“Time slip” all’abbazia di Novalesa: quando i monaci viaggiavano nel tempo
Giandujotto scettico n° 176 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Provate a immaginare la scena: siamo in pieno Medioevo; voi siete un monaco benedettino, e un bel giorno uscite dalla vostra abbazia per meditare sulla grandezza del Creato. Quando tornate sui vostri passi, però, il paesaggio sembra sottilmente cambiato. La guardia all’entrata non vi riconosce, vi accusa di essere un impostore, e nessuno dei monaci sembra avervi mai visto. Solo a stento riuscite a comprendere quello che è successo: da quando avete lasciato la vostra cella, quella mattina, sono passati più di trecento anni…
È quanto, in sostanza, sarebbe accaduto al buon sant’Eldrado, stando a una leggenda ambientata presso l’abbazia di Novalesa, in val di Susa, nella provincia di Torino.
Quel gran santo dell’Eldrado
Ma chi era il protagonista di questa vicenda? L’abbazia di Novalesa fu un importante complesso, sorto per controllare il valico del Moncenisio, che conduce in Francia. Abbandonata e ricostruita più volte, è stata affidata negli anni ‘70 del secolo scorso ai monaci benedettini, e oggi ospita un museo archeologico e alcuni importanti cicli pittorici dell’XI secolo. Raggiunse il culmine dello splendore negli anni tra l’820 e l’845, quando fu abate – per l’appunto – sant’Eldrado.
Di questo santo si sa poco. Si dice che fosse nato intorno al 780 da una famiglia aristocratica francese, e che, rimasto orfano a vent’anni, avesse lasciato tutto per diventare pellegrino. Sulla via del ritorno da Santiago di Compostela, si sarebbe fermato alla Novalesa, e lì sarebbe diventato prima monaco e poi abate. Dove la storia si ferma, però, iniziano le leggende. E su sant’Eldrado ce ne sono moltissime.
Un po’ come san Patrizio, avrebbe liberato dai serpenti la vicina valle di Briançon, e in particolare il villaggio di Monêtier-les-Bains, chiudendo i rettili in una caverna. Avrebbe salvato dal naufragio una nave il cui equipaggio aveva, prima di lui, invocato senza successo san Nicola; avrebbe salvato un pastorello nella cui gola, mentre dormiva, si era insinuato un serpente (un motivo folklorico, quello dei bosom serpent, antichissimo). Avrebbe poi fatto sgorgare una fonte di olio da una roccia, trasformata in semplice acqua quando i contadini della zona pensarono di venderla lucrando così in maniera inopportuna sul miracolo.
Un sonno di trecento anni
Eccoci al curioso prodigio del “sonno di Sant’Eldrado”, raccontato anche dal sito Paesaggio Piemonte della Regione:
L’abate Eldrado si rifugiava di solito in una balma selvaggia, situata nel parco dell’Abbazia, poco distante dalla fonte, e lì poteva meditare, contemplando la natura. Un giorno uscì con una ciotola di minestra bollente e, mentre attendeva che si raffreddasse, si fermò ad ascoltare il canto di un usignolo. Appena si destò, la minestra era tiepida al punto giusto per essere consumata. Dopo il pasto tornò al monastero, ma il monaco di guardia non lo riconobbe e non volle farlo entrare nonostante egli fosse l’abate. Eldrado non sapeva, infatti, che erano passati ben trecento anni da quando era uscito per meditare. Quando i monaci consultarono i documenti dell’Abbazia, si resero conto che Eldrado era veramente esistito e gli permisero di rimanere. Ancora oggi, si vede la balma nella quale Eldrado cadde in estasi, situata vicino alla “fonte dell’olio” da cui sgorga l’acqua alla quale i Novalicensi attribuiscono virtù terapeutiche.
