Lo zucchetto di Pio X, ovvero: Mussolini il superstizioso
di Paolo Cortesi
Su questo, tutti i biografi di Mussolini sono d’accordo: era superstiziosissimo.
Lo scrissero testimoni sia contrari che devoti al duce. Tutti coloro che furono abbastanza vicini al dittatore ricordano il suo stizzito orrore per quelli che avevano fama di menagramo, la sua passione per amuleti e portafortuna, la sua attenzione a segni e presagi.
Ateo bestemmiatore e intransigente anticlericale da giovane, Benito Mussolini mutò nel tempo il suo rapporto con il trascendente e la religione. Nel tempo della potenza assoluta, si accostò alla chiesa cattolica soltanto per esigenze politiche, per garantire al regime il prezioso sostegno del Vaticano, che infatti ebbe per tutto il ventennio della tirannia. Al tramonto del regime, quando era diventato il capo dello stato fantoccio sottomesso al Reich hitleriano, che si rimpiccioliva sempre di più sotto l’avanzare delle truppe alleate e per la lotta partigiana, avvicinandosi l’inevitabile redde rationem, Mussolini rivelò agli intimi un deismo vago ed emotivo, il sentimento della presenza di uno spirito divino che permeava il mondo, e l’ammirazione per Cristo.
Ma quando tutto andava come voleva lui e niente e nessuno pareva potesse cambiare le cose, Mussolini credeva più a misteriose forze occulte che ad una divinità.
Margherita Sarfatti e la fattucchiera del Duce
Fin da una delle prime biografie di Mussolini, viene raccontata la passione del dittatore per la magia. È una biografia di enorme interesse, perché fu scritta da Margherita Sarfatti (1880-1961), che fu amante e stretta collaboratrice di Mussolini, fino a quando non fu da lui allontanata.
La biografia della Sarfatti, Dux (Milano, Mondadori, 1926), venne attentamente rivista prima della stampa da Mussolini, che ne scrisse la prefazione. Si tratta dunque di un documento “ufficiale”, nel senso che il libro racconta solo quello che Mussolini aveva approvato.
E allora si deve concludere che il duce fu contento che si sapesse della sua iniziazione giovanile all’occultismo da parte di Giovanna la vecchia fattucchiera, «una complessa figura, velata da ombre di reticenza e di enigma».
Questa Giovanna abitava a Dovia, lo stesso minuscolo villaggio (oggi, una parte della città di Predappio) in cui era nato Benito, che la conobbe da bambino. Racconta la Sarfatti che Giovanna era stata una bella donna, aveva avuto tre mariti il primo dei quali morì suicida e l’ultimo la temeva, perché il secondo era morto improvvisamente.
Scrive la Sarfatti:
«Il bimbo (Benito Mussolini, n.d.r.) era spesso intorno a Giovanna, affascinato dalla donna strana e imperiosa, che metteva paura agli altri; ed ella pure lo prediligeva, forse intuendolo carico di fato. Tanti strani segreti – forse, chissà, sono i frammenti di vetuste civiltà naufragate, e oscuramente sopravvissute nella coscienza del popolo? – egli sa dirvi ancor oggi, appresi da Giovanna la fattucchiera: l’influenza malefica della luna, secondo che è nel calare o nel crescere, e perché non bisogna lasciarsi cogliere dal suo raggio nel sonno; e le allegorie dei sogni; e i presagi del mattino di capo d’anno; e la fattura dei ritratti incollati; e le predizioni delle carte; e perché i buoi non si lascian guidare dalle donne […] Mitici, pittoreschi, in parte puerili quei tanti perché del mistero insegnavano al bimbo a sentir l’ansito dell’ignoto, il quale batte alla riva dell’anima, e dove è tanta forza di divino e di umano».
Appare davvero curioso che Mussolini voleva si sapesse che conosceva a fondo la magia popolare. Tuttavia nelle pagine agiografiche della Sarfatti, questi ricordi infantili servono anche a introdurre (giustificare?) una dote di cui Mussolini fu sempre fiero:
«Il sangue mi dice – bisogna che io ascolti il mio sangue, usa dire questo lottatore pur così lucido. È inutile, io sono come le bestie: sento il tempo che viene. Se do retta al mio istinto, non sbaglio mai».
Purtroppo, Mussolini sbagliava spesso e tragicamente, e i suoi errori venivano pagati dagli italiani. Ma non dobbiamo fermarci alla superficie di questa narrazione. Vi troviamo descritta la natura eccezionale del futuro duce, che fin da bimbetto non aveva paura di frequentare la maga che tutti evitavano e che già lo riconosceva «carico di destino»; dobbiamo vedere l’origine delle doti innate del duce che ne facevano un essere superiore, il capo che ha sempre ragione.
Mussolini, però, nei fatti era più semplicemente superstizioso; osservava tutte quelle assurde pratiche che dovrebbero favorire la fortuna e soprattutto scansare le cosiddette negatività.
Ancora la Sarfatti scrisse che, nella primavera del 1923, quando morì lord Carnarvon (1866-1923), finanziatore dello scavo della tomba del faraone Tutankhamon, i giornali inglesi e americani dettero origine alla leggenda della maledizione del faraone, che aveva punito con una morte atroce chi aveva profanato la sua tomba.
