Misteri vintage

Guglielmo Marconi e il raggio della morte: una storia italiana

di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Il mito del “raggio della morte” comparve nelle sue prime forme negli anni ‘70 dell’Ottocento. Fu il prodotto di molte cose, ma prima di tutto di due avanzamenti scientifici senza pari: l’utilizzo efficiente della corrente elettrica, con la sua rapida applicazione in ambiti molto diversi, e, più tardi, l’invenzione delle radiocomunicazioni, cioè la possibilità di trasmettere informazioni, e la voce umana, senza bisogno di fili elettrici. 

Il “raggio della morte” è un’arma segreta, ultramoderna, pensata da qualche governo nemico, dal proprio o da inventori che lavorano nell’ombra. Serve per uccidere a distanza i soldati avversari, per far esplodere le munizioni nei loro depositi, per spegnere i motori delle navi e degli aerei, per rendere inefficiente qualsiasi apparato. 

Questo mito, la cui potenza raggiungerà il picco fra le due guerre mondiali, ha mille varianti, ma due sono le versioni principali, molto diverse tra loro. In molte occasioni, l’invenzione ha un intento “patriottico”: il “raggio” è nostro, e servirà a far trionfare la nostra patria nella prossima guerra (o i nostri nemici, si dice con paura). In altri racconti, invece, ha un’intenzione “pacifista”: il raggio della morte è un’arma talmente letale da rendere impossibile qualsiasi conflitto, in futuro. Due potenze contrapposte, usandolo, si distruggerebbero a vicenda. 

Negli ottant’anni che precedono la fine della Seconda Guerra Mondiale comparvero nel mondo centinaia di storie sul “raggio” e sui suoi inventori. Nessuno, finora, le ha mai recuperate tutte e studiate, ma c’è un volume indispensabile per chi vuole orientarsi in questa lunga storia affascinante: Death Rays and the Popular Media, 1876-1939, opera di William J. Fanning uscita nel 2015 negli Stati Uniti. 

L’Italia non fa eccezione: anche da noi, decine di persone promossero in prima persona questo mito, e di un paio ci siamo già occupati: Giulio Ulivi e Zbigniew Dunikowski. Tuttavia, nessun altro personaggio coinvolto in questa leggenda è paragonabile a quello di cui oggi ci occuperemo a fondo: Guglielmo Marconi, colui che, con le sue sperimentazioni e intuizioni tecniche, è all’origine delle telecomunicazioni. Uno dei grandi inventori del mondo contemporaneo, ma anche uno dei personaggi più celebrati nella storia del nostro paese. Il 25 aprile di quest’anno è stato il 150° anniversario della sua nascita, e le commemorazioni e i convegni si sono sprecati. In diverse occasioni, nel corso del 2024, Marconi è stato associato al mito del “raggio”, a testimonianza del fatto che nella memoria degli italiani questa storia è ancora presente. Cercheremo adesso di capire come nacque, quali significati assunse, e perché non è ancora del tutto dimenticata. 

I raggi del consenso: Marconi mussolineo

Marconi non fu soltanto oggetto e vittima delle dicerie sul raggio della morte, come si potrebbe pensare a un primo sguardo. Con quelle voci ci flirtò, propenso com’era al rapporto coi media internazionali e alla promozione delle sue attività industriali. 

Marconi esplorò strade molto diverse, per far avanzare le telecomunicazioni. L’utilizzo delle alte frequenze elettromagnetiche era ai suoi esordi. Lo stesso termine che oggi le designa, microonde, fu coniato nel 1932 dall’ingegner Nello Carrara (1900-1993), uno dei padri del radar. I primi passi nell’impiego di onde con frequenze superiori a 1 GHz si dovettero a lui, più che a Marconi. Ma la popolarità di quest’ultimo era senza paragoni, come anche lo era la sua sagacia industriale. Per questo, alla fine del 1931, sulla stampa inglese fece la sua comparsa una prima serie di sue dichiarazioni, con le quali accennava al fatto che, forse, con frequenze così alte si sarebbe potuto scaldare il clima inglese, e far fiorire le regioni artiche, visto che producevano calore. Gli ingegneri che studiavano questi fenomeni erano riusciti a “cuocere” uccellini e topi: per questo, lui stesso non escludeva la possibilità di lavorare a qualcosa come un “raggio della morte”, prima o poi; per lui il principio sarebbe stato proprio quello delle microonde… 

L’11 dicembre 1931, un dispaccio dell’agenzia International News Service dalla capitale britannica, un’agenzia di stampa fra le maggiori del tempo, rilanciò nel mondo quelle parole. Non si trattava né di studi davvero in corso, e ancor meno di sperimentazioni di qualche apparato concretamente progettato, ma quelle affermazioni (chiameremo questa prima versione della nostra storia Microonde 1931) non furono più dimenticate. Tre anni e mezzo più tardi, quando i tempi furono maturi, esplosero e diedero origine alla versione standard del nostro mito, quella diventata immortale. 

A dire il vero, sembrerebbe che già agli inizi della Prima Guerra Mondiale si fosse parlato di un raggio basato “sulle onde hertziane”, messo da Marconi a disposizione delle autorità: ne accenna Bartolomeo Vassalini nel 1933 nelle sue Postille in margine alla Grande Guerra (Cabianca, Verona, p. 84), in cui si occupava di voci, leggende e false notizie del primo conflitto mondiale. A parte queste due apparizioni della leggenda (le note di Vassallini e le vaghe ipotesi rilanciate alla fine del 1931 dalla International News Service), ormai siamo certi, grazie a fonti disponibili presso l’Archivio Centrale dello Stato, che la storia del raggio della morte Marconi circolava in Italia già dal 1930.

Questa variante della vicenda, che poi è quella che di solito s’incontra anche oggi, diventò davvero popolare poco più di due anni prima della morte improvvisa di Marconi. Per comodità, la chiameremo Ostia 1935, anche se – come detto – alcuni suoi elementi narrativi fondamentali esistevano almeno da cinque anni.

Dunque, a metà maggio del 1935, sui giornali di parecchie parti del mondo (ma, a quanto pare, nell’immediato non su quelli italiani) cominciò a circolare una notizia che di solito aveva un tenore di questo tipo. Pochi giorni prima, si diceva, Marconi aveva compiuto dei misteriosi esperimenti in una zona di Roma a quel tempo ancora non urbanizzata, cioè il Forte Boccea, una struttura militare costruita negli anni ‘80 dell’Ottocento, nel suburbio Aurelio. Questi esperimenti erano avvenuti alla presenza dello stesso Mussolini e di alti ufficiali delle forze armate, in particolare di quelli del Genio. La stampa straniera riferiva anche di un “comunicato ufficiale”, che però non aveva rivelato la natura dei “misteriosi esperimenti”. C’erano però voci che correvano, al riguardo. I motori di parecchie automobili che si trovavano lungo la strada fra Roma e Ostia (presumibilmente la via del Mare, allora inaugurata da pochi anni), per un tratto di un chilometro e mezzo circa, si erano spenti di colpo senza motivo apparente, e senza che nessuno riuscisse a rimetterli in moto. Dopo una mezz’oretta, erano tutti ripartiti senza nessuna difficoltà. Marconi, questa la conclusione, doveva aver inventato un raggio in grado di mettere fuori uso i sistemi di accensione elettrica a grande distanza. Un uomo vicino all’inventore avrebbe contribuito a rafforzare la storia raccontando a un giornalista inglese che Marconi faceva da tempo esperimenti con le microonde, e che lui stesso non sapeva che cosa sarebbe successo, una volta che se ne fossero visti tutti gli effetti. Insomma, quello di Forte Boccea sarebbe stato quasi un effetto involontario, stando a questa indiscrezione.

Dal 15 maggio 1935 la storia apparve un po’ dappertutto (esempi di un elenco interminabile: South Wales Evening Post, Galles, Liverpool Echo, Inghilterra, The Sun, Australia, 15 maggio; Edinburgh Evening News, Scozia, The Courier-Mail, Australia, 16 maggio; Leicester Evening Mail, Inghilterra, The Courier and Advertiser, Australia, 17 maggio; Sunday Pictorial, Londra, 26 maggio; Sunday Mercury, Inghilterra, 9 giugno; Evening Post, 27 giugno; Truth, Australia, 30 giugno).

