Quando ad accusarti è uno spirito: il caso di Clementina Giaccone
Giandujotto scettico n° 175 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Se si viene accusati di un furto da un’altra persona ci si può difendere in tribunale, controargomentare, dimostrare che il denunciante ha interesse a mentire. Ma se ad accusarci è un fantasma, durante una seduta spiritica?
Oggi il Giandujotto scettico vi porta a conoscere il curioso processo che coinvolse una giovane donna nella Torino del 1928.
Il furto
La protagonista della nostra storia è Clementina Giaccone: una ragazza di 24 anni, “esile e minuscola”, che faceva la cameriera in una casa signorile di Torino. Nativa di Monteu Roero, nel Cuneese, non era una delle tante diseredate che confluivano in città alla ricerca di un lavoro: Clementina proveniva da una famiglia di agricoltori benestanti; suo nonno era stato per diversi anni sindaco del paese. Superata la terza elementare, Clementina aveva deciso di guadagnare un po’ di denaro prima dell’inevitabile matrimonio. A tredici anni era stata assunta al servizio di un certo notaio Destefanis, con cui era rimasta un decennio, e che la giudicò “zelante, affezionata e fedele”. Poi, nell’agosto del 1926, si spostò a Torino, come cameriera della famiglia Wild, che abitava una sontuosa villa in strada Superga. Al meglio delle nostre fonti, e tranne non emergano delle evidenze in senso diverso, si sarebbe trattato con ogni probabilità dei coniugi Anna Siber Wild (1865-1942) ed Emilio Wild (1857-1944), svizzeri trapiantati in Piemonte, grandi e munifici imprenditori del tessile, figure di spicco della città piemontese del tempo; insieme ad Augusto Abegg e a Giovanni Agnelli senior furono tra i fondatori dell’Associazione industriali di Torino.
Presso la nuova famiglia, Clementina rimase meno di un anno: nell’aprile del 1927 lasciò la casa per tornare a Monteu Roero in vista del suo matrimonio con un giovane del posto con cui si era fidanzata. Tre settimane dopo il suo rientro, però, la ragazza fu richiamata a Torino da un telegramma: stando ai giornali, i coniugi Wild accusavano la giovane di avere sottratto, prima di partire, due gioielli. Si trattava di un anello e di una spilla d’oro del valore di 5000 lire: oggi sarebbero circa 5000 euro – un valore considerevole, anche se, riferiva La Stampa il 17 aprile 1928, in quella casa era possibile “ghermire ben altro”.
Clementina tornò in fretta e furia dagli ex-datori di lavoro, e tra le lacrime negò ogni addebito. I Wild, signorilmente, non insistettero e la lasciarono libera di tornare a Monteu Roero. La cosa sarebbe potuta finire lì, ma i due imprenditori tornarono a farsi sentire dopo qualche giorno: avevano nuovi elementi per accusarla; l’avrebbero comunque perdonata se avesse rivelato dove aveva nascosto i gioielli. Fu in quell’occasione che Clementina e il fidanzato, tornati a Torino per discolparsi, scoprirono in che cosa consistevano quei nuovi elementi: sulla misteriosa sparizione dei gioielli erano stati interrogati gli spiriti! E i fantasmi avevano detto che era stata proprio la cameriera a sottrarli, aggiungendo però che Clementina non aveva avuto il coraggio di portarli con sé.
I preziosi, dunque, forse si trovavano ancora nascosti da qualche parte nella villa.
Una seconda seduta spiritica
Clementina negò di nuovo con tutte le sue forze, disse di non saperne nulla, aiutò la signora Wild a frugare affannosamente ogni angolo della villa; ma niente, i gioielli non si trovavano. I due coniugi esortarono la giovane, insistettero, cercarono di far valere la loro autorità: la giovane continuava a professare la propria innocenza.
I Wild ritennero che fosse giunto il momento di una nuova seduta spiritica. Quella sera, ospiti dei due imprenditori, c’erano anche “tre uomini e una signorina”. Furono loro quattro, insieme ai padroni di casa, a costituire la catena spiritica necessaria alla seduta. Clementina era rimasta nella villa, ma in una stanza attigua: non voleva essere presente all’evocazione, come pure le era stato offerto, perché “quelle manifestazioni la turbavano e la impaurivano”.
Dopo cena, la sessione medianica iniziò. Gli spiriti ribadirono le accuse. I padroni di casa, in apparenza confermati nei loro sospetti, raggiunsero la stanza dove la giovane attendeva con ansia e cercarono ancora una volta di farla dire ciò che loro, di sicuro in perfetta buona fede, ritenevano la verità. Ma lei insisteva a dire di non aver toccato un bel niente. Poi gli spiriti diedero voce a un’ulteriore rivelazione, assai precisa, sull’ubicazione dei gioielli:
“Si trovano nel salotto giapponese!”
Seguirono ricerche affannose nel salotto indicato, ma senza che saltasse fuori nulla…
La seduta però era ormai interrotta, e si decise che per quella sera poteva bastare. Si erano fatte le tre di notte. La ragazza fu mandata a dormire in una camera della servitù. Gli altri ospiti si ritirarono.
Una confessione offerta e ritirata
Alle sette del giorno seguente, Clementina venne di nuovo chiamata al cospetto dei coniugi Wild. Secondo La Stampa, la giovane
“era ormai in preda ad un’agitazione che ne esauriva le forze”.
