Giandujotto scettico

Vittorio Emanuele II, re ammazzalepri

Giandujotto scettico n° 174 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Grotta Gino”, a Moncalieri (periferia sud-orientale di Torino), è un luogo bizzarro. Venne scavata da Lorenzo Gino tra il 1855 e il 1885; inizialmente, questo precursore del Fréjus e del Sempione (così lo appellò il giornale satirico Pasquino, paragonando la sua opera ai grandi tunnel del tempo) voleva soltanto bonificare la sua bottega di falegname, oggetto di continue infiltrazioni di acqua. Poi forse ci prese gusto, e andò avanti per trent’anni, dando vita a un insolito ipogeo. Oggi l’ingresso si trova in un ristorante (mentre scriviamo queste pagine non aperto): tramite una scala, si arriva ai diversi ambienti della grotta, percorsi da un piccolo fiume artificiale. Al di sopra di una barchetta, si trovano le statue che Gino aveva posizionato lungo il percorso, tra getti d’acqua e bottiglie alle pareti: una specie di grande parco dei divertimenti sotterraneo. 

Le statue che Lorenzo Gino volle nella sua bottega compongono un caratteristico giardino pietrificato, all’insegna del patriottismo risorgimentale. Ci sono putti e maschere italiane che brindano all’unificazione della nazione, busti dei maggiori poeti italiani, e – ovviamente – i rappresentanti della dinastia che fondò l’Italia come stato unitario, i Savoia: un gruppo di statue rappresenta il duca Amedeo Ferdinando, duca d’Aosta, per breve tempo infelice re di Spagna. Sta pescando in compagnia dei suoi barcaioli, nella serata in cui venne colpito dalla pioggia e si buscò un malanno – quello che, secondo la leggenda, avrebbe portato alla sua prematura scomparsa.

La grotta stessa è dedicata a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, il re Galantuomo. A noi però interessa un gruppo di sculture in particolare, che raffigura Vittorio insieme a un popolano e a due cani da caccia. Ebbene, quella è la rappresentazione di una leggenda che all’epoca di Gino doveva essere molto diffusa. 

Un re, un contadino e una lepre

Troviamo la storiella in alcune pagine del 2014 dedicate alla Grotta Gino e realizzate dall’associazione culturale “Mus Muris” di Moncalieri, che ha trascritto un opuscolo che venne fatto stampare per pubblicizzare l’attrazione sotterranea: “Cenni descrittivi della grotta fantastica misteriosa di Lorenzo Gino”. In questi foglietti è spiegata la storia di quel gruppo di statue.

Un colono, certo Capietto, aveva incontrato Vittorio Emanuele II sui colli di Moncalieri, vestito da cacciatore. Non avendolo riconosciuto, gli aveva promesso una modesta ricompensa, due mutte, se fosse riuscito a uccidere una lepre imprendibile che provocava danni alle colture. La mouta (o mutta), era una moneta di poco valore, probabilmente quella introdotta da Vittorio Amedeo III intorno al 1794. Si chiamava così perché aveva un’alta percentuale di rame, quindi non tintinnava (era “muta”). Insomma, una mancia da pochi spiccioli! 

Il re, senza rivelare la sua vera identità, aveva accettato; aveva ucciso la lepre e ne aveva avuto in cambio le monetine. Il giorno seguente, quale la sorpresa del Capietto nel vedere un messo mandato dal re, che oltre a restituire le mutte, consegna al contadino ben due marenghi!

Questo racconto doveva essere popolarissimo. Ne scopriremo diverse varianti e, soprattutto, il suo significato, e le origini nient’affatto recenti.