Non dimentichiamolo: il successo planetario della versione “Ostia 1935” della leggenda va letta prima di tutto come un effetto sull’opinione pubblica della propaganda fascista, volta a preparare gli italiani e il mondo all’aggressione imminente contro l’Etiopia. Il clima era quello dell’imminenza di un conflitto, le cui conseguenze erano difficili da prevedere. In realtà, sanzioni economiche a parte, la guerra mossa da Mussolini al Negus d’Etiopia fu solo una della lunga serie di violazioni del diritto internazionale che le dittature fasciste, nazista e sovietica misero in atto fra il 1935 e il 1940. Sino all’attacco alla Polonia, che il 1° settembre del 1939 aprì la Seconda Guerra Mondiale, tutti sopportarono o chiusero gli occhi. È in questo clima che, nell’estate del 1935, si devono interpretare altre dicerie sulle capacità militari italiane. Il 27 agosto, il quotidiano statunitense Baltimora Sun raccontò che la sera prima una parte della popolazione del Maryland era rimasta a osservare strane luci visibili contro il soffitto di nubi. Probabilmente si trattava di riflessi di qualche fonte luminosa, ma, fra le altre possibilità, ci fu chi pensò a un raggio della morte, e magari a luci proiettate da navi militari italiane che solcavano il Mediterraneo! Malgrado il contenuto del tutto ingenuo, una voce che dà da riflettere: gli italiani, la cui marina era in quegli anni fra le più potenti del mondo, forse erano in grado di far giungere quelle luci sino al cielo di Baltimora!

Il “Sunday Journal and Star”, quotidiano di Lincoln, Nebraska, il 27 ottobre 1935 dedicò ampio spazio alle voci sul “raggio Marconi”.

Solo a metà del 1935 ci furono mezze smentite della leggenda da parte di Marconi – ma anche molte grandi ambiguità, attraverso altre dichiarazioni rese alla stampa. Il 25 giugno, in un’intervista al Daily Herald, datata da Londra e ripresa giorni dopo anche in Italia (Gazzetta di Venezia del 29), disse di non essere interessato a “raggi” per fermare i motori, e comunque, che se una cosa del genere sarebbe stata possibile, per rimediare una buona schermatura dei motori sarebbe stata sufficiente. Più tardi, il 24 luglio, un dispaccio da Londra dell’International News Service confermava che lo scienziato non era interessato a cose come il raggio della morte. Marconi ripeteva che altri – non lui – avrebbero potuto tentare qualcosa del genere, magari per impedire il meccanismo d’accensione delle auto, ma che con le schermature si sarebbe eliminato il problema. Insomma, un Marconi che prendeva le distanze dalla storia sul suo conto, ma non perché fosse impossibile il raggio della morte, ma perché non gli interessava quella possibilità.

Il 28 agosto, in più, la United Press riferiva da Washington lo sconcerto di alcuni ingegneri delle telecomunicazioni. Non capivano bene come uno studioso come Marconi potesse far eco a storie di quel genere, a meno che non fosse in grado di sostanziarle con qualcosa (Indianapolis Times, Stati Uniti, 29 agosto). 

Nel frattempo, però, era scoppiata la seconda bomba. Mercoledì 28 agosto, Marconi si trovava a Santa Margherita Ligure; da lì, non prima di aver fatto un viaggio in Brasile, lo scienziato attendeva di imbarcarsi con il Genio militare per l’Eritrea. Nella colonia, ormai l’ammassamento delle forze destinate ad attaccare l’Etiopia era quasi completato. In quella circostanza Marconi avrebbe parlato con un gruppo di giornalisti e dichiarato alla branca britannica della United Press che gli esperimenti per fermare i motori degli aerei e delle navi erano in una fase avanzata; secondo le indiscrezioni, lui stesso aveva informato il re della cosa. Stando al dispaccio, Marconi avrebbe sostenuto che questa possibilità era dovuta alle capacità che ben presto avrebbero offerto le microonde (Indianapolis Times, The Corona Daily Indipendent, Stati Uniti, 28 agosto, Daily Herald, Inghilterra, 29 agosto; Edinburgh Daily News, Scozia, 30 agosto). 

Ora, la cosa che colpisce è questa. La stampa italiana usò tutt’altri toni, per riferire quello che Marconi aveva detto il 28 agosto del 1935. La Stampa della Sera di Torino, già prima di cena scrisse da Genova che, riguardo alle notizie “sensazionalistiche” che circolavano da mesi (la versione “Ostia 1935” era menzionata in modo esplicito) e ad altri lavori di Marconi volti a costruire apparati per “fermare gli aeroplani in volo”, dopo aver parlato con sufficiente chiarezza dei primi tentativi col radar, lo scienziato aveva sì confermato i suoi esperimento con le microonde, ma circa “esperienze di carattere segreto” si era tenuto sul misterioso, parlandone in questi termini:

Il senatore ha risposto che per ora non vi è nulla da dire. Il lavoro procede attivamente e qualche cosa c’è già, ma se ne parlerà soltanto dopo che egli avrà terminato e provato tutto e avrà preso i brevetti necessari. 

Il 19 settembre 1935 il corrispondente da Roma del quotidiano parigino L’Intransigeant se ne uscì con un’altra intervista fatta di persona a Marconi. In partenza per il Brasile, gli aveva chiesto della voce sui motori fermati a Ostia. Quello aveva riso di cuore, dicendo che aveva fatto agitare un sacco di gente, ma che lui non aveva inventato nessun raggio della morte. Ma si manteneva la sottile ambiguità: alla domanda se in Abissinia (la guerra sarebbe iniziata il 3 ottobre) sarebbero state utilizzate le “sue esperienze”, rispose che lo sperava, e che la cosa era voluta dallo stesso Mussolini. Si riferiva a radar e telecomunicazioni avanzate, ma proprio lì si vede il punto fondamentale della leggenda “Ostia 1935” e del suo seguito: la sovrapposizione/confusione fra quegli studi e l’idea che potessero essere in realtà nuove, potentissime armi – una sovrapposizione sfruttata più o meno consapevolmente dai giornali italiani (esempio: Gazzetta d’Asti, 27 settembre 1935) e dalla stampa internazionale. Marconi concluse la sua intervista con il giornalista francese chiedendogli di aspettare quindici giorni prima di pubblicare le sue parole: forse gli avrebbe detto “qualcosa di più”. Non accade nulla, e il 19 del mese il contenuto del colloquio fu reso pubblico.

Oggi sappiamo che la storia “Ostia 1935” prese a circolare in pompa magna il 14 maggio di quell’anno, quando il corrispondente romano del quotidiano londinese Daily Mail le diede per primo forma scritta. Riteniamo plausibile che, in un senso che va spiegato subito, la stampa italiana contribuì a farla nascere – ma in modo indiretto. In altri termini, non ci sono prove che la storia sia stata creata a tavolino. Il punto, però, è che gli esperimenti sulle onde ad alta frequenza da utilizzare per individuare aerei, navi e mezzi nemici fatti a Forte Boccea furono strombazzati quel giorno in prima pagina dai quotidiani italiani. A parte Mussolini, vi presenziò, fra gli altri, il generale di corpo d’armata Federico Baistrocchi (1871-1947), capo di stato maggiore del Regio Esercito e principale riorganizzatore delle forze italiane di terra negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale. Insieme a lui, diversi ammiragli e alti ufficiali della Regia Aeronautica, oltre che il tenente generale Giuseppe Guasco, del Genio. I dettagli della giornata furono raccontati dal tenente colonnello Fernando Pouget, anche lui del Genio militare e pure lui presente agli esperimenti, soltanto molti anni dopo, con un dettagliato articolo apparso sul settimanale Candido del 1° maggio 1960 (pure Pouget ne approfittava per smentire la leggenda). Naturalmente, nel 1935 la natura esatta dei test non fu resa pubblica dalla stampa. Tutto, insomma, congiurava alla perfezione verso una tempesta perfetta. 

“The American Weekly”, 15 dicembre 1935.

Molti anni dopo, nel 1973, in un suo volume sulle intercettazioni telefoniche sotto il fascismo (L’orecchio del regime, Mursia, pp. 131-2), Ugo Guspini scrisse che molti addetti all’ascolto telefonico del Servizio speciale riservato della Presidenza del Consiglio avevano sentito abitanti della zona di Ostia raccontare, nelle telefonate intercettate, dei supposti problemi ai motori nella zona di Ostia e pure la diceria delle pecore stramazzate, ma la notizia va presa con prudenza: Guspini non citava nessun documento, a sostegno della notizia.