A Mussolini era stata donata poche settimane prima una mummia, che era stata collocata nel salone della Vittoria di palazzo Chigi. Una sera, sconvolto dal terrore di poter essere colpito da una maledizione simile a quella che (ne era certo) aveva ammazzato Carnarvon, «il condottiero balzò al telefono, chiamò, tempestò una fila d’ordini secchi e concitati. […] Telefonò al tocco, ritelefonò alle due, di dieci in dieci minuti, per assicurarsi che venissero subito eseguiti gli ordini» per trasportare la mummia il più lontano possibile da lui.
Il giornalista Giorgio Pini (1899-1987) fu un fedelissimo di Mussolini, che seguì nella tremenda avventura della Repubblica Sociale Italiana, e fu nominato sottosegretario al ministero dell’interno. Pini fu uno dei fondatori del Movimento Sociale Italiano.
A Silvio Bertoldi, in una intervista nel 1965, Pini raccontò:
«Era (Mussolini, n.d.r.) superstizioso. Temeva i gatti neri, le manifestazioni della jettatura, e fuggiva come la peste le persone che si diceva portassero male. C’erano dei fascisti la cui vista, benché li stimasse, lo spingeva alle più note e visibili forme di scongiuro. Non si peritava, specie nei primi tempi, di far le corna pubblicamente, se credeva che ne fosse il caso. Non parlava mai della morte e detestava quelli che ne parlavano. Odiava i funerali, le apparenze fisiche della morte. Quando un funerale passava sotto i suoi balconi, ed egli lo vedeva, aveva la giornata rovinata dal cattivo umore. Sul suo giornale non voleva che si pubblicassero fotografie di morti e me lo disse chiaramente: mai fotografie di cadaveri, salvo che si tratti di caduti in guerra; mai fotografie di cortei funebri».
Un biografo di Mussolini, Christopher Hibbert, ricordava:
«Quando abitava in via Rasella, teneva un ferro di cavallo appeso dietro la porta, come nelle stalle romagnole. Ed era la porta del presidente del Consiglio, nell’appartamento dove riceveva ministri e personalità insigni!».
Cesare Rossi (1887-1967) fu uno dei più diretti collaboratori di Mussolini fin dalle origini del fascismo, e arrivò ai vertici del Partito Nazionale Fascista.
Nel 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il Rossi venne usato come capro espiatorio per placare l’opinione pubblica e l’opposizione politica. Dopo lunghi anni di carcere e di (comodo) confino, Rossi scrisse libri di memorie che sono piuttosto reticenti per i fatti più scottanti, ma che sono preziose testimonianze sull’uomo Mussolini.
Nel libro Mussolini com’era (Roma, Ruffolo editore, 1947), tutto il capitolo XIX è dedicato a «Mussolini superstizioso». Apprendiamo così che, una domenica mattina della primavera del 1923, il Presidente (allora non ancora duce) si apprestava a partire per Pisa in uno dei suoi tanti voli, nonostante Acerbo, De Bono, Finzi, Chiavolini e Bianchi lo pregassero di essere prudente e di prendere il treno o l’automobile. Mussolini non sentiva ragioni, diceva: «La passione del volo è più forte di me». Ma poco dopo arrivarono due deputati che avevano fama di jettatori e Mussolini, ovviamente, non decollò.
Se evitava certe persone solo perché ritenute menagramo, il dittatore favoriva coloro che credeva prediletti dalla fortuna: De Vecchi e Badoglio, ad esempio. È però vero che erano più numerosi quelli ritenuti jettatori che i portafortuna; Cesare Rossi elenca, senza fare i nomi, «un’infinità di gente che al regime aderiva almeno spiritualmente che avrebbe potuto dare ad esso un contributo di competenza notevole» e che invece il duce tenne sempre in disparte perché era convinto che portassero male. Naturalmente, durante la dittatura nessuno doveva sapere con quali irragionevoli criteri il duce valutava e sceglieva le persone.
Mussolini e gli scongiuri dopo Piazzale Loreto
Dopo la Liberazione, apparvero memoriali e ricostruzioni che svelarono vent’anni di storia. Sul Corriere d’informazione (il Corriere della Sera dopo l’epurazione) nel 1946 fu pubblicata una serie di articoli dal titolo comune “Al tempo di Villa Torlonia”, firmati da un non meglio identificato P. G. Antonino, che sarebbero basati sulle confessioni del giardiniere della faraonica villa patrizia del principe Torlonia, nel cui splendido Casino Nobile abitava gratis la famiglia Mussolini.
Sul Corriere d’Informazione del 10-11 maggio 1946, uscì un articolo intitolato “Per gli stregoni porta spalancata”.