La leggenda è sicuramente antica: compare, oltre che in diverse raccolte sul folklore della zona, a margine di una vita del santo compilata nel 1756 dal canonico Piergiacinto Gallizia di Giaveno, che in quell’occasione assunse un po’ il ruolo del “debunker”. Commentava infatti:
Molti hanno pensato, che s. Eldrado fosse quel Monaco, di cui parla Maurizio Vescovo di Parigi in un sermone per la Domenica terza dopo Pasqua, che allettato dal canto d’un usignolo visse trecento anni, pensando, che non fosse passato maggior tempo di quello che corre tra ‘l fine del Mattutino infino all’ora di mezzodì, o di Prima, come altri malamente scrissero. Ma ciò non è accaduto al nostro Santo, come lo fa palese il sapersi l’anno della morte, e dell’entrata sua nel Monistero.
Il nostro sant’Eldrado non è però l’unico monaco che, secondo la leggenda, avrebbe subito un time slip temporale. Sembrerebbe, stando a diverse fonti, che viaggiare nel tempo fosse un’attività comune, tra i monaci del Medioevo.
I Sette dormienti di Efeso: un “time slip” cristiano
Le leggende sui viaggi nel tempo sono innumerevoli, e vanno dalle fiabe, alla mitologia norrena, alla Grecia antica (il filosofo Epimenide di Creta, ad esempio, si diceva si fosse addormentato in una grotta per svegliarsi dopo 57 anni). Se si parla di Cristianesimo e viaggi nel tempo, la prima leggenda che viene in mente è quella dei sette dormienti di Efeso, che compare anche nella celeberrima Leggenda aurea di Jacopo da Varagine del XIII secolo.
Qui si racconta la vicenda di sette giovani cristiani, nativi di Efeso, che scappano dai soldati durante le persecuzioni dell’imperatore romano Decio, che regnò per un paio d’anni alla metà del III secolo. I fuggitivi si nascondono in una grotta, dove si addormentano. Quando si svegliano, pensano che sia passato appena un giorno, e uno di loro viene mandato a comprare del pane. Il fornaio, nel vederlo, rimane stupito dal suo vestiario antiquato, e ancora più si stupisce quando questo cerca di pagare con una moneta ormai fuori corso, risalente all’epoca di Decio. L’imperatore in carica è infatti Teodosio. I giovani hanno dormito nella grotta per ben 187 anni. Nel frattempo il Cristianesimo ha trionfato, sotto Teodosio è diventato religione di stato e ormai ci sono chiese in ogni angolo dell’Impero – peraltro morente.
Dietro alla leggenda dei Sette dormienti c’era l’idea di una Provvidenza che avrebbe sostenuto i cristiani perseguitati e, alla fine, la storia stessa: era solo questione di tempo, la vera religione avrebbe trionfato. La vicenda di sant’Eldrado ha invece un sapore diverso. In un certo senso, potremmo definirla una leggenda metropolitana ante litteram. La sua versione più prossima è la leggenda del monaco Felix.
Il sonno del monaco Felix
Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) è stato un poeta importante per la letteratura statunitense. Tra le sue opere figura The Golden Legend, un lungo poema in cui l’autore fece confluire diverse storie della tradizione cristiana, a cominciare da quella del Faust. Ma tra le sue pagine si trova anche la leggenda del monaco Felix, assai vicina a quella di sant’Eldrado. Nella sua versione, il religioso si avventura nella foresta, “fuori dal suo convento di pietra grigia”, per meditare sulle Scritture. In particolare, Felix riflette sul Salmo 90, secondo cui per il Signore “un giorno è come mille anni”, tanto da esclamare:
“Credo, o Signore, in ciò che è scritto nella tua Parola,
ma ahimè! Non capisco!”
A quel punto Felix vede scendere dal cielo un uccello bianco, che comincia a cantare in maniera così soave che il monaco rimane estasiato ad ascoltarlo, e gli sembra di essere stato trasportato in Paradiso. Quando la liturgia delle Ore, all’ora sesta (cioè a mezzogiorno), lo richiama alle sue incombenze, il monaco torna al convento, ma qualcosa non quadra:
Cercò ogni volto noto, ma i volti erano nuovi e strani;
Nuove figure sedevano negli stalli di quercia, nuove voci cantavano nel coro;
Eppure il luogo era lo stesso, le stesse mura scure in pietra grigia,
gli stessi chiostri e il campanile a guglia.
