riguardano donne di bassa estrazione sociale, Giovanna Motossa e Caterina Borrella, mentre un fasciolo, più corposo, concerne Caterina Bonivarda. Sembra tuttavia che il processo inquisitoriale coinvolse molte più persone, almeno nove, tutte accusate di far parte di una setta di streghe attiva nei paesini di Rifreddo e di Gambasca. I documenti – scoperti nel 2000 – sono stati studiati da Rinaldo Comba e Angelo Nicolini (Lucea talvolta la luna: i processi alle masche di Rifreddo e Gambasca del 1495, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, 2004); se ne può trovare un compendio anche nel libro Streghe, dello storico Grado Giovanni Merlo (Il Mulino, 2006). Grazie alle loro ricerche è possibile ricostruire la vicenda che coinvolse queste sfortunate nell’anno di grazia 1495.
Il 4 ottobre di quell’anno, il magister Vito dei Beggiami, membro dell’ordine dei Frati Predicatori di Savigliano e dottore in sacra teologia, giunse a Rifreddo. Si era agli inizi della stagione della caccia alle streghe: se nel Medioevo l’opinione prevalente dei dotti relegava le storie sui malefici a semplici superstizioni, verso la metà del Quattrocento cominciò a farsi strada l’idea che la stregoneria fosse un fenomeno reale, un forma di adorazione di Satana con cui le streghe potevano ottenere poteri soprannaturali. Nel 1475 il domenicano Johannes Nider pubblicò il Formicarius, che disquisiva a lungo sugli “inganni dei malefici” e ne garantiva l’esistenza; nel 1484 papa Innocenzo VIII emanò la bolla Summis desiderantes affectibus, in cui affermava la necessità di sopprimere l’eresia e la stregoneria nella regione della Valle del Reno, equiparando in sostanza le due cose.
I due inquisitori designati come i più adatti allo scopo, Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, scriveranno insieme il Malleus maleficarum, un manuale ad uso degli inquisitori per stanare e sopprimere le conventicole di streghe (chiamate talvolta valdesie o gazzarie, segno che tra adoratori del diavolo, valdesi e catari non si faceva una gran differenza).
Tempo di grazia, tempo di delazioni
Dunque, è con queste idee in testa che Vito dei Beggiami arriva a Rifreddo e proclama il cosiddetto tempus gratiae: un periodo di tre giorni in cui chi può dare informazioni su delitti commessi contro la fede è invitato a farlo, ottenendo il perdono per gli errori commessi. Molti ne approfittano per riferire all’inquisitore le dicerie che circolano sul conto di alcune donne del paese, che secondo la voce pubblica sarebbero masche (streghe, secondo la locuzione piemontese). È un modo per affermare la lealtà al gruppo sociale e per ribadire la propria estraneità a quei delitti, ma anche per mettere in atto piccole vendette private. Così, davanti all’inquisitore compare un certo Giaffredo Moine, che ricorda una lite avuta con Caterina Borrella: circa sei anni prima, l’uomo aveva ottenuto il permesso di far pascolare i propri maiali nel bosco di quest’ultima in cambio di un carro pieno di legna secca. La donna, però, si era lamentata che l’uomo le aveva portato invece una “carrata di legna verde”, e aveva minacciato la moglie di Giaffredo, dicendo che presto se ne sarebbe pentito. In seguito il loro figlioletto, di diciotto mesi, era morto; il cadaverino, secondo l’accusatore, appariva “tutto squassato e nero sul costato” e presentava il “segno di una mano”, come se fosse stato schiacciato. L’uomo sospettava che fosse stata Caterina, anche perché “si vociferava che fosse masca”.
Anche un altro testimone, Giacomo Bonivardi di Gambasca, aveva una storia simile da raccontare: il padre era stato priore della confraternita di Gambasca, e aveva litigato con Caterina Borrella per un donativo di carni porcine che stava distribuendo alla popolazione. La donna avrebbe voluto per sé una coscia di maiale, ma per l’uomo la richiesta era eccessiva. A quel punto Caterina aveva minacciato l’uomo, che il giorno dopo si era ammalato ed era morto in breve tempo.
Per farla breve, almeno una dozzina di persone si presentano all’inquisitore e riferiscono voci secondo cui Giovanna Motossa, Caterina Borrella e Caterina Bonivarda sarebbero masche.
La prima confessione: Giovanna Motossa
Tra le accuse rivolte alle donne ce n’è una che riguarda un omicidio avvenuto al monastero femminile di Santa Maria della Stella a Rifreddo. Circa sei mesi prima dell’inizio dell’indagine un’inserviente della badessa, la diciottenne Maria, era deceduta in circostanze misteriose. Due persone – la madre della vittima e il cappellano del monastero – accusano del delitto Giovanna Motossa. Avrebbe picchiato lei a morte la giovane, dopo essere stata sorpresa a rubare erbe dall’orto del monastero.