C’è un’altra piega insolita, in questa storia. Il 16 maggio del 1937 la corrispondente da Roma del quotidiano londinese Daily Express, la scrittrice e giornalista italo-inglese Lisa Sergio (1905-1989), amica di famiglia di Marconi, che nei giorni aveva intervistato lo studioso chiedendogli ancora della storia del raggio, fece uscire sul suo quotidiano e su quelli del gruppo Hearst l’esito del colloquio. Ennesima smentita, anche se Marconi, di nuovo in toni misteriosi, diceva che, emettendo certe frequenze, aveva ucciso un topolino posto a poche decine di centimetri dall’apparato; affermò però di aver poi lasciato stare quegli studi. Si trattava di un altro evidente uso delle microonde e di uno dei primi tentativi di capirne gli effetti nocivi, ma la dichiarazione si trasformò in un’altra occasione per rilanciare la nostra leggenda in mezzo mondo via agenzie di stampa, e, negli Stati Uniti, tramite il gruppo Hearst, potentissimo. Il 17 maggio la riprese senza problemi anche lo stesso quotidiano del Partito fascista, Il Popolo d’Italia. A dire il vero, almeno stando al testo originale della trascrizione del colloquio, conservata presso gli archivi dell’Accademia dei Lincei, Marconi avrebbe risposto in maniera ancora più secca alla domanda se nella faccenda del “raggio” ci fosse qualcosa di vero – con un semplice e perentorio no. 

Comunque sia, poco tempo dopo Sergio, forse stanca del legame con il fascismo e della sua propaganda all’estero, facilitata dalla perfetta conoscenza dell’inglese fuggì in America su un transatlantico in partenza da Napoli, non è chiaro se facilitata dallo stesso Marconi (sulla complessa figura di questa donna c’è un volume importante dello storico Sandro Gerbi: La voce d’oro di Mussolini, Neri Pozza, 2021). 

Giancarlo Masini (1928-2003), chimico e fra i padri del giornalismo scientifico italiano, è nel novero di quelli che hanno sostenuto la tesi della volontarietà del regime fascista nella diffusione delle dicerie sull’inesistente “raggio”. Lo ha fatto in particolare in un notevole lavoro biografico, Guglielmo Marconi (UTET, 1973, pp. 418-21), sostenendo che Mussolini, dopo le sperimentazioni sul radar della primavera 1935, avrebbe fatto artatamente trapelare la falsa notizia del “raggio”, della cui diffusione si sarebbe incaricata l’OVRA, la polizia politica del regime. In questo modo, da una parte ci sarebbero state le smentite ufficiali della storia, dall’altra le finte indiscrezioni da far giungere all’estero, i trafiletti da far pubblicare sui giornali, e così via, in modo da creare un clima di mistero e d’incertezza. Il guaio è che Masini non presenta al riguardo nessuna fonte, né noi, almeno su questa presunta azione coordinata, ne conosciamo alcuna. Eppure, di fonti d’archivio, ormai, ne abbiamo una discreta quantità. Le presentiamo qui di seguito.

Il “raggio Marconi” e la polizia politica fascista: che cosa dicono le carte d’archivio? 

A parte qualche altro cenno che si deve a storici come Giovanni Paoloni, dell’Università Roma-La Sapienza, è noto da diversi anni che presso l’Archivio Centrale dello Stato sono consultabili documenti di epoca fascista relativi alle storie che circolavano circa Marconi e il suo fantastico raggio. Lo sappiamo grazie alle citazioni che ne fa lo storico canadese Marc Raboy, probabilmente il maggior biografo di Marconi. È stato Raboy che ne ha fatto uso in pagine sparse della sua biografia Marconi: l’uomo che ha connesso il mondo, tradotto nel 2024, per il 150° della nascita dell’inventore (l’originale è uscito nel 2016 come The Man Who Networked the World). 

Il fascicolo relativo a Marconi conservato a Roma presso l’Archivio Centrale dello Stato (ACS) contiene davvero parecchio materiale sulla leggenda del “raggio”. Le cose che ci riguardano si trovano alla collocazione Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia Politica, Fascicoli Personali, Serie A 1927–1944, b. 60/a, fascicolo Guglielmo Marconi.

Noi non ci siamo accontentati delle menzioni fatte da Raboy. Nell’estate del 2024 lo studioso Roberto Labanti ha potuto consultare di persona quelle carte. Dunque, è soltanto grazie a Labanti se qui siamo in grado di raccontare con precisione, per la prima volta, il contenuto di dettaglio di quei documenti, in sostanza costituiti da brevi relazioni inviate dagli informatori (i “fiduciari”) dell’OVRA da un gran numero di località italiane e, in qualche caso, da città estere.

Sempre grazie a Labanti sappiamo altre cose. Roberto ha fatto un lavoro di comparazione tra le informazioni presenti in due fonti relative alla storia della Polizia politica fascista. La prima il volume di Mimmo Franzinelli I tentacoli dell’OVRA (Bollati Boringhieri, ed. 2020), il secondo, il lavoro di Mauro Canali Le spie del regime (Il Mulino, 2004). Insieme, ricostruiscono l’identità di molti degli informatori della polizia politica della dittatura, i cui nomi, anche nel caso di buona parte dei documenti che ci riguardano, sono indicati con dei semplici numeri. Chi corrispondeva a quei numeri oggi lo sappiamo dal lavoro degli storici. Labanti ha messo insieme i dati  sull’identità dei “fiduciari” che produssero notizie sulle voci riguardanti il “raggio”.  

In questo modo, sappiamo che alcuni degli informatori operavano in ambienti socialmente elevati. Alcuni, per esempio (non i più significativi, a dire il vero) giunsero dal gruppo di spie che faceva capo alla fiorentina Bice Pupeschi, che operava a Roma con ampi mezzi economici, visto pure che era l’amante di Arturo Bocchini, cioè del capo della Polizia e creatore della stessa OVRA (Franzinelli, pp. 254-60). Altri informatori di rilievo furono il giornalista Filippo Tempera, direttore del settimanale satirico romano Don Chisciotte e lo psichiatra di origine russa Michele Kobylinski, spia di lunga data per le autorità italiane, a un certo punto compilatore della rassegna stampa estera che veniva passata a Mussolini. 

Cerchiamo dunque di capire le cose più interessanti per noi tra la quarantina di pagine sul “raggio”.

La prima scoperta, quella che vi avevamo anticipato sopra, è che le voci sul raggio Marconi c’erano già almeno dalla primavera del 1930. Non solo: probabilmente circolavano già in ambienti stranieri. 

In quel periodo, infatti, all’ambasciata di Francia si diceva che lo scienziato, negli ultimi esperimenti, aveva provato un’arma per “esplosioni a distanza” (un informatore da Genova, 27.3.1930). Poco dopo, la leggenda era già ricca di nuovi, emozionanti dettagli: non solo c’era un’arma “magnetica” in grado di fermare i motori degli aerei che era stata provata a La Spezia, ma anche un’altra arma… in grado di annullare gli effetti della prima, dunque di farli ripartire come per magia! (Roma, 2.4.1930). Se queste armi esistono davvero, aggiungevano altri, di sicuro Marconi doveva averne informato il Duce (Roma, 20.7.1930). Alcuni, però, erano meno benevoli con l’inventore: sempre all’ambasciata francese, si ipotizzavano legami fra Marconi e le autorità britanniche, riguardo a questi esperimenti (Roma, 16.4.1930) – un tema, quello della possibile slealtà di Marconi, che torna più volte nella sua biografia, e anche nella nostra storia.

A parte la conferma dell’esistenza della leggenda almeno cinque anni prima dell’esplosione generale dell’estate 1935, c’è un’altra scoperta che dà la misura di quanto questi racconti fossero già strutturati. La versione principale del mito, quella che abbiamo chiamato “Ostia 1935”, c’era già da parecchio

Lo testimonia un informatore che il 10 novembre 1930 riferisce da Roma in questi termini:

Si dice che il senatore Guglielmo Marconi abbia dimostrato di poter trasmettere l’energia elettrica in linea retta; che abbia fatto esperimenti contro un gruppo di pecore, a grande distanza, e che le pecore siano state carbonizzate; che è stato ripetuto l’esperimento contro un aeroplano e l’effetto è stato identico. 

Abbiamo perciò chiamato questa prima, fondamentale forma della nostra storia, quella che “prepara” la narrazione prevalente, cioè quella dell’esperimento di Ostia, con il nome un po’ ridicolo di Pecore 1930. Lo abbiamo scelto perché contiene gli elementi portanti della diceria ma, al contrario di altre, non dice dove l’episodio si sarebbe verificato.

Nel frattempo, però, le voci avevano investito la stessa carriera personale di Marconi. Lo scienziato fu nominato da Mussolini presidente dell’Accademia d’Italia, una delle massime istituzioni culturali del fascismo, il 19 settembre del 1930. Ebbene, un’informativa del 1° gennaio del 1933, da Vicenza, riportava le dicerie per la quali la scelta era stata voluta dal Duce proprio a causa della nuova arma, capace di distruggere tutto a distanza. 