Straniero e solo in quella fratellanza
si trovava il monaco Felix.“Quarant’anni”, disse un frate, “sono stato priore
di questo convento nel bosco, ma per tutto questo tempo
mai ho visto il tuo volto!”Il cuore del monaco Felix sobbalzò ed egli rispose con tono sottomesso:
“Questa mattina, dopo l’ora prima,
ho lasciato la mia cella e sono andato da solo,
e per tutto il tempo ho ascoltato
il canto melodioso di un bellissimo uccello bianco,
finché ho sentito le campane del convento suonare
il mezzogiorno dalle loro torri sonore.
Era come se avessi sognato; perché quelli che a me erano sembrati
momenti, erano state ore!”“Anni!” disse una voce lì accanto.
Era un vecchio monaco che parlava,
da una panca di quercia al muro fissata,
ed era il monaco più anziano di tutti.
Per un secolo intero era stato lì, servendo Dio nella preghiera,
la più mite e umile delle sue creature.Ricordava bene le sembianze di Felix, e disse,
parlando in modo distinto e lento:
“Cento anni fa, quando ero novizio,
c’era qui un monaco, pieno della grazia di Dio,
che portava il nome di Felix.
Quest’uomo dev’essere lui”.E portarono alla luce un volume vecchio e ingiallito,
un enorme tomo, rilegato in ottone e pelle di cinghiale,
in cui erano scritti i nomi di tutti coloro che erano morti lì,
nel convento, da quando era stato edificato.E là trovarono, proprio come diceva il monaco,
che in un certo giorno di cent’anni prima,
era uscito dal cancello il monaco Felix,
e mai più aveva varcato la sacra porta.
Monaci crononauti sparsi per l’Europa
Longfellow riprendeva una lunga tradizione, quella che raccontava di monaci che si attardavano ad ascoltare canti di uccelli o che venivano trasportati in paradiso. E che, al ritorno, scoprivano immancabilmente che il tempo per loro era trascorso in maniera diversa rispetto al resto del mondo: per loro erano passate poche ore, per gli altri cento, duecento, o anche trecento anni. Questo motivo folklorico è, probabilmente, antichissimo: faceva parte del repertorio di exempla che i predicatori raccontavano nei sermoni ai loro fedeli. Un bell’esempio di epoca medievale è questa Cántiga spagnola del Tredicesimo secolo, attribuita a re Alfonso X il saggio (la potete ascoltare qui).
Come avviene ancora oggi con le leggende metropolitane, la vicenda veniva raccontata un po’ ovunque come davvero accaduta in un particolare luogo o convento. Un bel compendio di queste leggende si trova in The Science of Fairy Tale. An Enquiry Into Fairy Mythology (1891), opera del folklorista britannico Edwin Sidney Hartland, particolarmente interessato alle analogie tra questo filone narrativo e i time slip dei balli con le fate.
Qualche esempio di storia analoga a quella di sant’Eldrado? Lo scrittore britannico Robert Southey (1774-1883) racconta in The Doctor etc. che in Spagna, presso il convento di San Salvador de Villar, gli era stata mostrata la tomba dell’abate protagonista del miracolo. E critica, anche a causa della polemica generale anticattolica, “i monaci disonesti” che, “per l’onore del loro convento e per ragioni di lucro” spacciavano per vera la leggenda ai viaggiatori.
In Galles, vicino a Clynnog-Fawr, dove sorgono i resti di un monastero in rovina, esiste tuttora un luogo che porta il nome di Llwyn-y-Nef, cioè il Bosco del Paradiso. Il nome sarebbe dovuto a un monaco che si era addormentato al canto di un uccellino e vi aveva dormito migliaia di anni, fino a quando non aveva udito una voce chiamarlo. Tornato al monastero e scoperto quanti anni erano trascorsi, aveva chiesto un letto dove passare la notte. I monaci, il giorno dopo, non trovarono altro di lui, se non un mucchietto di cenere.