L’ingenuo Capietto e il papà del presidente 

Il racconto sul re cacciatore non riconosciuto ci arriva anche da un volume del 1908, Famiglia alpinistica. Tipi e paesaggi (Lattes, Torino, 1908), ed è parte di un racconto intitolato “I festaioli”. La vicenda è ambientata a Moncalieri, dove un gruppo di giovani visita la grotta Gino durante la festa di san Bernardo. E qui, il barcaiolo gli spiega il significato di quella statua:

– Questo è pure il Re – prosegue mostrando un altro gruppo dove si vede Vittorio vestito da cacciatore – e questo è Capietto, un paesano che gli offre due moute perché gli uccida una lepre che gli mangia i cavoli dell’orto. Il Re gliela uccise e Capietto dandogli le due moute gli disse: “T’ses un bulo, cassador” [Sei un esperto, cacciatore]. Il giorno dopo, un cameriere di Corte andò da Capietto, e rendendogli le due moute e quaranta lire gli disse: “C…. che siete, quel cacciatore era il Re”. Capietto restò di sasso come lo vedono.

Questa versione, però, offre anche una sorpresa: il nome di uno dei due autori del volume che la contiene. Il primo è quello di un alpinista torinese famoso, Guido Rey (1861-1935); il secondo, invece, risponde a quello di Giovanni Saragat, avvocato torinese di origini sarde, ossia, al padre di Giuseppe, futuro presidente della Repubblica fra il 1964 il 1971. 

Appassionato di montagna e amico di Rey, Giovanni Saragat trasmetterà la passione per le Alpi ai figli. Intanto, però, insieme a Rey si era fatto portavoce della leggenda del re non riconosciuto nella versione ambientata a Moncalieri, quella a fondamento della rappresentazione tuttora visibile presso la Grotta Gino. 

La versione più antica

In realtà, siamo certi che questa storia circolava da molto tempo. La prima versione che abbiamo rintracciato si trova in un volumetto apologetico uscito subito dopo la morte del monarca. Pubblicato ad Arezzo a tambur battente – la prefazione è datata 31 gennaio 1878, cioè, a meno di un mese dalla morte del re – la Vita di Vittorio Emanuele primo re d’Italia – Narrata agli alunni delle pubbliche scuole, era stata compilata da due insegnanti, i professori Giuseppe Toti e Valentino Lisi. La storia che ci riguarda è alle pp. 71-72.

Un giorno Vittorio Emanuele tutto solo e col fucile alla tracolla, com’era suo costume, andandone in cerca di qualche animale da caccia, visto un pastore che borbottando riparava ad alcuni guasti in suo poderetto, gli domandò:

“Che cos’avete, buon uomo? 

“Ho che sono stufo di durarla a questo modo. – il pane si stenta, dei fastidi non ne mancano, lavoro da un’avemmaria a un’altra, ed è fatica buttata, vera fatica buttata. Una maledetta lepre, che il diavolo se la porti, mi mangia tutto il seminato. Non so più a che santo votarmi; potrebbe ben pigliarle un qualche malanno. 

“O una fucilata, soggiunse Vittorio. Non ne avete detto mai nulla alle guardie-caccia? Altro che? Rispose il pastore. A sentirle sarebbero buone a chiapparla col cappello, ma in fatto non sanno che chiacchierare. Ho sentito dire che chi tira bene è Vittorio, ma vorrei vederlo anche lui, chè altra cosa è tirare a uno stambecco grosso come un vitello, che gli fanno passare a pochi passi di distanza, altra ad una lepre che schizza via da lontano e va più del vento. – Vittorio sorrise e salutatolo lo lasciò. 

Il giorno dopo un guardia-caccia con una grossa lepre in mano si presentò al buon pastore dicendo: S. M. il Re con cui ieri avete parlato, ha uccisa la lepre che tanto vi faceva inquietare, e ve la manda… Immaginate, o fanciulli, come rimanesse quel semplice montanaro!

Del tutto simile a questa versione – di sicuro le due fonti sono legate – è quella presente in La morte di Vittorio Emanuele II e l’esaltazione al trono di Umberto I, curato dal professor Luigi Teodoro Gagliardi e uscito a Roma per la Tipografia del Senato probabilmente quasi in contemporanea con quello aretino. 