Documenti di minore originalità si succedono per tutto il 1933 e per il 1934. Il 10 luglio di quell’anno, da Milano, qualcuno sostiene che il Duce segua personalmente le prove per l’immobilizzazione a distanza dei mezzi nemici. Ma c’è anche chi è scettico. Da Roma, il 1° dicembre del 1934, un informatore che ha origliato una conversazione fra tedeschi in un albergo, sente che per molti, in Germania, le “nuove scoperte” di Marconi sarebbero soltanto un bluff; e che, quanto alle cose più serie del suo lavoro, sarebbero invece già note da tempo agli studiosi di vari paesi.

Questi documenti relativi al periodo 1930-34 sono preziosissimi. Indicano come, mentre la stampa discuteva poco o niente dell’arma “magnetica” di Marconi, in realtà gli italiani (e anche gli stranieri) in privato ne parlavano eccome, fra di loro, secondo linee e intenzioni diverse.

La seconda parte cronologica delle fonti provenienti dall’Archivio Centrale dello Stato copre il periodo 1935-1936, ed è quella in cui, come ormai sappiamo, la storia esplode ed ha al centro il racconto delle pecore bruciacchiate a Ostia, per poi, come vedremo, assumere natura ancora più fantastica.

Come visto, la storia dell’esperimento di Ostia fece il botto a metà maggio 1935 a partire dalla stampa inglese. 

Invece, le fonti presenti presso l’ACS, anche stavolta preziosissime, ci raccontano in maniera ben più solida un altro versante della leggenda, cioè l’entusiasmo di molti italiani per l’imminente guerra contro l’Etiopia (inizierà il 3 ottobre di quell’anno) e le aspettative per una rapida vittoria. Queste aspettative si sovrappongono al mito del raggio Marconi.

Così, il 16 agosto di quell’anno, da Roma si riferiscono voci speranzose per il prossimo uso del raggio della morte e di altri sistemi marconiani per rendere inerti i proiettili delle mitragliatrici – tutti mezzi provati alla presenza del Duce. Il 12 settembre invece, stavolta da Gorizia, si racconta di esperimenti col “raggio” fatti a Roma e a Marina di Pisa; Mussolini è presente, ma, come cinque anni prima, col retropensiero ai rapporti “sospetti” di Marconi con la Gran Bretagna (e, stavolta, l’informatore è un personaggio peculiare: Carlo Hakim De’ Medici, scrittore, illustratore e occultista). 

Lo stesso giorno, le speranze per l’uso del raggio si accompagnano ad un’altra, significativa preoccupazione. Questa volta da Genova, un confidente scrive che se l’invenzione del raggio della morte non è vera, probabilmente il morale, dopo l’inizio della guerra con l’Etiopia, crollerà. Su questa linea anche le dicerie immediatamente successive: il 24 ottobre, da Roma, con l’attacco iniziato e senza notizie sul raggio, si sussurra che uno stretto collaboratore di Marconi sia stato fucilato per aver dato un’arma misteriosa a una potenza straniera; il 14 dicembre, da Parigi, torna la versione del Marconi colluso con gli inglesi: fa esperimenti con il raggio, si dice, per la loro marina, in Scozia. E poi, magari, il raggio non esiste neppure: l’inventore straparla di quelle cose soltanto perché è in gravi condizioni di salute (Genova, 2.1.1936).

Insieme ad altre voci ambigue sullo scienziato nella parte finale del 1935, queste storie sono la spia dell’incertezza degli italiani, fascisti contenti per la guerra che ci darà l’Impero in Africa orientale, ma timorosi, visto che la super arma risolutiva, ovviamente, latita.

Non deve perciò apparire paradossale che, subito dopo questo parossismo di voci dubbiose sul perché l’ordigno di cui si parla dappertutto da mesi non venga usato contro gli etiopi, ne siano comparse altre di senso opposto, e assai più estreme delle precedenti circa l’esistenza del raggio. Non solo esiste, ma… è anche stato già usato!

Il misterioso “triangolo Marconi” 

Il 31 dicembre 1935, mentre la guerra in Etiopia era in pieno svolgimento, poco al largo di Alessandria d’Egitto si verificò un grave incidente aereo. Un idrovolante trimotore Short S.8 Calcutta della compagnia aerea britannica Imperial Airways subì un guasto gravissimo: tutti i motori si spensero e il velivolo precipitò in mare. Delle tredici persone a bordo si salvò soltanto il pilota. L’indagine del Ministero dell’Aviazione britannica accertò che un’improvvida modifica dei carburatori aveva fatto aumentare in modo fortissimo il consumo di carburante, causando la caduta dell’idrovolante. 

La notizia dell’incidente fece scalpore anche in Italia, e diventò quasi subito oggetto di voci con al centro il raggio Marconi. 

A riprova del fatto che la nostra leggenda era al massimo della sua capacità generatrice stanno due informative provenienti da Napoli e da Roma, a un solo giorno di distanza l’una dall’altra, il 7 e l’8 gennaio del 1936. Secondo il primo documento, contro l’idrovolante erano stati applicati da parte della difesa antiaerea “alcuni raggi” scoperti dallo scienziato, capaci di spegnerne i motori. Per il secondo, si stava “sempre più diffondendo la voce” per la quale era stata provata “la famosa scoperta di Marconi”, tanto più che i tre motori si erano arrestati in contemporanea. Dunque, il raggio era già stato usato contro gli inglesi! 

Abbiamo chiamato la vicenda dell’uso diretto del raggio della morte contro l’Imperial Airways con il nomignolo Alessandria 1936.

Tuttavia, il vertice del fantastico non è questo. Il 23 marzo del 1937, da Bari, un altro confidente della polizia politica fascista, Ernesto Simini (anche se questa identificazione è incerta: potrebbe trattarsi del fratello Gennaro), la cui famiglia aveva da molto tempo stretti rapporti con l’Albania, scriveva quanto gli aveva riferito in quella città un ex-deputato del Regno d’Albania, Nikola Deda. Negli ambienti inglesi della capitale albanese, Tirana, c’era un vero terrore per il raggio Marconi. La sua “corrente” poteva distruggere aerei, navi, uomini, tanto che aerei inglesi e francesi e di altre nazionalità erano caduti per causa dell’arma italiana, e probabilmente allo stesso motivo dovevano attribuirsi alcune morti avvenute in Belgio e altrove.

Non basta? Ecco il vero culmine. Il raggio della morte Marconi era in grado di distruggere tutto in un’area vastissima compresa entro un triangolo i cui “poli” erano le città di Genova (dove Marconi lavorava spesso), Rio de Janeiro (anche lì Marconi era di casa) e Massaua, il porto eritreo allora parte della colonia italiana.

Nella sua fantasmagoria entusiasta, questa fantasia (chiamiamola Triangolo 1937) è una scoperta di rilievo. Si pone a metà strada fra la narrativa popolare ottocentesca sul satanismo, sulla massoneria e sulla loro geografia malvagia, e le versioni dell’ultima parte del Novecento sui vari “triangoli” del male, da quello satanico Torino-Lione-Praga a quello delle Bermuda, l’area che inghiottirebbe misteriosamente navi e aerei: una leggenda che, per certi versi, il “triangolo Marconi” del 1937 sembra anticipare. 

I fogli che raccontano questa storia recano anche l’annotazione a matita “Data copia al S.I.M.”. In altri termini, la confidenza fu passata al Servizio Informazioni Militare, i servizi segreti delle Forze armate del tempo. Perché la cosa sia stata fatta è impossibile a dirsi. Visto che i rapporti fra il SIM e Marconi sono documentati, – ipotizza ancora Roberto Labanti – non è fuori luogo pensare che anche sulla storia del “raggio” il SIM possa aver creato un suo fascicolo – ma non ne sappiamo di più, per ora.

Eppure, ci sono ancora altri elementi delle varie versioni della leggenda del “raggio” che emergeranno meglio in seguito, ma le cui tracce sono già nel fascicolo Marconi dell’Archivio Centrale dello Stato. Riguardano in particolare i due anni successivi alla morte dello scienziato.

Che fine hanno fatto Marconi e il suo raggio? Ancora gli archivi!

Marconi morì a Roma per i problemi cardiaci di cui soffriva da anni nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1937. Il cordoglio degli italiani e del regime fu enorme. L’Italia aveva perso uno dei suoi uomini più noti, e la dittatura uno dei suoi fiori all’occhiello. 