Stanca, Clementina fece una proposta: interpellare il parroco da cui Clementina si era confessata prima di lasciare la villa dei signori Wild che, col suo consenso e sciogliendo il segreto del sacramento, avrebbe potuto dire se la ragazza aveva ammesso un furto o no. I due ex-datori di lavoro accettarono di buon grado la proposta, e tutti insieme si recarono dal sacerdote.
Lì, lei, appena giunta di fronte al parroco… confessò il suo delitto! Ammise di aver arraffato i gioielli e di averli consegnati a un ricettatore di Racconigi, un certo Rocca. Non ci fu nemmeno bisogno di interrogare il sacerdote. La giovane fu fermata e portata in Questura. Fu dichiarata in arresto e portata in carcere. Di fronte al giudice istruttore, però, un altro colpo di scena: Clementina tornò a negare di aver commesso il furto, affermando di essersi sentita obbligata dalle circostanze a confessare.
Anche le indagini di polizia non trovano elementi contro di lei: Rocca, l’uomo da lei indicato come ricettatore, era morto da anni. Stando alla giovane, si era trattato del primo nome che le era venuto in mente. Si arrivò comunque al processo, che fu raccontato nei dettagli il 17 aprile 1928 su La Stampa.
Di fronte al giudice
Al processo, i Wild si costituirono parte civile. Clementina era difesa da un personaggio di tutto rispetto, l’onorevole Soleri. Si trattava con ogni probabilità di Marcello Soleri (1882-1945), politico di lungo corso, che era stato sindaco di Cuneo, deputato e ministro nel 1921-22. Pur senza avversare apertamente il fascismo, con la marcia su Roma e la presa di potere di Mussolini, Soleri aveva preferito dimettersi e tornare a esercitare come avvocato. Riprenderà a far politica solo nell’estate del 1943, con la destituzione del dittatore (all’epoca Soleri viveva a Roma). Ma tutte queste cose, nel 1928, erano ancora di là da venire.
Al processo, argomentò su un “turbamento emozionale da cui era scaturita l’autoaccusa”. A conferma della sua tesi, l’avvocato si avvalse della consulenza di due medici, un certo dottor Molen (forse Guido Molen, medico dell’ospedale maggiore di Torino) e il professor Giuseppe Roasenda (1879-1959). Quest’ultimo, nativo di Moretta (Cuneo), era professore ordinario di neuropatologia all’Università di Torino, nonché autore di un allora recentissimo manuale sull’ipnosi intitolato Suggestione e persuasione (psicoterapia) nella cura delle malattie nervose (Fratelli Bocca, Torino, 1927).
Interrogando la giovane, Molen e Roasenda diagnosticarono un temperamento emotivo “facilmente stimolabile” e un certo grado di carenza intellettiva. Spiegava il giornale:
“L’iperemotività della Giaccone, associata ad una certa deficienza di poteri intellettuali inibitori”, potrebbe “renderla facilmente influenzabile dall’azione di altri. La sua anormale emotività è del resto in accordo con i rilievi dell’esame obbiettivo organico, in finale dimostra la presenza di sintomi di ipertiroidismo e di simparentonia”.
Termine di difficile decifrazione, la simparentonia, ma che nel processo aveva un unico significato: sostenere coi giudici che non si poteva credere all’autoaccusa di Clementina.
D’altro canto, un terzo perito, certo professor Tirelli (presumibilmente Vitige Tirelli, direttore del Regio manicomio di Torino), concordò sulla diagnosi.
La conclusione del processo
La vicenda si risolse bene per Clementina, assolta per insufficienza di prove. Le accuse degli spiriti non furono ritenute costituire evidenza sufficiente, i gioielli non si trovavano e sull’inutilizzabilità della confessione si erano espressi illustri professori. Piangendo di gioia, la giovane poté quindi uscire indenne da quella strana vicenda di furti e sedute spiritiche.
Una storia che, pur nella sua semplicità, tratteggia un quadro interessante sullo spiritismo torinese nella prima fase del Ventennio fascista. A distanza di quasi un secolo, è impossibile dire se Clementina fosse veramente colpevole, se avesse confessato perché stanca degli interrogatori, o se avesse paura di qualcosa che il sacerdote avrebbe potuto rivelare. Più interessante è invece la convinzione dei datori di lavoro – una convinzione in buona fede che scaturiva, per quanto è possibile desumere dalle fonti del tempo, da una loro probabile fiducia nella pratica spiritistica, al tempo diffusissima nei migliori ambienti sociali, cioè proprio in quelli di cui i signori Wild erano espressione illustre.
Altrettanto interessante è il fatto che, almeno in questo caso, agli abitanti del mondo ultraterreno si chiedessero informazioni abbastanza prosaiche: non di risolvere i grandi misteri dell’universo, ma dove fossero finiti i gioielli scomparsi, e chi li aveva portati via, magari confermando sospetti già presenti. Se i fantasmi fossero davvero riusciti a risolvere il mistero, se i gioielli fossero stati davvero nel salotto giapponese, forse il caso sarebbe diventato un caposaldo della fede spiritista. E invece si rivelò un’accusa non dimostrabile , in una sede in cui il tipo di argomentazioni addotte era in difficoltà: l’aula di un tribunale.
Immagine in evidenza: da Pixabay, generata con AI da Alanajordan