Figura però un’aggiunta, rispetto a quella sopra. All’insinuazione del contadino sul fatto che il re fosse “aiutato” a colpire grosse prede perché gli venivano piazzate a pochi metri, così al sovrano veniva fatto dire (pp. 158-159):

A pochi passi di distanza, avete detto? – rispose Vittorio – ma voi non l’avete mai veduto a cacciare, e vi so dire che colpisce a tutta portata della sua carabina, e gli stambecchi, statene certo, quando sentono il fischio del piombo, non corrono meno delle lepri. 

Fatemi un poco il piacere – replicò l’altro, a me non la si vendono, sapete… so come vanno le cose. 

In sostanza, la stessa storia figura in Vittorio Emanuele II Re d’Italia – Studi biografici popolari (Milano, 1884, pp. 35-36), opera dello scrittore Felice Venosta (1828-1889), e in  Memorie di Vittorio Emanuele II, re d’Italia, di Luigi Guatieri (Livorno, 1892, pp. 331-332).

L’avarizia premia solo a metà

C’è poi una versione ambientata a Stupinigi, cioè, nella località dove ha sede la palazzina di caccia dei Savoia, il maestoso edificio costruito nella prima metà del Settecento e che fu uno dei luoghi preferiti dal primo re d’Italia. Al centro di innumerevoli storie sulla famiglia reale italiana, non è rimasta al sicuro nemmeno dalla nostra leggenda. 

Ne fa fede uno dei maggiori settimanali di successo dell’Italia del tempo e uno dei primi a far circolare in Italia la cultura di massa, e cioè il milanese L’illustrazione popolare, che se ne occupò nel suo numero del 6 gennaio 1884 nell’ambito di un articolo firmato da Giovan Battista Ercolani in occasione del sesto anniversario della scomparsa del sovrano. 

Di Vittorio Emanuele trasformatosi in borghese e popolano, corsero moltissimi aneddoti, alcuni per la bocca di tutti, altri noti ad alcuni soltanto. In tutti però, anche nelle forme più semplici, traspariva sempre l’animo generoso, schietto e leale, che fece in lui amare da tutta Italia il suo primo e valoroso Re. […]

In una giornata piovosa d’autunno erasi portato solo a cacciare nei dintorni di Stupinigi; un contadino che, nell’arnese in cui era, non l’aveva conosciuto, stando sulla porta del casolare, ohè, cacciatore, gli disse, se siete così bravo da uccidere la lepre, che devasta il mio orto, e che batte in quei campi – e colla mano glieli additava – vi regalo una móta (moneta allora in corso in Piemonte, del valore di 40 centesimi); ed il Re: Brav’uomo, gli disse, non vedete il tempo che fa, oj è da piesse una bella strumma e nient’aut; una móta l’è poch, va per dóe [Vi ha da prendersi un malanno e nient’altro; una móta è troppo poco, vada per due]. Il contadino si piegò, forse credendo che la lepre non sarebbe stata presa. Dopo avere battuto il campo che gli era stato indicato, il Re tornò fradicio alla casa del contadino colla lepre che aveva ucciso domandando in mercede le due móte, come aveva convenuto. Cercò il contadino di schermirsi, volendogli provare che, se in fine aveva ucciso la lepre, lo aveva fatto per le indicazioni che egli stesso gli aveva date, e che il vantaggio avuto era premio sufficiente per la fatta fatica. Vittorio Emanuele fu inesorabile; due móte gli erano state promesse e due ne volle, e tanto disse sul dovere che ogni uomo ha di tenere la parola data, che il contadino, certo a male in cuore, sborsò le due móte, ed il Re ringraziandolo se ne andò. Il giorno dopo, mandò uno dei suoi, perché a nome di quel cacciatore gli dicesse, che gli mandava solo 20 lire, perché aveva stentato a tenere la parola data, ma che, un’altra volta, in caso, se fosse stato più onesto, gliene avrebbe mandate 40. In quei giorni più volte il Re, con alcuni addetti alla Corte, facendo suonare le due móte che teneva in pugno, “j jai guadagnaje mi, diceva loro, e con fatiga. [Le ho guadagnate io, e con fatica]