La morte dello scienziato scatenò immediatamente una tempesta di voci, subito registrate dalla polizia politica. Diverse toccano il nostro argomento. Appena tre giorni dopo la scomparsa di Marconi, da Napoli, i primi commenti: il pubblico è preoccupato e addolorato per la sua morte, anche perché così non potrà più mettere a disposizione del paese il raggio della morte. Come quasi tutti gli altri fiduciari, anche chi relaziona da Roma quello stesso giorno è consapevole della natura immaginaria delle voci che riferisce, ed è anche questo a renderle ancora più interessanti ai nostri occhi. Con la sua fantasia, scrive questo confidente, il popolo associava il genio scientifico alla figura di Marconi, così come il genio politico era associato a quella del Duce: anche se non esiste, il raggio è un indice di questo legame che gli italiani fanno tra i geni del XX secolo – Marconi e Mussolini. Impressionante la coincidenza di una terza nota del 23 luglio 1937, stavolta da Milano. Molti pensano che la stretta amicizia fra il Duce e l’inventore dipendesse proprio dalla scoperta del raggio della morte. Sulla stessa linea la nota che giunge da Napoli quattro giorni dopo: il popolo spera che, prima di morire, lo scienziato abbia trasmesso ogni segreto militare al suo principale collaboratore, Luigi Solari (1873-1957). Del resto, il giorno prima, sempre da Roma, un altro informatore segnala che “è stata messa in giro la voce” secondo la quale l’ultimo colloquio tra Mussolini e Marconi era legato alla risoluzione di “un grandioso problema relativo alla possibilità di difesa dalle armi nemiche”, ma anche qui l’auspicio che Solari sia al corrente di tutto.

Insomma, la morte di Marconi è un vero lutto per molti: così come durante la guerra d’Etiopia il mito del raggio della morte era letto in toni da umore espansivo, iperottimistico, così, dopo la morte, la stessa fantasia assume tratti depressivi, da incertezza collettiva: chi darà ora al Duce l’arma risolutiva per le imprese che ci aspettano?

Eccoci all’ultimo gruppetto di documenti conservati dall’ACS. Sono già decisamente successivi alla morte di Marconi – con un’eccezione importante, che vedremo fra un attimo. Il tempo trascorso dai funerali è ormai sufficiente perché facciano la loro apparizione note che riguardano il destino e il futuro del raggio della morte. È davvero tutto transitato al regime? Può darsi, però una nota dell’8 settembre 1938 proveniente da Saint Moritz, località vacanziera svizzera, riferisce una strana conversazione: qualcuno sostiene che, prima di morire, Marconi ha consegnato a papa Pio XI un plico segreto “con la sua più clamorosa invenzione”. Un ragionamento che apre una nuova linea leggendaria che assumerà rilievo pubblico sette anni dopo, nel 1945 e che ci racconterà altre fantasie sul raggio Marconi. Anche da Cosenza, il 10 aprile del 1939, un informatore scrive di dicerie su un plico segreto con il testamento di Marconi.

Anche le voci sulla causa della morte hanno tratti fantastici: l’ultimo documento d’archivio a noi noto fra quelli riguardanti il “raggio”, datato Bologna 28 agosto 1939, racconta quello che si dice fra i villeggianti di una casa a Vergato, sull’Appennino bolognese: Marconi non è morto per cause naturali, ma per l’esposizione ai “raggi fulminei” durante l’esperimento più noto, quello delle pecore uccise, presente già agli inizi del decennio (chiamiamola Morte per raggi 1939).

Ma ci si poteva spingere persino oltre, circa la morte dello scienziato, e questo… prima ancora che passasse davvero a miglior vita. A Marconi, infatti, quando ancora era bello e pimpante, fu attribuito un tentativo di suicidio. Il 5 aprile del 1935, da Milano, un fiduciario scriveva che la moglie di un certo professor Cesarò aveva appreso dal marito, che lo aveva saputo per telefono da un amico, che Marconi aveva tentato di sopprimersi “per dispiaceri famigliari”. Questa voce, del tutto infondata, ci riguarderebbe poco se non fosse che, insieme a quella sulla consegna a Pio XI del “plico segreto”, costituisce un elemento di una versione importante della nostra storia: quella che, come scrivevamo poco fa, salterà fuori con forza nel 1945, in un clima politico ormai del tutto diverso da quello nel quale gli informatori della polizia politica fascista battevano sulle loro macchine da scrivere. 

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Per riassumere, sulla base dell’evidenza disponibile, si può dire che la versione Ostia 1935, quella principale del raggio della morte Marconi, pur essendo già presente in vari suoi elementi centrali almeno dalla primavera del 1930, diventò virale cinque anni dopo, cioè in una fase in cui, grazie anche alle dichiarazioni di Tesla e al clima di ripresa delle tensioni politiche internazionali che stavano per portare all’aggressione all’Etiopia, quel mito era al culmine della sua forza. 

L’innesco immediato furono gli esperimenti di Torre Boccea sulle microonde in funzione di detezione radar di aerei e masse metalliche al suolo e in mare. Noi non riteniamo che queste voci siano state suscitate dalla propaganda della dittatura, ma non ci sentiamo di escludere che, dopo un po’ di esitazione, queste voci non furono combattute, ma, anzi, in una certa misura corteggiate e ambiguamente sostenute dai media del regime. 

Quanto lo stesso Marconi si compiacesse delle dicerie, oppure, più consapevolmente, le citasse a fini politici, è difficile dirlo, ma, sul piano del sentimento collettivo, oltre che raggi delle morte, quelli per conto nostro erano raggi del consenso: cioè, un effetto culturale del complessivo sostegno della stragrande maggioranza degli italiani alla dittatura, un consenso in crescita sin dagli inizi, e a quel punto più solido che mai. 

Circa i discorsi di Marconi, più che altro, si direbbe che con i giornalisti, sornione e assai fiducioso, nell’estate del 1935, alludesse sempre ai radar: è possibile che, in quel momento, con le conoscenze a sua disposizione e con i limiti delle sue competenze e possibilità, lui stesso vagheggiasse un possibile uso “nocivo” delle altissime frequenze. In una certa misura, del resto, lo aveva già fatto alla fine del 1931. Ma nient’altro. 

Sul numero di aprile 1938 di Current History, rivista di affari internazionali della University of California, Emil Wolff pubblicò un saggio acuto e ben informato sulla politica estera italiana, intitolato The Bluffer State – “Lo stato sbruffone”. La voce del raggio della morte Marconi era letta, correttamente, nel quadro delle tensioni con la Gran Bretagna per la guerra all’Etiopia. Grazie al raggio, si diceva in Italia, navi e aerei non sarebbero stati in grado di avvicinarsi alle coste italiane. La mancanza di commenti da parte italiana nei riguardi delle voci per Wolff era parte di una propaganda ben orchestrata di un regime che, in realtà, bluffava. Mantenere un alone d’incertezza anche su quelle sciocchezze era utile, argomentava Wolff. 

E, in effetti, in qualche misura l’alone permase. 

Il 9 dicembre del 1937, commemorandolo in Senato, Mussolini disse che le ricerche a fini militari condotte da Marconi, comprese quelle cui lui stesso aveva assistito, sarebbero proseguite con decisione. L’occasione era troppo ghiotta per la stampa internazionale. Lo stesso 9 dicembre la United Press, e due giorni dopo la Associated Press, inviarono in tutto il mondo dispacci da Roma in cui le parole di Mussolini erano strettamente legate alle dicerie sul “raggio” – di cui, però, Mussolini non aveva detto un bel niente. 

Il 25 aprile del 1939, invece, meno di due anni dopo la morte di Marconi, Il Popolo d’Italia, l’organo del Partito Nazionale Fascista, pubblicò un articolo del giornalista Enzio Malatesta (1914-1944). Era andato a Sestri Levante, e aveva intervistato Paolo Giacobbe, un radiotecnico che era rimasto a fare da custode alla villa dove Marconi aveva svolto esperimenti sulle microonde. Gli aveva chiesto dei raggi della morte, ma quello non aveva mai sentito niente, anche se, come le altre volte, aveva visto esporre dei conigli agli effetti delle alte frequenze. L’articolo era corredato da due foto, che qui presentiamo: una era quella in cui si vedeva l’antenna a tromba, ad alta direttività, da cui partivano i fasci di microonde; l’altra raffigurava un cesto appeso a un albero vicino, nel quale venivano collocati i poveri conigli irradiati.

“Il Popolo d’Italia”, 25 aprile 1939.

Tutto, comunque, nell’ambito delle conoscenze e delle possibilità del tempo, con un occhio agli effetti dannosi per i tessuti che si stavano intuendo, e che oggi ci hanno dato i forni per cuocere senza fuoco che tutti abbiamo. Il pezzo, però, alludeva a una scienza bellica misteriosa e fascista, stavolta attraverso la voce quasi-ufficiale del regime, Il Popolo d’Italia.