L’articolo è poco noto, e per questo è ancora più interessante citare i passi più notevoli:
«Ogni tanto, nel giardino di Villa Torlonia – secondo narrò quel poveromo del giardiniere – entravano qualche indovino, maga o mago, e qualche cartomante dei più quotati della capitale; e si tenevano conciliaboli e sedute spiritiche. Astrologhi e indovini ne venivano anche da altre città e dall’estero. Molte decisioni, sia della vita privata sia riguardanti lo Stato, erano ispirate a quelle consultazioni di carattere esoterico e spesso ciarlatanesco. Una volta successe persino che Mussolini rimanesse chiuso in villa per tutto il giorno. Gli avevano predetto un attentato; e l’attentato avvenne veramente, il giorno successivo, in Campidoglio. Questo fatto confermò tutta la famiglia nella sua superstizione. L’indovina così precisa era certa Maria Mallegni da Pedona (Lucca); non si sa perché dopo l’attentato fu cacciata in prigione dove rimase parecchi giorni. Col tempo, tuttavia, divenne la stregona preferita del grand’uomo».
L’attentato cui si fa riferimento è quello che accadde il 7 aprile 1926. Mussolini aveva inaugurato un congresso internazionale di chirurgia e stava lasciando il palazzo del Campidoglio, quando la cinquantenne irlandese Violet Gibson (1876-1956) gli sparò un colpo di pistola a distanza ravvicinata ma lo mancò, ferendolo di striscio al naso.
Dopo vent’anni di silenzio e di applausi a comando, poter dire tutte le bassezze dell’uomo che aveva schiavizzato l’Italia era un piacere cui non si voleva rinunciare. Articoli come quelli del misterioso P. G. Antonino sono preziose testimonianze della fine di un incubo, in un tempo ancora difficilissimo, ma ricco di speranze. Proprio per quella sorta di frenesia liberatoria che lo anima, lo storico non può accettare a scatola chiusa tutto quello che contiene, ma deve verificarlo con cura, a partire da quella Maria Mallegni che finora non era nota come una delle maghe e astrologhe di cui Mussolini si sarebbe circondato. E comunque si tratta di un documento di enorme interesse, in sintonia con dichiarazioni di convinti fascisti.
Il Duce e lo zucchetto papale
Un’altra rivelazione straordinaria vuole che il duce portasse addosso un talismano eccezionale: lo zucchetto di Pio X. Lo racconta Giulio Castelli, nel suo volume Il Vaticano nei tentacoli del fascismo (Roma, Donatello De Luigi, 1946). Precisiamo subito che Castelli era un giornalista cattolico ed il suo libro intendeva dimostrare che la Chiesa non solo non aveva avuto alcuna collusione col fascismo, ma anzi lo aveva contrastato in ogni modo, in quella che l’autore definì «una lotta sotterranea». La tesi di Castelli, pubblicata poco dopo la fine della guerra, non è sostenibile; il legame tra chiesa di Roma e fascismo è un fatto storico, ma nel 1946 era ovvio che molti cattolici volessero prendere le distanze dal regime appena finito.
Così, nelle pagine di Castelli troviamo un Mussolini arrogante verso il Vaticano che, da parte sua, tentava in ogni occasione di limitare lo strapotere del duce.
«Mussolini, superstizioso come una donnicciuola» scrive Castelli «aveva appreso con terrore che il Pontefice in un suo discorso aveva detto: “Chi mangia del Papa, ne muore” e la frase lo aveva addirittura terrorizzato. E veramente, dati gli esempi fornitici dalla storia, la minaccia non era di quelle da prendersi a gabbo. Sarebbe stato facile ad un uomo di buona volontà e leale, scongiurarla… Mussolini preferì alla via maestra che gli si offriva, quella di premunirsi portando indosso lo zucchetto di Pio X, che gli era stato donato dall’ultima sorella Sarto. La pia reliquia del santo e mite Pontefice lo avrebbe forse salvato, se fosse stata portata con lo spirito del vero cristiano, mentre Mussolini, superstizioso e pagano, la recava seco come un qualsiasi amuleto, forse la conservava insieme a qualche “simbolo” volgare e osceno cui il popolino attribuisce potere di “portafortuna”».
La frase che spaventò Mussolini fu effettivamente pronunciata da papa Pio XI, ma in francese (Qui mange du Pape en meurt, proverbio francese dell’epoca di papa Alessandro VI Borgia), il 28 luglio 1938, ricevendo gli alunni del Collegio di Propaganda Fide.
In quell’occasione, il pontefice aveva difeso l’Azione Cattolica dalle ingerenze del regime e si era dichiarato contrario al razzismo che, proprio in quei giorni, stava diventando legge di stato.
La reazione fascista fu immediata e severa; Galeazzo Ciano (1903-1944), allora ministro degli affari esteri, convocò il nunzio pontificio, cardinale Francesco Borgoncini Duca (1884-1954) e la dissidenza vaticana finì subito.
E Mussolini? Portava davvero in tasca lo zucchetto di papa Sarto come amuleto?
Ovviamente, non lo sapremo mai con certezza. Lo storico può solo affermare che testimonianze autorevoli (prima fra tutte, il libro della Sarfatti, che reca il placet di Mussolini) dimostrano che l’uomo che fu padrone d’Italia per vent’anni era nei fatti superstizioso, un ottimo allievo di Giovanna la fattucchiera.
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