CICAP Fest 2024: il legame tra folklore, nazionalismo e politica. Intervista a Stefano Cavazza
Intervista di Lina Cerrato
In occasione della settima edizione del CICAP Fest, sabato 12 ottobre 2024 si è tenuta nella Sala Rossini, preso il Caffè Pedrocchi di Padova, la conferenza “L’impatto del folklore nella politica” con Stefano Cavazza, professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. Il docente ha parlato della necessità di fare i conti con i concetti di nazione e di nazionalismo, che sono parte integrante della modernità. “Riguardo l’identità nazionale – ha detto – il problema non è quello di non avere confini, perché questo secondo me non è possibile allo stato attuale, ma quello di rendere tali confini valicabili”.
Professor Cavazza, quest’anno lei ha pubblicato il libro Nazione, nazionalismo e folklore: perché ha deciso di soffermarsi sul folklore nell’esaminare i concetti di “nazione” e “nazionalismo”?
Il mio interesse per il folklore è nato moltissimi anni fa, dalla mia tesi di laurea con Carlo Ginzburg: allora il mio interesse era legato all’uso che fu fatto del folklore da parte del fascismo, cioè, del folklore come ausilio ai regimi di estrema destra. In realtà, studiando, mi sono reso conto che il folklore aveva una portata più ampia, e che anche i regimi di sinistra e altri movimenti politici e culturali l’avevano utilizzato. Il folklore, infatti, parla da un lato agli intellettuali, che vedono in esso una proiezione di un passato rimpianto, ma dall’altro parla anche al popolo, nella misura in cui questo folklore, nella forma della rievocazione che assume con il folklorismo, dà vita a manifestazioni piacevoli in cui la gente si identifica. Ci sono inoltre manifestazioni come il Palio che si sono rifunzionalizzate nel tempo, e che mantengono un forte legame con le comunità: c’è un bisogno della gente di avere legami con il passato più antico, che a volte è solo simbolico, e non c’è niente di male in questo. Il folklore è uno strumento polisemico e polivalente, che può essere fruito in contesti differenti: il mio interesse nei confronti di esso è nato proprio per questa sua capacità, quella di essere indicatore di più cose.
Nei suoi studi lei si è concentrato sulla Germania oltre che sull’Italia: in che modo il folklore italiano, a differenza di quello tedesco, deve fare i conti con la romanità?
Il folklore tedesco è un folklore tradizionale che rimanda alle antiche tribù germaniche. Nella tradizione italiana invece, soprattutto durante il fascismo, per il quale la romanità era l’asse principale della storia d’Italia, la presenza di una tradizione classicista molto forte ha influenzato gli studi di folklore e anche il loro posizionamento nell’accademia, cosa già sottolineata dall’antropologo Pietro Clemente alcuni anni fa. I folkloristi italiani, infatti, ricercano sempre le tracce della latinità nelle tradizioni popolari, dimenticando così che il folklore è anche sincronico, si contamina. Queste contaminazioni erano viste, però, come le definirebbe la folklorista Amy Bernardy, come “incrostazioni”, qualcosa da poter togliere. Nella cultura non ci sono incrostazioni, ci sono contaminazioni. Tutto ciò rimanda ai modi con i quali la cultura italiana si è rapportata alle altre culture nelle zone di confine.
L’irredentismo nazionalista, che ha invece visto il folklore come manifestazione dell’italianità, ha ricercato la purezza delle tradizioni italiane, e lo stesso hanno fatto i tedeschi naturalmente, durante il nazismo. Poi, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, c’è stato un cambiamento metodologico significativo, avvenuto sia in Germania sia in Italia, anche se da noi in maniera meno netta: si è spostata l’attenzione sulla cultura del popolo come manifestazione complessiva. L’atavismo, cioè il legame con le antiche tradizioni, è meno significativo rispetto alle funzioni che la cultura svolge all’interno di una comunità.
Il folklore può svolgere un ruolo di rilievo nel creare un’identità di tipo nazionalista: ma, se vive di contaminazioni, non potrebbe aiutare anche a valicare i confini tracciati dalle identità nazionali?
In linea teorica assolutamente sì: il problema è come questa cosa potrebbe essere realizzata. Si potrebbe usare in chiave politica, ma in tal caso sono necessari attori politici – anzi, come direbbero alcuni sociologi della politica, degli imprenditori politici in grado di usare in maniera fattiva il folklore in questa direzione. Sicuramente potrebbe avere un’utilità per facilitare il riavvicinamento, mostrando come ci siano tradizioni culturali diverse che possono convivere.
Ma come questa cosa può realizzarsi sul piano politico? Questa è una domanda più complicata, naturalmente. Io, in quanto accademico, non ho gli strumenti per rispondere, perché dipende dagli attori politici. E non sempre mi sembra che costoro siano consapevoli di ciò.
Lei sostiene che il cosmopolitismo non sia una risposta efficace al neonazionalismo. Perché?
Io non sono così convinto che nella fase storica che viviamo, o prossima, il cosmopolitismo sia la soluzione. Ricordo che Massimo Livi Bacci, un grande demografo, venne da noi storici tanti anni fa, e, parlandoci dei movimenti migratori, disse che c’era tanta gente che si muoveva, ma c’era anche tantissima gente e molta di più che rimane ferma. Il problema è questo: se tanta gente rimane ferma è con questa che dobbiamo dialogare. Il cosmopolitismo è un ideale assai intellettuale verso il quale non ho nessuna chiusura, ma non è la strada secondo me per risolvere tali problemi, perché non può parlare alle comunità piccole. Non può parlare alla “casalinga di Voghera”, tanto per fare una citazione classica e abusata. E la democrazia si basa su questo. Se non parla anche alla casalinga di Voghera, non è una vera democrazia.