Malatesta fece una fine tragica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, di colpo convertitosi all’estremo politico opposto, a Roma, sotto l’occupazione tedesca militò nei gruppi clandestini “Bandiera Rossa”, finché non fu catturato e fucilato. È stato insignito di medaglia d’oro al valor militare.

Da parte nostra, a questo punto ci sentiamo di sostenere quanto segue: nella versione prevalente della leggenda (quella di Ostia 1935, appunto) Marconi è pienamente funzionale al fascismo e alla sua propaganda militarista, e lo è in uno dei momenti in cui il militarismo, il razzismo e il disprezzo del diritto internazionale stanno per prender corpo in uno degli atti più criminali della storia italiana di quegli anni: l’aggressione a uno dei pochi stati africani indipendenti, condotta da una potenza europea moderna contro la quale un paese semifeudale e arretrato come l’Etiopia ben poco poteva. 

Per quanto marginale, la storia delle auto che si fermano a Ostia, con Marconi e Mussolini presenti, è forse uno fra i mille segnali culturali della natura oscena del fascismo e delle sue narrazioni. 

Raggi antifascisti? Marconi suicida

Alla fine di febbraio 1945 la Seconda Guerra Mondiale stava per terminare. Tuttavia, il fronte bellico italiano era ancora fermo sull’Appennino tosco-emiliano a causa dell’inverno. Di lì a poco si sarebbe messo in moto per la spallata finale degli Alleati verso la pianura padana. Roma era libera dai primi di giugno dell’anno precedente, e lì i quotidiani erano rifioriti a decine. Molti ebbero vita breve: malgrado la censura imposta dalle autorità alleate, scrivevano un po’ di tutto. Le notizie improbabili che spesso pubblicavano erano l’anticipazione della libertà di stampa che stava per esplodere grazie alla fine della guerra e alla comparsa dei partiti politici di massa. Espressione di questo stato di cose fu anche Libera stampa, un giornale romano che durò pochissimo, dal giugno 1944 all’aprile del 1946. Oggi del tutto dimenticato, il 28 febbraio del 1945 pubblicò una storia sensazionale: Marconi non era morto per cause naturali. Si era suicidato per non mettere in mano al fascismo il raggio della morte. Avevamo visto che almeno una voce su un tentativo di suicidio di Marconi era corsa due anni prima che morisse sul serio, ma ora la questione era tutt’altra, ed era direttamente legata alla nostra vicenda.

C’erano delle indiscrezioni, scriveva su Libera Stampa un certo “G.D.”, che, se confermate, avrebbero fatto di Marconi “un martire della scienza”. Lo scienziato lavorava all’arma finale sin dal 1930, ma solo con l’esperienza di Ostia aveva avuto la prova che il “raggio”, ormai, funzionava. Mussolini prese a delirare sul congegno che avrebbe potuto incenerire il mondo, e non gli diede più respiro. “Cattolico fervente”, Marconi confidò a papa Pio XI il suo segreto ed ebbe un ultimo colloquio con Mussolini. Il giorno dopo, la stampa annunciò la sua morte improvvisa. Non aveva voluto consegnare l’arma “all’istinto distruttore degli uomini”, e quindi si era tolto la vita. 

Come prevedibile, poche ore dopo la vedova di Marconi, la marchesa Maria Cristina Bezzi-Scali (1900-1994), smentì con decisione quelle fantasie sul suicidio – aggiungendo di non credere per niente alle storie sul “raggio”. Libera stampa il 2 marzo si limitò a prendere atto della cosa, sostenendo che era “suo pieno diritto” commentare “notizie che venivano da fonte straniera”. Nel 1962, parlando col settimanale Epoca, anche la primogenita di Marconi, Degna Marconi Paresce (1908-1997) smentì il contenuto dell’articolo.

Naturalmente Marconi, noto cardiopatico, era morto per un accidente connesso alla sua patologia, ma quello che a noi interessa è che in questo modo, nell’imminenza della fine della guerra e mentre già si cominciava a pensare al futuro, stava cominciando un nuovo processo, anch’esso di tipo mitologico. Questa voce, che chiameremo Suicidio 1945, è un piccolo episodio dell’operazione di recupero di Marconi alla storia delle glorie italiane. Una gloria che però andava sganciata dal suo entusiasmo per il fascismo, circa il quale gli storici hanno rinvenuto qualche remora privata e qualche borbottio, ma che nel complesso risulta del tutto evidente. 

Serviva un Marconi “pacifista” e ai limiti dell’antifascismo, quasi un simbolo di un processo collettivo di rimozione del peccato originale di quasi tutti gli italiani: esser stati fascisti, o indifferenti al fascismo, e non aver ritenuto la cosa poi tanto grave.

Altre fantasie però stavano prendendo forma, in quel 1945. Dalla fine dell’anno precedente la stampa americana aveva cominciato a parlare di avvistamenti di strani corpi luminosi visti da un gran numero di equipaggi di aerei militari in missione sull’Europa. Erano stati soprannominati Foo Fighters, e si diceva fossero nuove, mirabolanti armi segrete tedesche in grado di rovesciare all’ultimo istante le sorti della guerra.

L’11 marzo, pochi giorni dopo la comparsa della storia del suicidio di Marconi, l’edizione domenicale del periodico delle forze armate statunitensi, Stars and Stripes, nella sua versione per il fronte mediterraneo pubblicò un lungo articolo in cui i fenomeni aerei di cui si parlava da pochi mesi erano associati al raggio della morte Marconi e al suo suicidio – con tanto di illustrazione ad opera del sergente Stanley Meltzoff (1917-2006), pittore che presto diventerà uno dei disegnatori preferiti per le storie di uno dei protagonisti della fantascienza statunitense, Robert Heinlein. Forse c’era un rapporto fra raggi Marconi e Foo fighters? – si chiedeva l’autore dell’articolo, il sergente Ray Reynolds.

“Stars and Stripes” dell’11 marzo 1945. Il “raggio Marconi” viene associato agli avvistamenti dei presunti “Foo fighters”, strani fenomeni segnalati da piloti alleati sull’Europa. Il mito del “raggio” prepara quello che sta per sorgere: il mito degli UFO.

L’edizione mediterranea di Stars and Stripes si stampava a Roma, e così Reynolds si era rivolto a uno dei maggiori collaboratori di Marconi, il marchese Luigi Solari, che, fra le altre cose, era stato uno dei testimoni dell’attacco di angina dello scienziato, sintomo più evidente della condizione che poche ore dopo lo uccise. Inutile dirlo: Solari fu l’ennesimo protagonista diretto del lavoro di Marconi sulle microonde a negare qualsiasi validità alle voci sul “raggio”; ma, nel farlo, aggiunse suo malgrado altri dettagli sugli esperimenti del 1935 e sulle relative voci, tanto da spingerci a parlare di un’altra versione della leggenda. 

Il primo dettaglio è che alle dicerie avevano contribuito, secondo Solari, anche le esperienze sulle microonde compiute a Torre Chiaruccia, nel comune di Santa Marinella, insieme agli esperimenti di Forte Boccea (quelli a cui aveva presenziato Mussolini). Anzi, per lui proprio i fatti di Torre Chiaruccia sarebbero stati determinanti: il movimento di camion militari lungo le strade, a una certa distanza, con soste e partenze collettive improvvise, pensate proprio per testare il primo apparato radar, avrebbe contribuito a suscitare l’idea degli stop improvvisi dei motori. 

Il secondo punto è che Solari fu fra coloro che resero più complessa la diceria: non soltanto si diceva del blocco dei motori, ma della morte del branco di pecore presso Roma, dopo che, colpite dal “raggio”, si erano messe a divorare erba in maniera ossessiva, impressionando la popolazione. Abbiamo così la versione della storia che abbiamo denominato Torre Chiaruccia 1945

Solari naturalmente rise della voce del suicidio di Marconi: lui, ricordava, era stato anche testimone delle ultime cure somministrategli la sera fatale dal professor Cesare Frugoni (1881-1978), direttore dell’Istituto di clinica medica dell’Università La Sapienza. Al tempo stesso Solari fu anche fra tra i primi a contribuire in maniera decisiva alla rimozione della questione del ruolo pubblico dello scienziato sotto la dittatura. Nel 1949 in Marconi: la radio in pace e in guerra (Mondadori, p. 285) giunse a scrivere che se un italiano (ovviamente Mussolini) con il suo abuso del potere aveva trascinato l’Italia in guerra contro gli inglesi, Marconi, sperimentando radiogoniometri e radar poi usati al meglio dai britannici, aveva “contribuito a salvare l’Inghilterra” (sic).