Una storia simile è ambientata all’abbazia di Affligem, in Belgio: qui l’abate Fulgentius sarebbe stato avvertito dai suoi confratelli che un monaco sconosciuto aveva bussato alla porta, e che sosteneva di vivere lì. Interrogato in merito, raccontò che aveva cantato il mattutino con gli altri monaci, e che arrivato al solito versetto del Salmo 90 era caduto in profonda meditazione. Quando tutti se n’erano ormai andati aveva sentito un uccellino cantare, e lo aveva seguito nella foresta. Quando Fulgentius gli chiese chi era il re che stava regnando, e quale era il nome del suo abate, scoprirono che il monaco doveva essersi addormentato trecento anni prima…
Variazioni sul tema
Ancora, sempre nel volume di Hartland, figura una storia simile che ha per protagonista uno studente di Kronstadt (l’odierna Brașov, in Romania), uscito a passeggiare per provare il suo sermone che presto avrebbe dovuto tenere nella chiesa di san Giovanni. Qui la storia differisce dalle precedenti: c’è di nuovo l’uccello paradisiaco, ma questa volta il volatile conduce il monaco in una caverna piena di ricchezze, custodite da un nano. Tornato all’aria aperta, lo studente scopre che sono trascorsi cento anni da quando era uscito per provare il suo sermone. L’epilogo, questa volta, è ancora più tragico: il giovane, affamato per il suo digiuno di cento anni, si siede al tavolo con i confratelli, ma appena le sue labbra toccano la zuppa il suo corpo cambia, e il giovane si trasforma in breve in un vecchio decrepito. Gli altri monaci hanno appena il tempo di portarlo a letto, prima che esali l’ultimo respiro.
Esiste anche una versione al femminile della leggenda, illustrata in una ballata tradizionale e ambientata al convento di Beverley Minster, in Inghilterra. Qui un monumento ricorda l’avventura di due suore che, scomparse una sera alla vigilia di Natale, erano ricomparse misteriosamente dopo alcuni mesi, alla vigilia di san Giovanni, raccontando di essere state in Paradiso, e che vi sarebbero tornate di lì a poco. Per loro era passata appena un’ora, da quando si erano allontanate. Anche in questo caso, la visione celestiale ha un prezzo: le due donne muoiono nella notte…
In molti casi queste storie richiamano le leggende sul mondo delle fate, centrale nel folklore anglosassone. In questi racconti, il (o la) protagonista finisce per partecipare a un ballo delle fate, o a un banchetto, o a far da servitore nel loro regno. Il ritorno a casa si trasforma spesso in un dramma: se per lui sono passate poche ore o giorni, per il resto del mondo sono passati anni. E non è mancato chi ha visto in queste leggende un parallelo con i racconti dei “rapiti” UFO, oppure con viaggi interstellari alla velocità della luce in cui in tempo, per via della relatività, scorre diversamente. A noi sembra più semplice e adeguato dal punto di vista filologico leggerle come motivi folklorici ricorrenti – in un certo senso, come “leggende metropolitane” del nostro passato.
Il time slip di sant’Eldrado (e degli altri monaci con lui) potrebbe corrispondere forse a una cristianizzazione di queste storie, oppure, più semplicemente, rappresentare una delle tante possibili variazioni sul tema. Il Paradiso – così come il regno delle fate – è un luogo “altro”, un aldilà in cui le regole umane non valgono. Vederne uno scorcio, o esserne partecipe grazie alla musica di un uccello celestiale è un privilegio, che però ha un prezzo: non si potrà continuare la propria vita come prima. Nel migliore dei casi si troverà il proprio mondo ormai cambiato; nel peggiore, gli anni trascorsi piomberanno su chi ha vissuto l’esperienza tutti insieme, portandolo alla vecchiaia, oppure alla morte. Rimane comunque il racconto di un’esperienza straordinaria, un miracolo sui generis che colpiva proprio per la sua peculiarità. Per questo è stato raccontato più volte, ambientandolo un po’ ovunque, e i suoi caratteri sono facilmente riconoscibili ancor oggi.
Che uno di questi “portali” tra il Paradiso e la Terra possa essere a pochi chilometri da Torino è una cosa che potrebbe far sorridere, ma non può certo lasciarci indifferenti.
Si ringraziano Davide Ermacora e Roberto Labanti per gli utili suggerimenti.
Immagine di apertura: l’abazia di Novalese, cristianoalessandro/iStock