Interviste

Cosa s’intende per tradizione gastronomica italiana? Intervista ad Alberto Grandi

Intervista di Chiara Siracusa

È un interrogativo che, negli ultimi anni, ha dato vita a tanti dibattiti. La cucina italiana, intesa come tradizione gastronomica nazionale, ha davvero una lunga storia alle spalle? O quelle che noi pensiamo essere ricette secolari sono, in realtà, invenzioni relativamente recenti? Tra chi si è occupato dell’argomento c’è Alberto Grandi, professore di Storia del cibo e presidente del corso di laurea in Economia e Management all’Università di Parma, che ne ha parlato all’ultima giornata del CICAP Fest, domenica 13 ottobre. L’argomento, del resto, è centrale nella sua attività di ricerca e già oggetto del suo libro “La cucina italiana non esiste” (Mondadori, 2024), scritto a quattro mani con Daniele Soffiati, collega del podcast DOI (Denominazione Origine Inventata). 

Professor Grandi, perché secondo lei gli italiani si aggrappano così tanto al concetto di tradizione gastronomica? Ci sono altri paesi che hanno lo stesso atteggiamento nei confronti della cucina? 

Questa è una domanda alla quale cerco di rispondere da tanti anni. È vero che l’Italia possiede un’ottima cucina, ma anche altri Paesi, come la Cina o il Giappone, vantano una gastronomia di altissima qualità e varietà. Ciononostante, questi popoli asiatici non le attribuiscono lo stesso peso che le diamo noi. A onor del vero, gli italiani stanno attraversando un periodo di forte crisi identitaria da una cinquantina di anni. E ricercare un punto di riferimento nella cultura gastronomica sarebbe uno dei modi per esorcizzare il declino economico-sociale: una sorta di meccanismo di compensazione per illuderci di poter giocare ancora un ruolo internazionale. 

In che modo possiamo misurare la tradizione gastronomica di un paese? È possibile rintracciare le origini di un piatto tipico? 

La tradizione gastronomica ha dei parametri tutti da discutere. Se volessimo misurare l’antichità di una ricetta potremmo andare a ritroso all’infinito, fino a Homo erectus, con i suoi primi tentativi di cottura. Inoltre, è difficile determinare la prima volta che uno specifico piatto è stato consacrato in una ricetta, poiché si tratta di una continua evoluzione. La storia della cucina si può invece descrivere e discutere. Anzi, l’origine di tanti dei nostri cosiddetti “piatti della tradizione” è da rintracciare negli anni del boom economico, una vera e propria cesura con il passato, con modelli alimentari opposti e incomparabili. Sempre a patto che si sia consapevoli che quella che noi chiamiamo tradizione è al massimo antica di 60-70 anni, in corrispondenza con il boom economico. 

La necessità di dare Denominazioni e Indicazioni così stringenti non potrebbe, però, nascere dalla volontà di incentivare la sicurezza alimentare e preservare produttori e territori? 

Sì, l’intento delle Denominazioni di Origine Protetta (DOP) e Indicazione Geografica Protetta (IGP) è quello di garantire il consumatore e fare in modo che le competenze di un determinato territorio vadano riconosciute e rimangano lí, per valorizzarlo. Da questo siamo però passati ad inventarci delle eccellenze. Bisogna essere obiettivi e non strafare, come succede quando attribuiamo ai nostri prodotti tradizioni millenarie. Ad esempio, il cioccolato di Modica (IGP dal 2018) risale agli anni ´80 dello scorso secolo. La varietà del pomodoro di Pachino IGP fu “messa a punto” nel 1989. Considerato che una storia di venticinque anni è sufficiente per ottenere una certificazione EU, le denominazioni possono essere quindi anche molto recenti e fare sfumare le storie mitiche attorno ad alcuni cibi, rendendo necessaria una narrazione nuova della nostra cucina. Spesso ancorarsi a questi riconoscimenti esterni è un’altra manifestazione di profonda insicurezza. 

Il clima sta cambiando molto rapidamente e, con questo, anche la distribuzione geografica delle zone di produzione. Abbiamo parlato di passato e di presente, ma cosa ci aspetta nel futuro? 

Il miglior modo di difendere le nostre produzioni è accettare il cambiamento, a maggior ragione data la velocità con cui il clima sta cambiando. Il Parmigiano, per esempio, è uno dei pilastri della nostra tradizione culinaria, ed è un prodotto il cui disciplinare è tra i più dinamici. Ha una storia di 800 anni, è stato citato persino da Boccaccio, ma fino a cinquanta anni fa era molto diverso per struttura e composizione. Ha dovuto affrontare cambiamenti di ogni genere, dal foraggio per gli animali fino agli animali stessi, ma anche disciplinari e tecniche di produzione. Le competenze cambiano, le tecnologie pure, e il valore dei nostri prodotti dovrebbe stare proprio in questa capacità di evolversi, perché significa che riescono a rimanere sul mercato. Tenere viva una tradizione, per quanto possa suonare contraddittorio, richiede di accettarne l’evoluzione e non farla cristallizzare. Stesso discorso vale per la collocazione geografica. Fino a qualche tempo fa la vite oltre il 50° parallelo non si poteva coltivare, adesso sì. Abbracciare il cambiamento, che venga sotto forma di sviluppo tecnologico, di organismi geneticamente modificati o di carne coltivata è necessario. Il clima cambia, la popolazione pure, non è possibile trincerarsi dietro una presunta tradizione e privarci di strumenti indispensabili.