La versione più effervescente della storia del suicidio di Marconi, però, apparve cinque anni dopo quella diffusa dal quotidiano Libera stampa. Uscì il 15 giugno del 1950 su un quotidiano francofono africano, France-Dahomey, che si pubblicava nel territorio coloniale che oggi è il Benin. Probabilmente fu ripreso da qualche testata pubblicata in Francia, ma autore ne era un italiano, Guido De Luca, che pensiamo fosse proprio il “G. D.” che cinque anni prima aveva scritto del suicidio di Marconi su Libera stampa.

Dopo aver legato il presunto suicidio alla storia versione “Ostia 1935”, De Luca sosteneva che nel 1937 le pressioni personali di Mussolini sull’inventore erano aumentate, tanto che poche settimane prima della sua scomparsa Marconi era stato quasi costretto a una dimostrazione ancora più clamorosa del suo raggio della morte. Durante una manovra di mezzi corazzati svoltasi sui colli Albani, i carri armati, che si trovavano a grande distanza dall’apparato mortifero, si erano arrestati tutti insieme. Pur protetti dalle corazze, i militari erano stati colpiti da malesseri sconosciuti. In seguito, diversi fra loro erano morti in ospedale. Marconi, sconvolto, fu visto piangere. Fu ricevuto un’ultima volta da Pio XI, poi, la mattina del 19 luglio 1937, andò da Mussolini, a Palazzo Venezia, e i presenti, da altre stanze, sentirono i due litigare. Quella notte stessa Marconi si suicidò. Anche Pio XI, scriveva De Luca, era al corrente di com’erano andate le cose, e l’aveva detto ad alcuni suoi confidenti. 

Con questo racconto, che abbiamo chiamato Colli Albani 1950, la leggenda del raggio della morte Marconi inizia il suo lento ma progressivo decollo verso varianti più complesse e, in molti casi, più adatte al contesto contemporaneo. Ne accenneremo fra poco, non senza aver speso due parole sul probabile autore della storia del suicidio dell’inventore, Guido De Luca. Autore di alcuni libri fra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, come giornalista collaborò a testate del fascismo più estremo, come Il Tevere del razzista e filo-tedesco Telesio Interlandi, e la prestigiosa Vita italiana, oltre che a una delle riviste più importanti del regime, Critica fascista. Dunque, un fascista a tutto tondo, impegnato però anche nella scrittura teatrale. Forse è per questo che, dopo la guerra, lo troviamo come sceneggiatore di filmetti commerciali. Una sorte curiosa ma – forse per convenienza, forse per altro – comune a molti super-fascisti in gioventù, poi adattatisi a perfezione alla cultura di massa dei rotocalchi degli anni del boom economico. In certi casi, alcuni fra costoro si volsero al paranormale, ai dischi volanti, a storie mirabolanti di ogni tipo.

Dopo la guerra, comunque, della leggenda si può anche ridere in un’altra chiave. Emerge la figura dell’italiano che, al caffè, sottovoce, o nei salotti privati, ridacchia in maniera innocua della dittatura, usando l’eterna forma, sempre ambigua, della barzelletta. Così, proprio in un testo che vuol ridere delle mene del fascismo, la commedia Raffaele, scritta da Vitaliano Brancati nel 1946 e uscita per la prima volta sulla rivista di letteratura Botteghe oscure (a. I, quaderno 2, 1948, pp. 122-190, infra, p. 143), il “raggio” è usato in quella chiave lì.

Di Bartolo (avvicinandosi all’orecchio di Raffaele con aria di mistero) – In Etiopia è morta una vacca! 

Raffaele – Una vacca? In Etiopia?… E che c’è di strano? 

Di Bartolo – Ma bisogna vedere perché è morta e di che cosa è morta! 

Raffaele – E perché è morta? 

Di Bartolo – Pare che Marconi abbia sperimentato in Etiopia un raggio della morte che uccide senza misericordia tutti gli animali e tutti gli uomini che incontra nella sua strada! 

Giudice (interrompendo) Ah, si? Allora siamo a cavallo!  

I raggi della morte come memoria e reinvenzione: il Marconi eterno

Con la fine della guerra e l’uscita di scena, oltre che dello stesso Marconi, dei presunti protagonisti collaterali della vicenda del raggio della morte, diventò più agevole presentare una serie di narrazioni dai toni estremamente drammatici centrati sull’idea dell’inventore che, a fronte della sua scoperta fatale, ha uno scrupolo di coscienza e si rifiuta di mettere al servizio del regime il suo “raggio”.

Nel 1952 l’artista, già ardente fascista mantovano, Ivanoe Fossani (1894-1961), in un libro dal titolo che da solo dice molto (Mussolini si confessa alle stelle: straordinaria avventura all’isola Trimellone, Edizioni Latinità, Roma), scrisse di aver avuto una specie di colloquio-litigio col Duce, a poco meno di un mese della sua morte. Mussolini, per sostenere di non esser mai stato un dittatore, gli avrebbe detto che, se lo fosse stato, avrebbe fatto torturare Marconi per farsi dare il raggio della morte, che c’era davvero e non solo era stato sperimentato sui veicoli, a Ostia, ma anche in seguito, ad Anzio, e poi a Orbetello, nel cui cielo Marconi aveva fatto incendiare due aerei radiocomandati a 2000 metri da terra!

A Mussolini, Fossani metteva in bocca anche il seguito: lui che preme sull’inventore, quello che si tira indietro, il colloquio con Pio XI che gli chiede di non dare l’arma ai fascisti, l’ultimo colloquio burrascoso col Duce che tenta di spiegargli che in caso di guerra avrebbe usato il “raggio” solo in casi estremi, e, subito dopo, la morte di crepacuore di Marconi. 

In questo modo, con la versione della leggenda che potremmo chiamare Fossani 1952, si otteneva in un solo colpo tutto ciò che una parte dell’opinione pubblica italiana post-bellica poteva sognare: un Mussolini riottoso ad usare la violenza estrema; il papa salvatore di anime e del mondo dal raggio della morte; un Marconi quasi-antifascista, e, in ultima analisi, un temporaneo freno alla guerra europea, come fantasizzò qualche anno dopo Adelmo Landini in Marconi sulle vie dell’etere (SEI, Torino, 1955, pp. 131-46), in cui Marconi diventa l’uomo che, se fosse vissuto, con la sua influenza e la natura eccezionale delle sue ricerche, nel 1940 avrebbe dissuaso Mussolini e Vittorio Emanuele III dall’entrare in guerra a fianco della Germania! 

Non è tuttavia da escludere completamente che, in qualche misura, Mussolini fosse anche lui dell’idea che Marconi, sul raggio della morte, gli nascondesse qualcosa. Sebbene si tratti di ricordi e di ricostruzioni a posteriori, nel 1973 in Francia uscì una raccolta di dichiarazioni rese da Rachele Guidi, vedova di Mussolini, fatte al giornalista francese Albert Zarca, che era in buoni rapporti con i familiari del dittatore. Si tratta di Mussolini sans masque (Fayard, Parigi, 1973, trad. it.: Mussolini privato, Rusconi, 1980, pp. 10-15). Secondo Zarca, donna Rachele raccontò di esser stata testimone diretta, sulla strada di Ostia, nel 1935, degli effetti del “raggio della morte” sulla sua auto, guidata da un poliziotto in borghese dietro indicazione dello stesso marito. Tutti i veicoli, nei dintorni, si bloccavano: dovevano essere gli effetti del raggio della morte, in grado di abbattere anche gli aerei! La sera dopo, a cena, Mussolini le aveva confermato che proprio di quello si era trattato. 

Secondo il racconto di Zarca la versione di donna Rachele si faceva però ancora più interessante nel prosieguo. Dimostra un ulteriore adattamento alle inclinazioni di chi scriveva (Zarca) e di chi raccontava (donna Rachele):

Sua Santità Pio XI, terrificato da questa scoperta e dall’enorme portata che poteva avere, chiese a Marconi di non proseguire le ricerche e, se possibile, addirittura distruggere i risultati già acquisiti. Marconi, che era affezionato a Benito ed era un sincero fascista, gli aveva fedelmente riferito il colloquio con il Papa e gli aveva chiesto che posizione doveva prendere di fronte al caso di coscienza che si poneva alla sua fede di cattolico.

Benito non voleva rendersi nemico il Papa della Conciliazione né andare contro gli scrupoli religiosi di Marconi. Inoltre il mondo era in cerca di pace e non di guerra e le ricerche di Marconi erano costosissime. Optò quindi per autorizzare la sospensione delle ricerche, ma non la distruzione delle ricerche. 

In altri termini, in questa variante il raggio della morte c’era, ma chi aveva “ucciso” l’invenzione non era stato Marconi col suo suicidio, ma Mussolini stesso, in un impeto di pietà per il mondo! 