Scaduto il tempus gratiae, l’8 ottobre 1495, compare di fronte all’inquisitore la stessa Giovanna Motossa, che fornisce una confessione piena: ammette il delitto, ma aggiunge di far parte da diciott’anni di una secta mascharum. È da quasi vent’anni che la donna è vedova. Dopo circa un’anno e mezzo dalla morte del marito era rimasta “povera con debiti da pagare”. Una sera, mentre era a letto, era comparso di fronte a lei un demone “in forma di uomo”, che le aveva promesso “molti beni e ricchezze”. Il diavolo sarebbe stato “di mediocre età e statura”, dalla voce roca, la faccia livida, vestiti e calzari neri e un berretto bianco sotto un cappuccio nero. Le aveva dato un fiorino e le aveva detto di chiamarsi Martino. La donna lo avrebbe accettato come suo “amante, signore e maestro”, lo avrebbe conosciuto carnalmente “a parte posteriori”, ma senza provare alcun piacere, “poiché il membro virile del demone era freddo come un pezzo di ghiaccio”.
Giovanna Motossa confessa subito, alla prima domanda, senza reticenze. Nell’interrogatorio dell’8 ottobre, che prosegue anche nei giorni seguenti, racconta di rapporti sessuali con il demone Martino ogni giovedì, di riti sacrileghi con le ostie, riunioni demoniache “nelle gravere (greti, NdR) del Po”; poi ammette che l’omicidio dell’inserviente del monastero è avvenuto su ispirazione del diavolo, afferma di aver ucciso nel sonno diversi bambini che dormivano con i genitori, nomina “complici e socie” della setta delle masche. Tra queste, la sua stessa figlia, Giovannina Giordana, che avrebbe indotto cinque anni prima a diventare masca, anche lei al servizio del demone Martino.
Un rito di cannibalismo
Non è chiaro il perché della confessione: forse la donna è intimorita dalle accuse, forse desidera assecondare l’inquisitore dicendogli quello che si aspetta di sentir dire, forse spera di attenuare le sue responsabilità nell’omicidio dell’inserviente affermando di essere stata indotta da demoni a commetterlo – e dunque che la sua volontà non fosse libera. In questo, Giovanna Motossa è chiara: Martino ce l’ha particolarmente con il monastero di Santa Maria della Stella e con la sua badessa, e non ammette insubordinazioni dalla masca. Quando lei si rifiuta di entrare nelle proprietà dell’abbazia per ucciderne gli animali, racconta Giovanna, il demone la prende per i capelli e la trascina dentro. Quando non riesce a entrare in una casa piena di “cose benedette e immagini di santi” per uccidere un bambino, quello la picchia così tanto da farla star male per quattro giorni.
Martino vorrebbe che la “sua serva” uccidesse pure la badessa, nel cui convento Giovanna è stata rinchiusa dopo le prime confessioni. Le sarebbe bastato toccarla “con le mani o soffiando verso di lei”. Ma la donna si rifiuta, fa resistenza.
La linea difensiva di Giovanna Motossa, insomma, è quella: è vero, ha fatto un errore iniziale accettando di seguire il demone Martino. Ma da quel momento lui l’ha indotta con la violenza a commettere ogni tipo di crimine, omicidi compresi. Così facendo, però, la donna si trova costretta a tirare in ballo altre complici e a entrare in un vortice di auto-accuse sempre più tremende. Si arriverà al culmine due mesi dopo, il 3 dicembre 1495: in quell’occasione, la “strega” ammetterà di aver procurato la morte di un neonato di tre o quattro mesi, in compagnia di altre quattro masche. La notte seguente Giovanna e le sue compagne ne avrebbero riesumato il cadavere, poi l’avrebbero cotto nell’acqua, ne avrebbero ricavato il grasso e infine ne consumato le carni. Il grasso sarebbe stato usato per ungere un “piccolo bastone”, che Giovanna avrebbe cavalcato per recarsi nei poderi del monastero di Rifreddo.
La seconda confessione: Caterina Borrella
Caterina Borrella, vedova da un anno e mezzo, è una fornaia. Dopo la morte del marito si è ritrovata sommersa dai debiti: riesce a sopravvivere a malapena gestendo il forno di Gambasca. È lei la donna accusata di aver fatto morire il figlio di Giaffredo Moine per vendicarsi del carro di legna verde; è lei quella che avrebbe fatto morire il priore di Gambasca per un litigio sulla carne. Anche sul suo conto corrono da tempo voci secondo cui sarebbe una masca, voci che puntualmente Giovanna Motossa conferma.