Nota di colore: nell’articolo di Giovan Battista Ercolani, insieme alla nostra storia ne figurano  altre due a base di travestimenti e di mancati riconoscimenti. Nella prima, il re si fa passare per un borghese, in modo da aver da ridire con degli addetti poco scrupolosi alla dogana. Nella seconda, più gustosa, Vittorio si reca in una bettola travestito da operaio per inneggiare alla repubblica proprio mentre quelli stanno festeggiando il re e stanno celebrando la festa dello Statuto, la prima costituzione italiana, per vedere la reazione dei suoi sudditi. E si compiace quando gli altri lo prendono per un matto, e lo dileggiano, da leali sostenitori della monarchia. In questo racconto, peraltro, c’è un altro particolare divertente. Non pago di essersi cambiato in operaio, Vittorio Emanuele si fa accompagnare nella bettola da Rosa Vercellana, la Bela Rosin, che, pur sua moglie dopo esserne stata l’amante, non poté mai acquisire il titolo di regina.

Una leggenda antichissima: il sovrano in incognito

Come accennato, questa storiella è soltanto una delle innumerevoli leggende e voci circolanti sui Savoia re d’Italia. Una su un incidente d’auto mai accaduto al nipote di Vittorio Emanuele II, cioè re Vittorio Emanuele III, l’avevamo raccontata qui. Nel caso di cui ci siamo occupati in questa occasione, invece, la leggenda ha un sapore più tradizionale. Celebra l’animo popolaresco e piemontesissimo del sovrano, noto per il suo costante uso del dialetto, le avventure galanti e un aspetto in genere descritto come non propriamente regale. 

Tuttavia, il motivo conduttore della narrazione è assai ben più nobile e antico del racconto da osteria. Si tratta del topos di Harun al-Rashid, il califfo abbaside dell’VIII secolo celebrato dalle Mille e una notte che gira in incognito, travestito, fra il popolo, per accertarsi dei sentimenti dei sudditi verso di lui, oppure per provvedere ai bisognosi, sostenere la fede, scoprire i funzionari infedeli e i malfattori che si approfittano della fiducia che, come sovrano, gli aveva concesso. Una leggenda prima e dopo attribuita dalle voci a mille persone importanti, in specie a dittatori feroci, re e pontefici cattolici. 

Nel caso della storia del Vittorio Emanuele II cacciatore non riconosciuto, la peculiarità è rappresentata dal fatto che, per indurre l’equivoco e far sciogliere la lingua ai suoi interlocutori, non ha nemmeno bisogno di camuffarsi. Semplicemente, gira fra i popolani più ignoranti in modo scoperto, senza seguito o scorta, apprendendo le ingenue lagnanze dei poveri e dimostrando la realtà della sua fama di cacciatore, in grado di uccidere a colpo sicuro una preda difficile. Il riconoscimento della sua regalità avviene soltanto nella sua assenza, rivelata non in maniera diretta, da lui stesso, ma per interposta persona, da suoi fidi. 

A seconda delle versioni, pur conservando una complessiva bonomia, da buon piemontese avvezzo alla tavola e alla vicinanza con il contadinato delle pianure, la generosità può tuttavia avere gradi diversi. Nella versione più antica, quella priva di localizzazione e risalente almeno al 1878, ma anche in quella relativa a Moncalieri, il buon popolano è ricompensato senz’altro per la sua povera generosità. Nell’altra, quella ambientata a Stupinigi, la ritrosia del contadino a pagare quanto promesso, le due mote, è causa di un dimezzamento del “premio” di Vittorio Emanuele. Se fosse stato meno avaro, invece di venti lire, il contadino ne avrebbe avute quaranta. 

Insomma, generosità e paternalismo vanno di pari passo: si può essere re, dispensare favori a ignari interlocutori, ma senza eccedere nello spreco. Cosa che, almeno stando al vecchio luogo comune sulla prudenza dei piemontesi, non ci sembra del tutto fuori luogo.

Immagine in evidenza: da Pixabay – foto di TheOtherKev