L’impressione che si ricava anche da altri accenni – e la cosa andrebbe studiata a fondo – è che fra il milione di ricordi, recriminazioni, omissioni, rimozioni e ricostruzioni più o meno dolorose di quegli anni tremendi, i discendenti del dittatore abbiano, in qualche modo, coltivato e ridiscusso anche la storia del raggio della morte Marconi. 

D’altro canto, nel corso del 2024, pure gli ultimi discendenti diretti dell’inventore hanno rievocato la vicenda, ad esempio in un’intervista rilasciata al settimanale Oggi del 25 aprile. Nel pezzo, il nipote dell’inventore, Guglielmo Giovanelli Marconi, riferisce la versione in cui Pio XI convince Marconi a “distruggere tutto”, e cita, non a caso, Rachele Mussolini (che, come abbiamo visto, con intento apologetico assegnava al dittatore il merito della sospensione degli studi). Sempre Guglielmo junior, più avanti menziona la storia ufologica di un “gabinetto segreto” creato da Mussolini nel 1933 per indagare su un disco volante caduto in Lombardia – storia promossa da alcuni ufologi italiani sin dalla fine degli anni ‘90. 

Da ultimo, ecco lo sceneggiato Marconi. L’uomo che ha connesso il mondo, diretto da Lucio Pellegrini e con Stefano Accorsi nei panni dello scienziato, andato in onda su Raiuno nelle serate del 21 e del 22 maggio 2024. Centrato sull’anno 1937, cioè sull’ultima fase della vita di Marconi, la leggenda del raggio della morte vi svolge un ruolo centrale. Una giornalista straniera, Isabella Gordon, è incaricata dalla polizia politica di spiarne gli esperimenti, con la donna – chiara allusione a Lisa Sergio, di cui abbiamo già parlato – che addirittura assiste direttamente, anche se per caso, agli esperimenti con il radar e le automobili che si fermano sul litorale romano. Più tardi, la storia prende una piega pienamente letteraria. I tedeschi, insieme a Mussolini, mettono Marconi alle strette: vogliono l’arma. Alla fine, scoperto che Gordon lo sta spiando, ma attratto dalla donna, lo scienziato la fa scappare, anche perché lei è diventata inaffidabile anche per i suoi mandanti fascisti, che la braccano. Le paure però sono troppe, e il genio soccombe poco dopo.

Un racconto di fantasia che ha al cuore la rappresentazione di un Marconi pacifista che pensa solo alla scienza e all’umanità, sempre in tensione con Mussolini, che invece vuole a ogni costo il raggio della morte. E che è in rotta aperta col regime, che fa pubblicare voci sul “raggio” sui giornali per esercitare pressioni su di lui e forzarlo a produrre un’arma che, però, non esiste. Dal punto di vista storiografico, si tratta di una lettura sconcertante: come ha ripetuto in questa occasione lo storico Francesco Filippi, Marconi fu un fascista del tutto organico alla dittatura e alle idee che portava con sé.

Nella fiction televisiva, invece, la resistenza di Marconi alla fantasia sinistra del raggio della morte è il metro della sua volontà d’indipendenza e della sua universalità, e, per questo – paradossalmente ma non troppo – della sua italianità. Ma non è questa, in fondo, la vera cifra della retorica proto-fascista sul “genio italico”? 

È attraverso tutte queste strade che, sin da quando lo scienziato era in vita, le memorie, le attese, i ricordi, le paure, le storie sopravvissute a più generazioni si sono fuse, attualizzandosi, mutando e rendendo eterno e impiegabile a piacimento il mito di Guglielmo Marconi, uno dei padri del mondo contemporaneo. Una cosa avvenuta più volte a fini di uso pubblico della storia, e, oggi, anche per lo sceneggiato di Raiuno.

Prima dei raggi e insieme ai raggi: Marconi, i marziani e i loro fan

Col cenno che abbiamo appena fatto, andiamo verso una lettura più generale del Marconi leggendario – quella di una figura mitologica a tutto tondo. Il raggio della morte è solo il volto più noto del Marconi fantastico, uno degli inventori della modernità, con i suoi lati tremendi, ma anche con le sue attese cosmiche. Per questo, fin dagli inizi lo scienziato fu legato anche a un altro grande mito neoreligioso, quello degli abitanti degli altri pianeti e della possibilità di contattarli. Proprio come con il “raggio”, Marconi non prese mai completamente le distanze dalle speculazioni giornalistiche che lo riguardavano. I primi cenni sono addirittura del 1901, quando la radiotelegrafia era davvero una novità. Nel marzo di quell’anno, interrogato dai giornali americani sulle possibilità di inviare segnali radiotelegrafici su Marte, spiegò che la distanza massima raggiunta a quel momento era di 350 km, e che ne avrebbe riparlato quando la possibilità di giungere sino a Marte fosse diventata concreta. 

Fu però nei primi anni ‘20 che la stampa di mezzo mondo si dilettò col legame Marte-Marconi. In particolare, quando col suo panfilo “Elettra” e una squadra di tecnici, a fine maggio del 1922, attraversò l’Atlantico compiendo collegamenti di ogni genere, in specie quelli a lunga distanza grazie all’uso delle onde corte. Arrivato a New York, lo scienziato si sentì chiedere dai giornalisti se aveva ricevuto segnali da Marte. Lui rispose con un secco diniego. Eppure, il New York Times, al momento della sua partenza dalle coste inglesi, scrisse che secondo alcune indiscrezioni Marconi aveva in mente di tentare l’invio di un messaggio su Marte. E Marconi si tenne, anche in questo caso, sulla linea dell’ambiguità: a New York, dopo aver definito “assurde” quelle storie, non esitò ad aggiungere che un segnale a bassissima frequenza che aveva captato mesi prima nel Mediterraneo “di sicuro non aveva origine sulla Terra”. E così via, in molte altre occasioni.

Marconi uomo moderno, comunicatore e in rapporto strettissimo con i mezzi di comunicazione di massa, disponibile, per vari ordini di motivi, a cogliere l’aria del tempo: Marte, i suoi abitanti, le armi del futuro capaci di fermare l’arma più potente, cioè l’aereo da bombardamento, e anche i carri armati.

Il raggio della morte, mito della modernità che attraversa la prima metà del XX secolo e produce letteratura, fumetti, fantascienza. Con la comparsa della mania collettiva per i dischi volanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sarà inglobato presto in un nuovo universo narrativo con i racconti delle panne dei motori dei veicoli che si spengono al passaggio degli UFO. 

Almeno dal 1999, alcuni ufologi pro-alieni (ce ne sono di molto più seri e disincantati, come quelli del CISU) hanno costruito un intero universo a partire da alcuni fogli giunti da un anonimo, da alcune fotocopie di documenti e da altre fonti a dir poco precarie: grazie a essi, attraverso una serie di acrobazie, prese corpo l’idea che nel 1933 in Lombardia sarebbe precipitato un disco volante extraterrestre (ne potete leggere qui, alle pp. 32-39). Il relitto sarebbe caduto in mano al regime del tempo, e in qualche modo i nazisti se ne sarebbero occupati con avidità. Nelle versioni più recenti di questa storia, di origine americana, sono i militari Usa, durante la Seconda Guerra Mondiale, a ritrovarlo dietro indicazioni di papa Pio XII, che sapeva tutto e a portarselo a casa; ma – ecco quello che c’interessa – prima il relitto sarebbe stato studiato da un gruppo segretissimo di luminari (il “Gabinetto RS/33”) con a capo – è necessario dirlo? – Guglielmo Marconi.

Sotto molti profili, è del tutto comprensibile che alcuni ufologi  fra i più convinti abbiano sussunto Marconi nella loro visione del mondo. Come abbiamo visto, con la storia del “raggio” le premesse culturali, massmediatiche, comunicative e relative alla vicenda politica italiana c’erano dagli inizi degli anni ‘30. Del resto, Marconi è stato un mito italiano sin da subito, cioè dai primi del Ventesimo secolo. Il Marconi legato all’ufologia più ingenua è soltanto uno sviluppo post-moderno del percorso lungo e tortuoso della leggenda del genio

Le mille occasioni del centocinquantesimo marconiano, caduto nel 2024, confermano quanto interessante è la storia della ricezione pubblica (e politica) del personaggio. La figura di Marconi continuerà probabilmente a primeggiare a lungo nell’immaginario del nostro paese. Nel nome del papà della radio, nel futuro vedremo mille altri fuochi d’artificio.

A parte quanto ricordato nel testo, si ringrazia lo studioso Roberto Labanti anche per la rilettura attenta, per le fonti reperite e per i consigli forniti.

Illustrazione originale di Paolo Gallina (www.paologallina.com), su Instagram paologallina.arts.