E così, il 20 ottobre 1495, Caterina Borrella viene chiamata di fronte all’inquisitore per rispondere a ben nove capi d’accusa. Caterina si presenta e nega. Vengono allora riconvocati i testimoni a suo carico, che confermano le loro deposizioni; Caterina viene interrogata il 7, 9, 12 novembre e il 6 dicembre. Nel corso di questi interrogatori, confessa anche lei. Il “suo” demone non si chiama Martino, ma Costanzo. La donna lo avrebbe incontrato parecchi anni prima, quando suo marito era stato incarcerato nel monastero di Rifreddo per non aver pagato un debito contratto con un ebreo di Revello. Mentre la donna si lamentava a casa, le sarebbe apparso il demone nella forma di un bel giovane vestito di nero dalla voce roca. Le avrebbe promesso molto denaro; in cambio, lei avrebbe dovuto rinnegare il battesimo, Dio e la Vergine e sputare l’ostia consacrata quando andava a messa. La sua confessione sembra ricalcare molti dettagli forniti da Giovanna: il demone Costanzo la getta a terra per “conoscerla carnalmente”, e anche lui ha il membro “gelido come un pezzo di ghiaccio”.
Caterina Borrella ammette di aver compiuto malefici con la “società delle donne” costituita da quattro compagne di Rifreddo, quattro di Gambasca, due di Sanfront, una di “Martignana” (Martiniana Po) – tutti paesi dell’immediato circondario; ma insieme a loro ci sarebbe stato anche un misterioso forestiero. Insieme, avrebbero toccato tre bovini causandone la morte, e fatto morire il figlio di Giaffredo Moine.
Ostie profanate, magia tempestaria e salsicce umane
Anche Caterina Borrella, insomma, in breve tempo ammette tutto quello che l’inquisitore le chiede di confessare, dall’uccisione di animali a quella di bambini. Come spiega Merlo:
Nella deposizione di Caterina Borrella compaiano altri stereotipi stregoneschi: il «volo» verso i luoghi di riunione e di azione, scelti dai demoni stessi, reso possibile dalla sovrapposizione del piede delle donne sul piede dei demoni; la quercia come riferimento topico per le riunioni demoniache e stregonesche; il raccogliersi di decine di individui (quaranta o cinquanta) provenienti da località diverse per compiere i soliti riti delle «danze collettive [corrizantes]», dei rapporti sessuali con i demoni infernali e dello spregio sacrilego della croce.
La testimonianza di Caterina Borrella raggiunge l’apice il 6 dicembre 1495, quando lei e altre sue “consocie” vengono chiamate nella sala della badessa di Rifreddo e lì si abbandonano a una confessione collettiva. Raccontano che durante una messa di Pasqua hanno conservato l’ostia, sputandola nella mano. La notte successiva, sotto gli occhi estasiati dei demoni che le avevano ispirate, hanno gettato a terra le particole, le hanno sbriciolate a colpi di bastone, per poi sputarvi e orinarvi sopra. L’obiettivo del rito era quello di acquisire il potere di suscitare le tempeste: una facoltà, la cosiddetta magia tempestaria, spesso attribuita alle streghe.
Infine, le donne confermarono l’atto di antropofagia già descritto da Giovanna, anche se con qualche differenza: nell’estate di due anni prima avevano ucciso un bambino, ne avevano riesumato il cadavere, lo avevano cotto, avevano conservato il grasso per ungere i loro bastoni e della carne avevano fatto salsicce.
La strenua difesa di Caterina Bonivarda
Tra le donne inguaiate da Giovanna Motossa c’è anche Caterina Bonivarda, di Gambasca, che – a differenza delle altre – non è una povera vedova. Ha i mezzi per difendersi, un marito – Bonivardo dei Bonivardi – e un fratello pronti a dar battaglia per lei. Non è un caso, probabilmente, che il suo fascicolo sia quello più corposo dei tre conservati nell’archivio.
Le accuse contro di lei sono molte: non c’è soltanto l’uomo di Rifreddo che nel tempus gratiae ha riferito che, secondo le voci, la donna avrebbe avuto il “nefandissimo vizio della mascaria”. Giovanna aveva testimoniato di averla vista partecipare ai rituali sul greto del Po, ossia a cerimonie fatte di balli sfrenati, rapporti sessuali coi demoni e profanazione di croci buttate a terra e schiacciate coi piedi e col deretano. A lei si erano aggiunte prima la confessione di Giovannina, figlia di Giovanna e sposata con Michele Giordana; poi quelle di due altre masche di Rifreddo, Caterina Bianchetta, “altrimenti detta Cathogia” e di Giovanna della Santa, interrogate il 12 e 17 ottobre. Su di loro non è pervenuto alcun fascicolo giudiziario, ma da quello di Caterina Bonivarda sembra che avessero ammesso anche loro l’appartenenza alla fantomatica setta.
Caterina Bonivarda compare davanti all’inquisitore il 19 ottobre 1495, che la accusa di essere “eretica e apostata ossia masca da più anni”, di essersi messa al servizio di un demone, di avergli promesso obbedienza e di pagargli un tributo annuale in segno di fedeltà, infine di aver commesso malefici contro uomini e animali per compiacerlo. La donna nega ogni addebito. Ma le testimonianze sono sufficienti a farla incarcerare nel monastero di Rifreddo, anche se le viene concesso di non essere chiusa in ceppi. La donna è interrogata il 22, 23 e 27 ottobre, ma continua a negare.
Il processo a Caterina Bonivarda
L’accelerazione del processo arriva alla fine di ottobre. Giaffredo Bonetto di Revello, fratello di Caterina, la invita a confessare, pregandola fino alle lacrime: per lui è l’unico modo per ottenere l’assoluzione. Nell’interrogatorio del 27 ottobre, l’inquisitore le chiede se qualcuno l’ha sollecitata in questo senso. Caterina nega, e l’inquisitore ha dunque la prova che sta mentendo. Per lui è il momento di passare alla tortura. Invita la donna a nominare avvocati e procuratori per il suo caso; lei sceglie il fratello Giaffredo e il marito Bonivardo, che chiedono copia degli atti processuali. In tutto questo, forse, trama nell’ombra anche la badessa del monastero di Santa Maria della Stella, almeno nelle opinioni di Bonivardo, il quale dice alla moglie che sta cercando di far tutto ciò che può per “difenderla da questa reverenda badessa”.
Si arriva così al 12 novembre 1495, quando viene ascoltata come testimone Margherita Bonivardo, vicina di casa della donna, che riferisce un fatto risalente a circa due anni prima, quando una sua vacca era entrata nel prato di Bonivarda e questa l’aveva minacciata dicendo:
“Voi volete tenere vacche e porci in numero eccessivo rispetto alle vostre possibilità e a danno degli altri; ma non ne godrete di tutti”.
Due giorni dopo una scrofa di Margherita era morta cadendo da una riva, e l’imputata aveva commentato con soddisfazione la notizia. Non solo: nell’anno successivo, a Margherita erano morti quattordici o quindici maiali, colpiti da tremori. Altre testimonianze, intanto, erano arrivate a corroborare l’esistenza della setta.
Il 13 novembre 1495 Giaffredo, fratello e procuratore di Caterina, tenta la carta del vizio procedurale, sollevando obiezioni che inficerebbero il processo. Il 18 ottobre, però, il “procuratore della fede” (in pratica, l’avvocato dell’accusa) replica producendo il documento di un dottore in diritto canonico e consigliere marchionale, secondo cui l’iter è regolare.
Il processo va così avanti tra cavilli burocratici e contestazioni di forma: la difesa cerca di interessare il vicario generale della diocesi di Torino e il clero della diocesi di Saluzzo; trasferisce la procura a un notaio saluzzese, che coinvolge nel procedimento il commissario marchionale e ottiene la ripetizione degli interrogatori. Ma serve a poco.
Il 25 novembre 1495 Caterina Bonivarda, nella camera della badessa, confessa.
Un demone di nome Giorgio
Interrogata per l’ennesima volta, Caterina cede. Ammette di essere anche lei masca da quattro anni; l’incontro con il demone, per lei, sarebbe avvenuto durante il periodo della mietitura. Sola in casa e scontenta della propria vita, la donna avrebbe invocato il demonio, che le sarebbe apparso in forma di uomo vestito di nero, dalla faccia “bruna ovvero livida”. Il diavolo, di nome Giorgio, le avrebbe detto:
Non preoccuparti, perché, se accetterai di fare ciò che ti dirò, io aggiusterò ogni cosa e farò in modo che tu sarai consolata e contenta e ti darò molte ricchezze e denari.
A quel punto, riferiscono gli atti, Caterina avrebbe accettato il patto, sancito grazie a un rito sacrilego:
Fece per terra una croce con due paglie e poi pose il deretano sopra di essa, rinnegando espressamente Dio, la fede e il battesimo; e prese il detto demone in suo amante, signore e maestro, promettendo di servirlo e di obbedirgli e di dargli ogni anno un pollo bianco.
Al rito avrebbe fatto seguito un rapporto sessuale (a parte posteriori, in vase tamen naturali). Come nei casi precedenti, le carte del processo ci tengono a far sapere che la donna non ne aveva avuto alcun piacere, perché “il demone aveva un membro virile molto freddo e dissimile da quello degli altri uomini”. Da quel momento, sarebbe iniziato il sodalizio tra Caterina e Giorgio, fatto di rapporti carnali di giorno, di solito il giovedì, e di scorribande sui greti del Po e nei crocicchi dei forni di Rifreddo di notte, in compagnia delle altre masche.
Rea confessa, Caterina viene rimessa al braccio secolare: non tanto per l’ammissione in sé, ma per l’ostinazione iniziale a negare e per aver violato il giuramento di dire tutta la verità all’inquisitore. Alla difesa di Bonivarda rimane poco da fare: sul piano canonico lei è ormai eretica e apostata, ma si cerca di evitarne la pena capitale. Il suo procuratore cita una serie di attenuanti: Caterina Bonivarda ha confessato spontaneamente e liberamente, ha chiesto perdono ed espresso il desiderio di abiurare ogni eresia, rientrando nella santa Chiesa. Inoltre, va considerata la fragilità della donna, che è stata insidiata e convinta in modo violento dal demone.
Condannate a morte?
Si arriva infine al 6 dicembre 1495, il giorno della grande confessione collettiva. Convocata con le altre accusate, Caterina ammette di aver preso parte al rito antropofago e alla profanazione delle ostie. Rivela anche di aver nascosto nel pagliericcio del letto un “bastone della grossezza di un pollice e della lunghezza di circa un raso” (circa 60 centimetri), ricevuto dal suo maestro: è quello che viene cosparso di unguento di bambino e “cavalcato” per volare.
A questo punto, non c’è più niente da fare. Il 7 dicembre 1495 l’accusa sostiene l’impossibilità di assolvere Caterina: la sua confessione non deriva da vera fede, ma dalla paura della detenzione e delle prove. È dunque da considerarsi un’eretica impenitente, da punire “secondo le leggi imperiali”. Le leggi in questione erano state emanate nel XIII secolo dall’imperatore Federico II, e prevedevano la pena di morte per gli eretici.
Lo stesso 7 dicembre, l’inquisitore avvisa che la sentenza sarebbe stata emessa giovedì 10 dicembre. Altro non sappiamo. Il fascicolo giudiziario si conclude con una nota:
Vedi la definitiva sentenza di condanna contro la stessa Caterina e le altre nel processo di Margherita Giordana, altrimenti detta di Marco, di Rifreddo.
Da questo sembra plausibile che Caterina Bonivarda, con le altre accusate, sia stata giudicata eretica, masca e apostata. Altre otto donne furono verosimilmente condannate con lei, e dunque affidate al braccio secolare per l’esecuzione.
Negli ultimi quindici anni le streghe di Rifreddo e Gambasca sono state riscoperte dalla cultura popolare. Ogni anno, ad ottobre, il paesino di Rifreddo promuove attività ludico-creative per bambini e camminate con animazioni teatrali, letture e conferenze a tema stregonesco. L’edizione 2023 prevedeva passeggiate naturalistiche alla ricerca delle erbe “magiche” della zona – anche se lo stereotipo della strega come donna sapiente che cura con le erbe è forse quanto più di lontano potesse esserci da Caterina Bonivarda e dalle sue compagne di sventura.
Sul loro conto, rimangono interrogativi ormai impossibili da sciogliere. Furono davvero giustiziate? Da cosa dipesero le loro confessioni? Furono frutto di tortura, di pressioni psicologiche, o semplicemente le imputate si adeguarono al ruolo che la società aveva scelto per loro? Perché l’inquisitore Vito dei Beggiami giunse a Rifreddo? Fu la badessa di Santa Maria della Stella a sollecitarne l’intervento, in seguito alla morte della sua inserviente? E ci furono altre vittime, oltre alle nove donne menzionate? Della loro storia rimane poco: tre fascicoli giudiziari in un archivio storico, che spiegano molto di quello che pensavano gli inquisitori, delle loro paure e fantasie sulle streghe. Che cosa pensassero davvero le imputate, invece, è ormai impossibile saperlo.
Si ringrazia Andrea Ferrero per la revisione del testo. Immagine da “Le Champion des Dames” di Martin le Franc, 1440, digitalizzato su Gallica, pubblico dominio